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Per risorgere ci serve meno ego e più coscienza di sé

Un giorno, nel futuro, quando gli specialisti studieranno il caso da manuale di psicosi di massa indotta nella società italiana dalla falsa pandemia di Covid-19 e di arbitraria emergenza sanitaria, individueranno, tra i fattori che l’hanno resa possibile e che hanno spinto milioni di persone a uscir di casa con l’inutile e dannosa mascherina ancora per molti giorni e settimane dopo che era finito l’obbligo di indossarla per la strada, lo smarrimento e l’oblio del senso di sé. Queste persone, dopo essere state oppresse da un governo criminale e moralmente illegittimo, segregate in casa per due mesi e mezzo e private dei più elementari diritti costituzionali, non solo hanno accettato come legittimi e giustificati quei provvedimenti, ma hanno mostrato che sarebbero state disposte a subire privazioni e limitazioni ancor più pesanti, ancora più protratte nel tempo e quasi, quasi, al termine della fase acuta dell’emergenza, avvertono la mancanza di quelle restrizioni e si sentono abbandonate prima del tempo e deluse nel loro bisogno di sicurezza. Non vi è dubbio che il loro comportamento è stato il frutto di un bombardamento mediatico di terrorismo psicologico senza precedenti, tale da indurre in esse un irrazionale senso di pericolo e da risvegliare terrori ancestrali che giacevano sepolti da più generazioni in fondo all’inconscio collettivo. Così pure, non vi sono dubbi che la dipendenza pressoché totale da quel che dicono i media, specie la televisione, non si è creata all’improvviso, ma era stata preparata da anni, da decenni, di quotidiano lavaggio del cervello, solo che pochi se n’erano accorti perché la cosa non si era manifestata se non in comportamenti conformisti di massa, i quali, assunti da una gran parte della popolazione, non avevano reso palese fino a che punto fossero il risultato di una occulta pressione psicologica, ma erano apparsi spontanei o, comunque, normali. Del resto, per cogliere l’anormalità dei comportamenti, è necessario che una società abbia conservato il concetto e la pratica di ciò che è normale e di ciò che invece si deve considerare anormale; ma una società dominata dalla cultura del relativismo e del soggettivismo, dove parlare di normalità suscita la riprovazione generale, e induce un senso d’imbarazzo e di vergogna anche in chi lo fa, in quanto è considerato irrispettoso delle minoranze "diverse", non ne è più capace e anzi si compiace del fatto che la norma sia stata di fatto abolita.

Dunque: l’oblio e lo smarrimento di sé. Può sembrare paradossale che nella società dominata dall’ego le persone abbiano smarrito e obliato il senso di se stesse; tuttavia bisogna riflettere che l’ego e il senso di sé sono due cose molto diverse. Si può avere un ego ipersviluppato e tuttavia avere poco o nessun senso di sé, anzi in genere esiste una proporzione diretta di questo tipo: più è grande l’io, meno è presente la coscienza di sé, e viceversa. Proviamo dunque a definirli. L’ego è la parte della coscienza che vuol essere sempre al centro e che giudica tutto e tutti in funzione del proprio apparire e saper attirare l’attenzione generale. L’ego è dunque un io malsano perché ipertrofico, il quale si gratifica in questo modo, stando al centro della scena e venendo ammirato; e se non può farsi ammirare, perché non possiede nulla di ammirevole, cioè di notevole in senso positivo, vuole comunque farsi notare, sia pure in senso negativo, ad esempio attirando l’attenzione con manifestazioni sgradevoli, ma clamorose, del proprio aspetto o del proprio comportamento. Già da questo fatto di capisce che avere un ego ipersviluppato significa essere fuori dal proprio centro interiore e risucchiati in una vera e propria patologia, perché non è sano voler emergere a ogni costo, magari suscitando negli altri orrore e disgusto con il proprio essere o con le proprie azioni: tale è il caso di chi si fa crescere le unghie per decine di centimetri, di chi si riempie di tatuaggi e di anelli fino all’ultimo centimetro della propria epidermide, o di chi sceglie tatuaggi di mostri, di diavolo, d’immagini ripugnanti da esibire sulle parti scoperte del corpo. Inutile aggiungere che l’ego diviene tanto più ipertrofico quanto meno la persona si sente realizzata nel senso di riuscire ad essere ciò che vuole essere, poiché l’ostentazione, anche se rimane entro limiti più contenuti, come nel caso di chi assume costantemente atteggiamenti sexy, voluttuosi e seduttivi, tradisce una profonda insicurezza e un altrettanto profondo bisogno di rassicurazione. Il senso di sé invece esprime la giusta consapevolezza che l’individuo ha del proprio essere, e in modo particolare della propria identità. So chi sono, dunque esisto, si potrebbe dire, parafrasando Cartesio. Questa coscienza del proprio essere — del proprio essere e non solo del proprio io: perché l’essere di un individuo è assai più ampio dell’io — caratterizza la vita normale dell’individuo (ecco far capolino il concetto di normalità) e infatti sino a qualche tempo fa la si riscontrava più o meno in tutti; mentre oggi, per una molteplicità di fattori, è divenuta sempre più rara e tende ormai a configurarsi come l’eccezione alla regola. È pur vero che un ricercatore esigente, come il filosofo Diogene, trovava che di autentica coscienza di sé, quindi di uomini e donne veri, ce ne sono sempre troppo pochi, al punto da andare in giro con la lanterna in pieno giorno, affermando di andare in cerca dell’uomo; perché i meccanismi della vita sociale, specie in ambiente cittadino (e Diogene viveva nelle poleis del periodo ellenistico) tendono sempre a generare una certa tendenza all’omologazione, e quindi all’oblio del senso di sé. Tuttavia in condizioni normali esistono altri fattori, specialmente le diverse agenzie educative – famiglia, scuola, chiesa — che lavorano nella direzione opposta, ossia nello sviluppo della coscienza di sé; mentre i tempi presenti sono tutt’altro che normali, perché tali agenzie educative sono evaporate e sovente si son fatte, a loro volta, veicolo dell’alienazione del senso di sé e, al contrario, promotrici di una espansione aberrante dell’ego, oltretutto in chiave banalmente consumista.

Dunque, il problema è che moltissime persone non sanno letteralmente più chi sono. Ciò avviene sia in forma del tutto cosciente, ad esempio per un soggetto il quale, anche sotto la pressione dell’ideologia gender, sia incerto se identificarsi con il sesso biologico al quale appartiene, oppure con l’altro, verso il quale si sente "portato"; sia in forma inconscia, come nel caso di chi non si senta più intimamente legato ad alcun luogo, ad alcuna tradizione e ad alcuna cultura, ad esempio perché sradicato materialmente dal proprio ambiente e proiettato in un ambiente totalmente diverso, col risultato di aver perso le proprie radici senza aver acquisito una nuova identità, ma restando sospeso nella "terra di nessuno". Il senso di sé, infatti, è costituito in larga misura dal senso di appartenenza a qualcosa di più grande del proprio io, a cui si è intimamente legati sin da prima della nascita: su quella base si innesta e si sviluppa il senso della propria individualità, mai del tutto da solo, perché nessun uomo è un’isola e dire "uomo" è la stessa cosa che dire animale sociale, figlio di un certo ambiente, di una certa educazione e di un certo clima spirituale. Il risultato di questa doppia pressione negativa — dall’alto, ad opera delle agenzie educative, mediane modelli culturali più o meno "illustri": il relativismo il nichilismo, l’esistenzialismo, il surrealismo, Pirandello, Kafka, Joyce, Freud, Jung, la psicoanalisi, la rivendicazione dei pari diritti da pare di minoranze aggressive e sfrontate; e dal basso, ad opera dei modelli consumisti veicolati dalla pubblicità e adottati dall’uomo-massa, "cosificato" e spersonalizzato — è stato la perdita del proprio senso di appartenenza, della coscienza del proprio essere e perciò del proprio centro interiore. Sicché gli uomini, nella società moderna, sono più o meno vistosamente sbilanciati, come alberi cresciuti su un terreno esposto a dei venti costanti e impetuosi, e i cui tronchi, assieme ai rami, abbiano assunto un orientamento orizzontale per potevi resistere. Inutile dire che un albero completamente sbilanciato è anche destinato a venire abbattuto dagli agenti atmosferici, non appena si scatenerà un temporale abbastanza forte da portarlo oltre il suo centro di gravità, rovesciandolo con tutto il suo apparato radicale. In tutto ciò, lo ripetiamo, una gravissima responsabilità spetta a coloro ai quali, per tradizione e per funzione naturale, spetterebbe il delicato e meraviglioso compito di aiutare i bambini e i giovani a sviluppare una giusta coscienza di se stessi, e invece non lo fanno più, anzi lavorano nella direzione diametralmente opposta, quella di demolire l’identità, recidere le radici e destrutturare il senso di appartenenza. Un piccolo esempio ci aiuterà a chiarire questo aspetto. Immaginiamo un giovane che abbia sentito, o abbia creduto di sentire, la vocazione alla vita religiosa (una volta veniva fatta una severa selezione, ma adesso non più), e che sia entrato in seminario. Nel pieno dell’adolescenza, quel giovane si trova esposto alla tempesta dei sensi e ravvisa nei propri impulsi un orientamento di tipo omosessuale. Portato all’onestà e alla rettitudine, quel giovane chiede un colloquio con il suo direttore spirituale e, vincendo l’imbarazzo, e mettendo a repentaglio i suoi progetti di vita sacerdotale, gli espone tutti i suoi turbamenti e i suoi dubbi, dicendo di non sapere se potrà divenire un buon prete e chiedendo indicazioni per tentare un percorso psicologico che lo riconduca al normale orientamento verso le donne, specie dopo aver letto qualcosa a proposito della terapia riparativa del professor Joseph Nicolosi. Infatti, essendo molto perspicace, si rende conto che anche una vita di castità sacerdotale deve comunque fare i conti con la realtà degli istinti, e giudica che l’istinto omosessuale sia difficilmente compatibile con la vocazione sacerdotale, ben sapendo ciò che insegna, e ha sempre insegnato, il Magistero della Chiesa a questo proposito, e avendo ben presenti i passi del Nuovo Testamento sui quali esso è fondato. Si dà il caso che quel direttore spirituale appartenga alla frangia più spinta della fazione progressista e liberale del clero cattolico, e che, nel caso specifico, egli faccia riferimento alle ben note posizioni del gesuita James Martin, il quale non solo non considera peccato la sodomia, ma accusa esplicitamente il Catechismo della Chiesa cattolica di aver provocato dei suicidi fra i giovani omosessuali, a causa del senso di colpa instillati nei loro animi (e confondendo, evidentemente, il senso di colpa, che è una patologia della psiche, con il senso della colpa, che per un credente è null’altro che la coscienza del peccato). E allora quel sacerdote si darà a rassicurare il seminarista: gli dirà che in lui non c’è assolutamente nulla di sbagliato; che i suoi istinti omofili sono "buoni" quanto lo è qualsiasi altro istinto; che per la Chiesa dei nostri giorni, che punta all’inclusione di tutti, nessuno escluso, sul modello di Bergoglio (chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?) non c’è alcun problema al riguardo, e dunque non deve farsi problemi neppure lui. Lasci perdere l’idea d’intraprende delle terapie riparative, non c’è nulla da riparare perché l’omosessualità è un orientamento sessuale pienamente legittimo, come quello eterosessuale; e abbandoni l’idea di lasciare il seminario, perché sarà certamente un buon prete. E dirà tali cose, quell’indegno direttore spirituale, pur avendogli confidato il seminarista, con la massima onestà, di sentirsi particolarmente attratto dai ragazzini impuberi, e pur sapendo che quel giovane, una volta divenuto prete, potrebbe trovarsi per ragioni legate al suo ministero a strettissimo contatto con dei bambini e dei preadolescenti, nelle attività dell’oratorio o magari in qualche capo scout. Se si farà convincere dai ragionamenti del suo direttore, quel giovane abbandonerà ogni idea di modificare il suo attuale orientamento e andrà avanti con gli studi in seminario fino all’ordinazione sacerdotale, non solo liberandosi dai suoi scrupoli, ma sentendosi quasi legittimato ad assecondare i suoi impulsi omofili e pedofili: con tutte le future conseguenze, per se stesso e per gli altri, che si possono facilmente immaginare. Ecco: questo è un esempio di come chi dovrebbe contribuire in maniera decisiva alla formazione e al rafforzamento della giusta idea di sé nei giovani, spesso venga meno del tutto ai suoi doveri, e li incoraggi anzi a ritagliarsi una morale su misura, basata su una falsa idea della libertà e su un’idea ancor più falsa, se possibile, di ciò che Dio si aspetta dagli uomini, e che questi facciano della loro vita: cioè non la ricerca del principio di piacere, ma l’abbandono umile e fiducioso alla Sua volontà. E Dio non ci vuole così come siamo, o come noi vorremmo essere, ma come Lui vuole che diventiamo; avendo Lui, e non noi, ben chiaro ciò che la nostra vita deve essere affinché noi realizziamo la nostra parte migliore, cosa che non può avvenire senza rinunce e sacrifici anche notevoli.

In conclusione. Se vogliamo sperare di risorgere dalla gravissima crisi nella quale ci troviamo sprofondati, sia come singoli individui, sia come società, abbiamo bisogno di sgonfiare il nostro ego ipertrofico e ritrovare una giusta idea di noi stessi, uscendo dalle paludi del relativismo e del soggettivismo esasperati. Proviamo dunque a farci la semplice, ma decisiva domanda: chi sono io?, e vedremo quanta strada ci resta da fare per ritrovare un punto d’appoggio sul quale poggiare i piedi per sostenere la lotta, che è già iniziata, contro le forze malefiche volte ad asservire l’umanità ai loro nefandi progetti. Se non si sa chi si è, non si possiede neanche la base minima indispensabile, non diciamo per vincere, ma neppure per lottare. Proviamo dunque a rispondere: Io sono ciò che Dio vuole che io sia; farò quel che Egli vuole che io faccia; gli offrirò con gioia le rinunce e i sacrifici e confiderò solamente in Lui; e non penserò di aver realizzato il fine della mia vita finché io non sia divenuto interamente fedele al suo Volere, che è tutt’uno con la Giustizie e con l’Amore…

Fonte dell'immagine in evidenza: Alan Camerer - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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