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Ciò che abbiamo perso, e come possiamo ritrovarlo

C’è su Youtube un video estremamente interessante, oltre che commovente, intitolato: Quattro passi per Udine. Udine in un frammento di vita nel 1953 (www.youtube.com/watch?v=50EfdXXrBlA), che merita d’esser visto e meditato non solo da chi ha conosciuto quella città così come appare nelle immagini in bianco e nero, né solo da chi comunque abita in essa, a tanti anni di distanza, e quelle scene, quelle case, quelle vie non le ha mai viste e a stento, oggi, riesce a riconoscerle, con uno sforzo dell’immaginazione; ma da chiunque, ovunque viva, sia interessato alla trasformazione economica e culturale che ha cambiato irreversibilmente il volto della nostra società e vorrebbe individuare, studiando quello snodo decisivo, i mezzi per ritrovare ciò che abbiamo perduto: da chiunque, anche quelli che allora non erano nati. Dura circa 6 minuti e mezzo, oltre metà dei quali dedicati a mostrare il volto delle strade e delle piazze, cogliendo quel momento particolarissimo in cui la città vecchia, alcuni anni dopo la tempesta della Seconda guerra mondiale, coi suoi bombardamenti aerei e le feroci distruzioni di edifici vecchi e nuovi, si apprestava a cambiare aspetto, innalzava moderni palazzi residenziali e ad uso amministrativo e commerciale, abbatteva molte antiche case e perfino, inutilmente, dei monumenti storici (come la Torre di Porta San Lazzaro), il tutto però in forme non così rapide che gli abitanti restassero stralunati, anzi creando, sia pure per breve tempo, una magica stagione in cui la vecchia e la nuova anima della città si davano la mano, convivevano con un certo garbo e rendevamo sopportabile il passaggio dal noto all’ignoto. Vi si vede via Gemona più ampia, con la roggia ch’era già stata coperta, ma in compenso in Piazzale Osoppo si vede ancora arrivare sferragliando il simpatico tram bianco, proveniente da Tricesimo e Tarcento (verrà soppresso di lì a qualche anno). E il mercato della frutta in Piazza San Giacomo – al diavolo quelli che la chiamano col nome moderno di Piazza Matteotti – è ancor quello d’un tempo senza tempo, con le venditrici che ridono e scherzano, e tengono in mano la bilancia a stadera, così antica che la usavano già gli etruschi duemilacinquecento anni fa, e così precisa che ci vorranno le bilance elettroniche, di lì a poco, per spodestarla dopo una vita tanto lunga da sembrare eterna. La merce è esposta direttamente nelle ceste, è arrivata con mezzi di fortuna e ripartirà sulle due ruote, o sulle spalle delle vecchie vestite di nero: non ci sono ancora le baracche fisse, di metallo, ordinate e tutte uguali. Ci sono i nuovi caseggiati, grandi, incongrui, eppure non del tutto privi di personalità, come dei giovinetti cresciuto tropo in fretta, goffi e sgraziati, ma pieni di salute; e c’è un discreto traffico automobilistico, anche se non così intenso da disturbare ciclisti e ragazzi in motociclo, che paiono divertirsi a disegnare spiritosi caroselli davanti al Tempio Ossario, ora Piazzale XXVI Luglio. Insomma una città che ha voglia di ricominciare a vivere, che vuol godersi la sua salute, la sua esuberanza, e scommettere nel futuro, senza però recidere il legane col passato, né disprezzare le proprie radici.

Quella che più colpisce, tuttavia, è la parte ove la cinepresa si sofferma sulle persone. Nessuno è mosso da una fretta esagerata, benché se non si vedano, come nelle città del Sud, pensionati seduti tutto il giorno sulle panchine, bensì un’umanità affaccendata, ciascuno diretto ai suoi affari, nondimeno con una cert’aria di signorilità. Ogni volta che l’inquadratura si sofferma su un passante, questi sorride, si ferma o rallenta, guarda dritto negli occhi e si leva il cappello con un gesto elegante, descrivendo un ampio svolazzo nell’aria, quasi come nei Tre Moschettieri. Sulla porta delle osterie ci sono gruppi di avventori, si conoscono, sono amici; sorridono tutti, si rivolgono battute scherzose, guardano la cinepresa e ammiccano, divertiti. Certo, si dirà, sono in posa; forse li hanno scelti apposta, si son messi d’accordo prima. Può darsi. Però quelle facce sono autentiche, sono facce sane di gente sana: gente che prende la vita con la dovuta serietà, ma che è anche capace di sorridere con benevolenza. Senza dubbio ciascuno avrà i suoi problemi, problemi familiari, problemi di salute, problemi di stipendio; eppure nessuno li lascia trasparire, nessuno ne sembra sopraffatto: tutti vivono nel presente, mostrano serenità, hanno i piedi ben piantai sulla terra. Siamo nelle vie centrali, perciò sono quasi tutti figli della borghesia, commercianti, artigiani, qualche professionista; vestiti con decenza, ma senza lusso. Anche le ragazze coi capelli alla maschietta, come usava allora, sono serie ma non accigliate, sulle labbra un’ombra di sorriso, giacche e gonne sono di taglio modesto, ma pulite e ordinate: fanno un figurone. Il consumismo non è ancora arrivato, o si sta appena affacciando alla finestra: c’è la radio, ma non la televisione; e il telefono l’hanno in pochi. Ci sono i primi bar all’americana, coi tavoli di plastica e il juke-box che diffonde le note delle ultime canzoni, accanto alle vecchie osterie piene di fumo, coi tavoli di legno massiccio e le sedie impagliate, e magari col fogolâr circondato da pentole e paioli di rame. La gente è contenta, la guerra è finita e già quasi dimenticata, anche se ha lasciato ferite dolorose; si può lavorare in pace e metter su famiglia, si può puntare a migliorare la propria condizione, purché si possieda un paio di braccia robuste e un po’ d’inventiva e di buona volontà. Le facce, soprattutto, sono facce autentiche, di gente vera, ciascuna rivela una sua personalità, il timido, l’esuberante, l’ironico, il gioviale: non è gente sconfitta, non è gente alienata, non sono facce omologate e intercambiabili. E la faccia conta più del vestito, lo sguardo conta più dell’automobile, che del resto solamente pochi si possono permettere.

Sì, lo sappiamo: si dirà che abbiamo idealizzato quel momento storico, quella fase, quella città: che la distanza di tempo e di spazio ci porta a immaginare una società idilliaca che non c’è mai stata. Rispondiamo che non è vero, che quella società c’è stata, eccome, anche se non era idilliaca, ma carica di sacrifici e di preoccupazioni, anche di natura economica, quelle dei nostri nonni e dei nostri genitori; e possiamo dirlo con tanta sicurezza per la semplice ragione che noi c’eravamo, anche se eravamo piccoli, o piccolissimi. Noi non abbiamo fatto in tempo a vedere la roggia di via Gemona, né il tram bianco di Piazzale Osoppo; però abbiamo visto il mercato di Piazza San Giacomo, le donne con la stadera per pesare la frutta, la verdura, i fiori: e non c’erano ancora le baracche di metallo, ma solo gli ombrelloni, o semplicemente gli ombrelli, per ripararsi dal sole rovente dell’estate. Non abbiamo visto il cinema Eden, vanto della città, già demolito per far posto alla Upim, però abbiamo visto il Puccini, e l’Ariston, e il Cristallo, e tanti altri (ce n’erano una decina, per una città di 80.000 anime, però piena zeppa di caserme e di soldati in libera uscita). Non abbiamo visto il monumento a Felice Cavallotti in cima alla collinetta dei Giardini Ricasoli, quelli della nostra infanzia, perché al suo posto era già stata trasportata, da Piazza Libertà, la statua di Vittorio Emanuele II, incolpevole vittima della vittoria repubblicana al referendum istituzionale. Tuttavia nei giardinetti, e sul piazzale del Castello, e nei prati di periferia, i bambini giocavamo a prendersi, o si scambiavano le figurine dei calciatori, o facevano volare gli aquiloni, e non stavamo tutto il giorno chini e ingobbiti sul minuscolo schermo del telefonino cellulare, come avviene adesso. E ricordiamo le osterie piene di gente, operai e avvocati e preti di campagna convocati in vescovado, tutti uguali davanti al tajut di vino rosso; e il vecchio mulino non più in funzione, ma non ancora demolito, sulla roggia a metà del Viale Volontari della Libertà; e le botteghe dei borghi, via Grazzano, via San Lazzaro, via Pracchiuso; e la grande processione del Corpus Domini, che si snodava lenta e solenne dal Palazzo dell’Arcivescovo fino al Duomo, passando sotto la porta di San Bartolomeo e la via Manin, e quindi davanti al panificio dei nonni, dove si trovava il pane più buono e fragrante di tutta la città; e le Quarant’ore con le chiese incredibilmente addobbate di fiori e l’altare che sembrava un giardino pensile, carico di ceri e avvolto in una nube d’incenso; e la gente che nella Settimana Santa si accalcava per ascoltare i predicatori francescani e domenicani venuti apposta da qualche convento famoso, che parlavano dal pulpito con toni accorati e incendiavano l’anima dell’uditorio, e non si trovava una sedia a pagarla a peso d’oro, anzi nemmeno un posticino in piedi, tanto la chiesa era stracolma di folla, così attenta che non si sentiva volare una mosca. Sì, noi ricordiamo tutto questo e molte altre cose; le ricordiamo con acuta nostalgia, però non le inventiamo: c’erano, esistevano davvero, e definivano un mondo coeso, armoniosa, una piccola società in equilibrio fra progresso e tradizione, fra bisogni del gruppo e diritti del singolo; e grazie a Dio, con poche grandi fabbriche, per cui non dava esca al pessimo verbo marxista, non istigava all’invidia e all’animosità, ma permaneva nel solco della visione cattolica, ispirata alla fede, al senso del limite e alla consuetudine del sacrificio. Soddisfatta di sé ma senza arroganza, modesta ma senza servilismo, schietta, sincera, dove la povertà non era una colpa, se accompagnata dalla pulizia e dai buoni costumi; e la ricchezza non era necessariamente oggetto d’invidia, se non andava unita a un nome rispettato e senza macchia. Abbiamo visto tutto ciò, e possiamo dirlo con piena cognizione di causa. A volte, quando viene l’ora dei cattivi pensieri, sospettiamo che i Padroni Universali vogliano affrettare la morte di quelli che c’erano per far sparire appunto i testimoni di quel tempo, così che i giovani ignorino come si viveva, e come si potrebbe vivere ancor oggi, se si volesse, si sapesse e si capisse. Ma sono, appunto, cattivi pensieri, pensieri che vengono nei momenti di malinconia: ad esempio quando il governo chiude in casa, come delinquenti, sessanta milioni di cittadini, e il clero lascia i fedeli senza Messa e senza sacramenti, per tre mesi, Pasqua compresa; e a scuola non si parla più della famiglia, la maestra non ha il diritto di chiedere a un bambino chi sono il suo papà e la sua mamma, eh certo, sarebbe discriminazione omofoba, ora bisogna chiedere chi sono il Genitore 1 e il Genitore 2, oppure come si chiama e cosa fa il marito del papà, e come si chiama e cosa fa la moglie della mamma. Ora siamo tanto più civili e progrediti, abbiamo istituito pure la Giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Adesso, se un ricco personaggio dello spettacolo torna in Italia dopo aver acquistato un bambino all’estero con la pratica dell’utero in affitto, è cosa politicamente corretta rallegrarsi e sorridere, perché è bello vedere una famiglia ove c’è amore, se poi è una famiglia formata da due maschi e se i figli sono stati acquistati pagandoli sull’unghia, beh, pazienza, questi sono dettagli, l’importante è andare dritti al nocciolo delle cose. E il nocciolo è che oggi siano tanto più avanzati, più maturi, più rispettosi di quel che non fossero i nostri genitori e i nostri nonni, non più tardi di cinquanta, o trenta, o anche solo dieci anni fa.

Ora, la domanda è sempre la stessa: quando e come e perché abbiamo sbagliato strada? Chi è stato esattamene a perderla, e come mai il buon esempio delle passate generazioni non è stato sufficiente a metterci in guardia? I meccanismi economici e finanziari, il sorgere dei supermercati e dei centri commerciali che hanno spodestato le botteghe di quartiere, le banche d’affari che hanno sostituito le casse di risparmio, tutto ciò è sufficiente a spiegare la deriva, l’alienazione da noi stessi? O c’è una grossa componente psicologica, culturale, morale? Perché abbiamo smesso di credere nel domani, desiderare figli, metter su famiglia, moltiplicare le piccole imprese? E quando abbiamo cominciato a odiare noi stessi? Quando e perché abbiamo pensato che i clandestini invasori hanno ogni diritto, e gli onesti cittadini non hanno che sempre nuovi doveri? Quando abbiamo cominciato a restare in piedi davanti al Santissimo, e a inginocchiarci in omaggio a un delinquente straniero, ammazzato durante l’arresto, trasformandolo in un simbolo di libertà e di giustizia? E come mai i nostri preti non ci parlano più del bene e del male, del peccato e della grazia, e soprattutto della vita eterna, ma sempre e solo dei migranti, del clima e dell’ambiente? Quando scioperare per andar dietro ai gretini è diventato più intelligente che andare a scuola per studiare seriamente e prendersi un diploma e onorare l’impegno preso coi genitori? E quando i professori hanno capito che è cosa buona e giusta condurre le scolaresche in viaggio d’istruzione ad Auschwitz, o meglio ancora a Lampedusa, per far vedere i luoghi brutti della storia, invece che a visitare i musei e i monumenti di Roma, di Vienna, di Londra e di Parigi, per dare loro un’idea dell’arte e della civiltà alle quali apparteniamo, e delle quali siamo figli, sia pure confusi e smemorati? Quando e come è entrato in noi il virus del tutto e subito, del comprare le cose a rate, del voler fare il passo più lungo della gamba, del promettere senza mantenere, dell’apparire senza essere? Cosa ci è successo? Perché a scuola, nello sport, nelle professioni, nella chiesa, nella politica, nell’impresa, siamo diventati così diversi, così incerti, così velleitari, rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni? Da quando abbiamo appreso che l’importante è arrivare, con qualsiasi mezzo? Che non vale la pena di spargere sudore, se non si porta a casa un risultato? Che la virtù non è premio a se stessa? Chi ci ha corrotti, infiacchiti, effeminati? Perché i nostri vecchi sognavano di sposarsi e avere dei bambini, noi sogniamo di fare la bella vita, magari attraverso un provino del Grande Fratello o di Amici? Abbiamo sbagliato tutto, dobbiamo rientrare in noi. Ma in che modo? Come facevano i nostri genitori e i nostri nonni: chiedendo consiglio a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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