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La società del vizio è destinata ad autodistruggersi

Ci si faccia caso: le parole virtù e vizio, e gli aggettivi virtuoso e vizioso, molto usati al tempo della nostra infanzia, sono pressoché spariti dal vocabolario, al punto che i giovani, probabilmente, anche se ne intendono il significato teorico, non hanno più alcuna idea del loro significato effettivo, o, peggio, ne hanno un’idea totalmente distorta. Mentre cinquant’anni fa dire di una persona, ad esempio di una donna, che era una sposa e una madre virtuosa, significava renderle una delle lodo più ambite, oggi chiamare "virtuosa" una donna significa affibbiarle l’etichetta di bigotta, arretrata, una che non sa vivere. Infatti: un tempo voleva dire che quella donna era casta e fedele al marito; oggi vorrebbe dire che non sa stare al passo coi tempi e che suscita la curiosità, non proprio benevola, delle altre. È così: la virtù e il vizio non possono coesistere; non possono "rispettarsi" reciprocamente; dove c’è la virtù, il vizio insorge, si adira, inventa mille astuzie e mille perfidie per farla cadere e levarsi di torno il fastidioso oggetto di paragone. Si pensi a un gruppo di ragazzi: se si accorgono che uno di loro è casto, ha pensieri puri, guarda alla vita, e in particolare all’altro sesso, con profondo rispetto, subito gli altro lo prendono in giro e soprattutto s’ingegnano di corromperlo: lo prendono sotto le loro ali per insegnargli la strada del vizio, e non si chetano finché non lo hanno portato sulla loro stessa strada e ne hanno fatto uno di loro. Stessa cosa in un gruppo di ragazze. Si accorgono che una di loro è ancora vergine, e che desidera conservarsi tale fino a quando incontrerà l’uomo della sua vita? Allora è subito un coro di risatine, di motti ironici, di osservazioni taglienti; e anche in quel caso, è cura delle compagne più vissute e navigate prendersi carico della povera ingenua e condurla a diventare come una di loro, cioè una ragazza senza pudore. Ora che negli asili e nelle scuole elementari si insegna che la masturbazione è la cosa più bella che ci sia, beninteso fino alla consumazione dei primi rapporti sessuali completi, non importa poi se eterosessuali oppure omosessuali, il che avviene, secondo le statistiche, verso i tredici anni al massimo, parlare di virtù e vizio sarebbe veramente incongruo. Anzi, nei confronti dei comportamenti e degli stili di vita virtuosi c’è un vero e proprio pregiudizio: se un giovane non si masturba abitualmente, se non ha dei rapporto sessuali completi e frequenti a partire almeno dai tredici anni, se non mostra nelle cose del sesso la stessa disinvoltura che si potrebbe avere con le macchine o i telefonini, una disinvoltura fatta di cinismo e disincanto, vuol dire che non si è persone normali, che non si è affidabili, che si ha qualcosa in meno, non certo qualcosa in più, rispetto a ciò che si dovrebbe avere. Dunque, meglio stare alla larga da individui così strani e incomprensibili, oppure convertirli al più presto e ricondurli a più ragionevoli abitudini.

Eppure, è evidente che quando una società si abbandona ai vizi; quando li accetta, li tollera perfino con compiacimento, e infine li celebra e li esalta, e denigra sistematicamente la virtù, si pone da se stessa sulla via che conduce all’autodistruzione. I nostri avi lo sapevano ed era per questo, e non per mero bigottismo, che esaltavano la virtù e condannavano il vizio. La storia dell’arte ci mostra che sia le pitture delle chiese che quelle dei palazzi comunali raffiguravano allegoricamente le virtù e i vizi, con la Giustizia in mezzo, a premiare le une e a castigare gli altri. Si prenda la celebre Cappella degli Scrovegni, a Padova, sulle cui pareti interne Giotto ha illustrato la galleria delle virtù e dei vizi; oppure gli affreschi con gli Effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo comunale di Siena, dove la prima forma di governo è ispirata dalle virtù, la seconda è irretita dai vizi. Poi, nel corso del rinascimento, le due società, quella religiosa e quella civile, cominciano a separare le loro vie; un po’ alla volta, subentra una mentalità nuova, secondo la quale vizio e virtù sono concetti relativi, e tutto sommato superati, e l’importante è spassarsela e cogliere dalla vita tutte le occasioni di piacere, di gloria e di ricchezza, come si vede nelle novelle del Decamerone. Non solo: talvolta le virtù sono controproducenti, e i vizi, pur in se stessi deprecabili, conducono a risultati positivi sia per il singolo che per la società nel suo insieme: è il tema della Favola delle api di Bernard de Mandeville. Di qui alla celebrazione aperta e sfrontata dei peggiori vizi e delle azioni più turpi, e al dileggio delle virtù, come farà il "divino" marchese De Sade, il passo è in fondo breve. In Justine, o le disavventure della virtù, questi vuole convincere il lettore che essere virtuosi è non solamente stupido, ma anche controproducente, perché esiste una sorta di provvidenza alla rovescia che premia sistematicamente il vizio e punisce la virtù; e quanto più è grande il vizio, tanto maggiore il premio, e tanto maggiore la virtù, tanto più crudele il castigo. Di qui una sarabanda d’incesti, di stupri, di delitti, di profanazioni, che a stento una mente normale riesce a concepire, e solo con enorme fatica una persona dotata di una sana moralità riesce a leggere. La società, fino a un certo punto, si rese conto del pericolo e cercò di porre un argine, anche se si trattava di uno sforzo contraddittorio, perché una società liberale prima o poi deve riconoscere che tutto ciò che la legge non vieta, può e anzi deve essere consentito; e che anche le cose più turpi, quando vengono praticate da molti, alla fine devono essere accettate dalla legge. Così, il processo che vide la rovina di Oscar Wilde, e si concluse con la sua condanna per sodomia a due anni di lavori forzati, ebbe forse sullo scrittore una funzione catartica, stando almeno al libro forse più bello che egli abbia mai scritto, De profundis, ispiratogli appunto da tale durissima esperienza. Ma poteva essere credibile una società che da un lato creava e moltiplicava le occasioni di vizio, e segretamente se ne compiaceva e le approvava, salvo poi stracciarsi le vesti e intervenire coi rigori della legge, se qualcuno era così malaccorto da oltrepassare la soglia delle discrezione, e dire o fare apertamente quel che veniva senz’altro tollerato nella sfera privata? Evidentemente no; e infatti, un poco alla volta la società ha smesso di perseguire il vizio, come nel caso dell’adulterio, depennato dal codice penale e lasciato ai soli rigori della chiesa; la quale, a sua volta, e sia pure con un certo ritardo, ha finito per adeguarsi a sua volta, fino a quel capolavoro di perfida ambiguità che è la cosiddetta esortazione apostolica Amoris laetitia, nella quale Bergoglio apre comunque la porta alla tolleranza dell’adulterio, non solo, ma della convivenza dell’adultero con un nuovo partner rassicurandolo che non deve pentirsi e cambiar vita, perché Dio è contento e soddisfatto di quella situazione, se in coscienza egli sente di non poter fare altro. Quanto alla sodomia, conosciamo le posizioni del gesuita James Martin; ma è ormai buona parte del clero che si è posta in atteggiamento dapprima possibilista, indi apertamente favorevole, al punto che in molte diocesi vengono celebrate delle sedicenti Messe dell’Orgoglio Gay, celebrando così alla luce del sole, e davanti al Santissimo, due vizi capitali invece di uno solo: la fornicazione contro natura e l’orgoglio, padre, come una volta si diceva, di tutti i vizi.

Ma quali sono i vizi, e quanti? Nel suo Liber vitae meritorum, la monaca Ildegarda di Bingen ne elenca ben trentacinque: 1) amore del secolo; 2) sfacciataggine; 3) ricerca sfrenata del divertimento; 4) durezza di cuore; 5) ignavia; 6) ira; 7) dissolutezza; 8) gozzoviglia; 9) grettezza; 10) empietà; 11) menzogna; 12) litigiosità; 13) malinconia; 14) intemperanza; 15) ostinazione; 16) orgoglio; 17) invidia; 18) smodato amor di gloria; 19) disobbedienza; 20) incredulità; 21) disperazione; 22) libidine; 23) ingiustizia; 24) ottusità; 25) dimenticanza di Dio; 26) volubilità; 27) preoccupazione per le cose terrene; 28) carattere chiuso; 29) avidità; 30) spirito di discordia; 31) scurrilità; 32) viaggiare superfluo; 33) magia; 34) avarizia; 35) tedio della vita. E ad esse contrappone, punto per punto, altrettante virtù: 1) amore per le cose del cielo; 2) disciplina; 3) verecondia/mortificazione; 4) misericordia; 5) divina vittoria; 6) pazienza; 7) desiderio di Dio; 8) moderazione (continenza); 9) generosità; 10) pietà; 11) verità; 12) pace; 13) beatitudine; 14) discrezione; 15) salute dell’anima; 16) umiltà; 17) amore; 18) timore di Dio; 19) ubbidienza; 20) fede; 21) speranza; 22) castità; 23) giustizia; 24) fortezza; 25) santità; 26) costanza; 27) desiderio delle cose celesti; 28) compunzione del cuore (contrizione); 29) disprezzo del mondo; 30) concordia; 31) reverenza (rispetto); 32) perseveranza; 33) servizio a Dio; 34) sobrietà; 35) gioia celestiale. Non tutti i vizi sono ugualmente dannosi e ripugnanti; ve ne sono otto che spiccano per la loro diabolica perfidia, e cioè: ingordigia, grettezza, empietà, menzogna, litigiosità, malinconia, intemperanza e ostinazione, quest’ultimo particolarmente temibile perché conduce alla perdita irremissibile delle anime. Ildegarda spiega che l’ingordigia è in cima alla lista perché Satana, nella sua infernale malizia, se ne serve per rendere gli uomini più malleabili a tutti gli altri vizi, spianando loro la strada, specie alla superbia.

Ma cosa avrebbe pensato Ildegrarda di Bingen, mistica, teologa, naturalista, musicista, scrittrice e molte altre cose ancora, in ciascuna delle quali raggiunse l’eccellenza, del gesuita spagnolo José Maria Rodriguez Olaizola, acceso sostenitore della causa omosessualista, il quale, nel sito ufficiale dei gesuiti, pubblica una lettera aperta di sostegno alla comunità LGBT, in occasione del mese dedicato al cosiddetto orgoglio gay (ma una volta il mese di maggio, per i cattolici, non era quello dedicato alla Vergine Santissima?). In essa, dopo aver deprecato il fatto che quest’anno, a causa della pandemia da Covid-19, non ci possono essere sfilate di carri, carrozze, moltitudini festanti e così via, scrive testualmente (https://www.sabinopaciolla.com/il-gesuita-padre-jose-maria-rodriguez-olaizola-ed-il-sostegno-alla-comunita-lgbt/):

Un giorno il Gay Pride o qualsiasi altro [giorno dell’] orgoglio non saranno necessari. Il giorno in cui ognuno riconoscerà la dignità delle persone, di ogni persona, senza che l’orientamento sessuale sia un problema per nessuno. Il giorno in cui il "coming out" non sarà una novità, perché sarà considerato normale.

Sono ancora troppe le persone che credono che avere un figlio gay sia una tragedia, un imbarazzo, qualcosa da nascondere. E ancora, nella Chiesa, c’è troppo silenzio di fronte ad alcune dichiarazioni e formulazioni che non rispondono alla realtà pastorale delle nostre comunità, parrocchie, gruppi e spazi di accompagnamento. Troppe persone che riducono l’orientamento sessuale all’ideologia di genere e trasformano tale identificazione in un alibi per non ascoltare le testimonianze di così tanti cristiani gay che chiedono di sentirsi un po’ più a casa quando si tratta di essere una comunità. Troppi pettegolezzi e troppa poca benedizione. Ogni persona deve essere orgogliosa di essere come Dio l’ha creata. Perché alla fine l’omosessualità o l’eterosessualità non sono una decisione stravagante del popolo. Fa parte (e solo una parte) di ciò che la persona è.

Si noti che in questa "pastorale" viene compiuta un’arbitraria identificazione di omosessuale e gay, e di condizione omosessuale e comunità LGBT, mentre è noto che i gay sono quella minoranza di omosessuali che intendono valersi della loro "diversità" per reclamare diritti e per tacitare, criminalizzandola, qualunque critica ai loro stili di vita, matrimoni e adozioni di bambini incluse, cose queste che la maggioranza degli omosessuali non si sognano di chiedere, né di desiderare; e che la condizione omosessuale, che può essere vissuta, e di fatto da molte persone è vissuta, come un qualcosa d’innaturale e di sgradito, cui si può porre rimedio, e per quale il credente si rivolge comunque a Dio, domandandogli la virtù della castità, è cosa ben diversa dalla comunità LGBT, formata da quanti accettano pienamente tale condizione e anzi la ostentano e la sbandierano con orgoglio. Da questa falsificazione della realtà deriva un’altra falsificazione: che i gay (sic) in quanto comunità (sic) abbiano il diritto di sentirsi a casa nella Chiesa; ove è palese l’intenzione ricattatoria: se la Chiesa non li ‘accetta’ significa che non è accogliente, quindi non è la vera Chiesa di Cristo, il quale accoglieva tutti (sic). Ma colpisce ancor più l’affermazione che ogni persona deve essere orgogliosa di essere come Dio l’ha creata. È un’affermazione assurda, e lo si vede subito. Poniamo che una persona nasca con un grave difetto cardiaco: in base al ragionamento di padre Olaizola (e ci trema la mano a scrivere "padre"), essa non dovrebbe sottoporsi ad alcun intervento chirurgico, dal momento che la sua condizione di cardiopatica è congenita, anzi dovrebbe essere "orgogliosa" che Dio l’abbia fatta così. Che pena, vedere indegni ministri di Cristo parlare a questo modo e traviare fino a questo punto le anime, facendosi anche beffe della loro intelligenza, e solo per la smania di sentirsi politicamente corretti, in omaggio alla cultura dominante: liberale, radicale, massonica e libertina. Evidentemente, per costoro la Chiesa ha insegnato per duemila anni dei precetti sbagliati; il clero si è accanito contro certe persone per pura ignoranza; Padri e Dottori della Chiesa si sono totalmente ingannati, e santa Caterina da Siena, la quale diceva che il peccato contro natura è talmente turpe da fare schifo anche ai demoni, era una povera pazza omofoba. Peccato che Caterina sia un gigante, non solo nella storia della Chiesa, ma nella storia d’Europa, mentre di quelli come Olaizola, nullità bramose di piacere al mondo, nessuno si ricorderà. Approvare e incoraggiare i vizi, traviare e ingannare le anime è il vertice della malizia satanica: che mai potrebbe esserci di peggio?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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