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Fu il mussolinismo ad uccidere il fascismo?

Fra le tante interpretazioni del fascismo che si sono succedute in sede storiografica e memoralistica,

una di quelle che hanno ricevuto minore attenzione, senza dubbio perché interna al fascismo stesso, o meglio al post-fascismo, laddove la cultura dominante è per definizione antifascista, è stata avanzata da alcuni ex gerarchi i quali, a posteriori, cioè dopo il crollo del regime e dopo la disfatta dell’Italia, "scoprirono" che il fascismo era stato una cosa molto buona dalle origini fino alla guerra d’Etiopia, per poi involvere a causa di un eccesso di mussolinismo, che lo avrebbe da ultimo fagocitato. Tale è stata, in particolare la tesi avanzata da Giuseppe Bottai nel marzo del 1946, e inizialmente affidata alle pagine del suo diario. Bottai era convinto che il fascismo fosse per sua essenza rivoluzionario, e che il suo declino sia iniziato all’epoca del suo apparente apogeo, con la proclamazione dell’Impero: insomma che esso sarebbe stato una rivoluzione mancata, o meglio una mancata rivoluzione permanente, quale avrebbe invece dovuto essere e conservarsi (e pazienza per la contraddizione logica: poiché una rivoluzione non può mai essere permanente). Una tesi, questa, di per sé tutt’altro che originale, ma che riceve una certa quale apparenza di originalità per il fatto che ad avanzarla è stato uno dei pezzi grossi del regime, anzi colui che è stato il suo massimo animatore culturale

Riportiamo alcuni passi del diario di Giuseppe Bottai ove egli espone tale interpretazione del fascismo e della sua crisi (da: G. Bottai, Diario, 1944-1948, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982, 1991, pp. 317; 318; 318-19; 319-20):

S’è detto, dopo la sua morte, che non era un capo per gl’italiani. Non è vero; anzi, è vero il contrario. Lo era troppo. Era troppo "compreso"; e un po’ d’incomprensione gli sarebbe stata salutare. L’avrebbe portato a cercare con il popolo contatti più profondi, più impegnativi; a non fermarsi ai "colloqui con la folla", specie di commedia dell’arte, di cui Starace fu insuperato regista e Pavolini poeta estemporaneo. Incompreso, sarebbe andato a tentare il contatto dietro il gioco delle parti, laddove l’apparente teatralità italiana è schietta umanità, schiva, strafottente, civilissima e rustica, ricchissima e povera.

Questo non accadde. Fu sua colpa o della società in cui si trovò a dominare? Vane domande. Fu così, perché tra quell’uomo ch’egli era e quella data società v’era rispondenza troppo immediata d’istinti. È la storia degli amori troppo facili, che passano in un soffio o si trascinano nell’affettazione, nell’equivoco.

E un equivoco fu il "mussolinismo", con gli anni. Capo e popolo s’intesero di prim’acchito, ma rimasero a questo. Il regie, che non volle essere "rappresentativo", si fermò alla "rappresentazione". Cessò d’essere un regime per divenire una regia. La mimica spontanea dell’uomo si fissò nei gesti, che la folla amava. Si sono viste folle chiederglieli, quei gesti; ed estasiarsene. Il mussolinismo era divenuto un rito, una liturgia.

In questa fallace liturgia si fonda una fede, da cui nasce il mito dell’infallibilità, enunciata nell’assioma: "Mussolini ha sempre ragione". (…)

C’è, da allora, una dottrina fascista e una dottrina mussoliniana. Quella fa appello a una ragione senza aggettivi, alla ragione; questa, alla ragione di Mussolini. Là, una logica, refutabile forse dagli avversari, ma obiettivata, organata in leggi, in norme, in regolamenti, in solenni carte costituzionali; qui, una logica personale, irrefutabile, intuitiva, affidata a suggestioni, a ispirazioni, a parole d’ordine. Mentre si promulgano le leggi del Fascismo, Mussolini fa legge. E dal far legge al fare, e disfare, le leggi, si sa, il passo è breve. Il "mussolinismo" è arrivato alla sua maturità, e marcia ormai per suo conto. Parallelamente, dapprima, al Fascismo, eppoi in aperta divergenza. Fino alla conclusiva opposizione, che giunge al parossismo dopo l’impresa etiopica e ha il suo epilogo nel Gran Consiglio del luglio ’43. (…)

Vedevo chiaro il dualismo, e le sue conseguenze disgregative. Dicevo, paradossalmente, ma non tropo: "Bisogna COSTITUZIONALIZZARE Mussolini", ché, rendendomi conto quanto di eccezionale, di geniale, di provvidenziale, vi fosse nella natura di Mussolini, nel suo "fiuto", in quello che egli chiamava il suo "presbismo", nella sua facoltà anticipatrice, non a eliminarla pensavo s’avesse a mirare, ma, proprio com’una forza di natura, com’una selvaggia energia, a convogliarla per sfruttarla "economicamente".

Senonchè lo sfruttamento avveniva in tutt’altra maniera. Nella peggiore, e più pericolosa. Mussolini ha sempre ragione? Bene, si passavan la voce i suoi minuscoli collaboratori. Facciamo di cotesta perenne ragione il denominatore comune delle nostre gesta e elucubrazioni. Ciò c’impedirà d’avere torto. Una legge, un regolamento, una consuetudine danno noia? Violiamole, in nome di Mussolini; e ch’egli metta il suo avallo sulle nostre fraudolente cambiali, la sua sigla sotto i nostri possibili errori. Ch’egli legittimi, quest’è il punto, la illegittimità dei nostri atti.

Con ciò il fenomeno, che s’è esaminato dalle sue origini, "in corpore Mussolini", se m’è permesso di farmi intendere con un latinetto a buon mercato, giunge al suo culmine. Convalidato dalla società ambiente divenuto demiurgia e demagogia che il "dèmos" sollecita e favorisce, decantato in prammatica fede, dichiarato in dottrina, s’afferma come metodo. Non più il Fascismo è al potere, ma il "mussolinismo". Un potere che par forte, ed è legato soltanto alla fralezza d’un uomo. Non è più lo Stato che è l’uomo in grande, ma l’uomo che è uno Stato in piccolo. (…)

Mussolini, o l’occasione mancata, potrebbe essere la conclusione di questi propositi. Non ironica, ma d’appassionato rimpianto. Di rado, nella storia italiana, ci s’imbatte in uomini così singolarmente dotati da Dio dei doni del comando, e non si può non compiangere l’uso che il beneficato n’ha fatto. Anche se di quell’uso si fu, si è, vittime.

Quando Mussolini, "liberato" dai tedeschi, condanna a morte chi con me affermava sul "mussolinisno" le ragioni ideali del Fascismo, è in lui che il terribile nodo mortale si stringe. Il "mussolinismo" l’uccide.

A prima vista, la lettura di Bottai parrebbe avere una certa qual verosimiglianza; e infatti, non neghiamo che vi siano in essa alcuni elementi di verità. Il problema sorge quando si cerca di mettere insieme questi elementi per delineare uno scenario complessivo: è allora che ci si accorge di quanto l’interpretazione delineata dall’ex ministro dell’Educazione nazionale abbia, sì, le apparenze di una cosa seria, ma solo quelle, perché il tutto somiglia a un sofisma di cattiva lega, tenuto insieme da una logica auto-difensiva e auto-giustificatoria e sfacciatamente finalizzato a dimostrare quanto fossero ingenue le anime belle come Bottai, quanto nobilmente pensose dei destini della Patria, e come la votazione del 25 luglio 1943 non sia stata quel che realmente fu, un ignobile tentativo di scaricare il capo per salvare la propria pelle, ma un gesto coraggioso di suprema coerenza inteso a salvare la parte migliore del fascismo, quella non infettata dal mussolinismo. Insomma, meglio passare per illusi idealisti piuttosto che traditori per interesse personale. Ma fu davvero un illuso, un ingenuo, Giuseppe Bottai, il massone Bottai, membro della Serenissima Gran Loggia di Rito Scozzese antico e accettato, più volte ministro di un regime che aveva messo fuori legge la massoneria e che vedeva in essa, giustamente, un pericolo gravissimo, capace di unire l’opposizione interna e i nemici esterni? E sono credibili questa ingenuità, questo idealismo, in un uomo che, quando fu messo nell’angolo dalle vicende che lui stesso, insieme agli altri firmatari dell’ordine del giorno Grandi, avevano contribuito a scatenare, e condannato all’ergastolo dal governo Badoglio, e a morte del regime di Salò, non seppe far di meglio che arruolarsi come soldato semplice proprio nella Legione straniera francese, ossia nel corpo militare di un governo nemico del fascismo e del nostro Paese, le cui truppe coloniali si macchiarono d’innumerevoli orrori proprio nella campagna d’Italia, disseminando di stupri e violenze la loro marcia al seguito degli angloamericani lungo la Penisola? Disse che lo fece per espiare le colpe del fascismo dopo il 1936: stranissimo metodo d’espiazione. E poi, è proprio vero che il fascismo fu buono fino al 1936, e diventò cattivo, cioè mussolinismo, dopo quella data?

Vediamo. Secondo la tesi di Bottai, c’erano una volta due fratellini, il fascismo e il mussolinismo: il secondogenito crebbe in audacia e prepotenza perché viziato dagli altri, e finì per mettere completamente in ombra il primogenito, le cui virtù ed i cui meriti erano indiscussi. Sarebbe andata diversamente se il secondogenito non fosse stato così viziato e non si fosse montato la testa, anzi se avesse avuto il buon senso di starsene tranquillo nell’orbita del fratello maggiore, che sapeva quel che faceva e perciò aveva molto da insegnargli, e lui tutto da imparare. Invece non andò così, e dopo che i capricci e le mattane del fratello minore ebbero mandato in rovina tutta la famiglia, a quanti avevano servito fedelmente il fratello maggiore non restò che arruolarsi nella Legione Straniera, cioè nel peggiore fra gli eserciti nemici, per farsi perdonare la colpa di non aver fermato in tempo il pazzo fratello minore. Spiacenti, ma questa non è una spiegazione seria del Ventennio; è una favola, o se si preferisce una sorta di mito, il cui scopo è riabitare se stesso, ma senza aver l’aria d’infierire troppo contro il Due tanto amato e obbedito per vent’anni (Bottai era con Mussolini dalla prima ora, avendo collaborato alla fondazione dei Fasci di Combattimento nel 1919). È come dire: vedete, se Mussolini non si fosse montato la testa, se non lo avessero incensato troppo, se fosse rimasto fedele agli ideali delle origini, la catastrofe del fascismo — e dell’Italia — si sarebbe potuta evitare. Anche la sua affermazione che già in anni non sospetti, cioè assai prima della Seconda guerra mondiale, avrebbe voluto costituzionalizzare Mussolini, è solo una boutade, poiché non è verosimile che egli credesse veramente a una cosa del genere. Perché? Ma è semplice: perché fascismo e mussolinismo non sono due cose distinte, ma le due facce della stessa medaglia. Mussolini ha letteralmente creato il fascismo (al punto che molti hanno tentato d’imitarlo in mezzo mondo) e quindi era inevitabile che il fascismo diventasse mussolinismo. C’era una sola, remota probabilità che ciò non accadesse, ossia che le cose andassero come, secondo Bottai, sarebbe stato auspicabile che andassero: e cioè che dal fascismo sorgessero degli uomini di un certo valore, delle teste fine e degli spiriti coraggiosi, capaci di correggere, o limitare almeno in parte, la deriva sempre più personalistica e megalomane del regime. Il fatto che questi uomini non emersero, perché non c’erano, non è un caso del destino: è la miglior prova del fatto che il fascismo è stato una creazione di Mussolini e solo di Mussolini, e che un esercito di mediocri vi si accodò, come, in diverse circostanze, avrebbe potuto accodarsi a un altro leader o a un altro movimento. Parliamoci chiaro: Mussolini, il truce dittatore, non era un sanguinario, non aveva nemmeno lo spirito del dittatore autocratico: lontanissimo dai metodi di Hitler, sarebbe inorridito se qualcuno gli avesse suggerito, per esempio nel 1924-25, all’epoca della crisi Matteotti, di sbarazzarsi dei ras e fare piazza pulita della fronda interna degli squadristi, come Hitler fece nel 1934 con Röhm e i capi delle SA nella notte dei Lunghi Coltelli. E lo si vide fino all’ultimo, fino al Gran Consiglio del 25 luglio 1943, quando lasciò che i gerarchi votassero contro di lui e non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello di farli arrestare, come avrebbe potuto; di nuovo, il parallelo corre a quel che fece Hitler dopo l’attentato del 20 luglio 1944, ossia la carneficina di tutti i sospettati, qualcosa come 5.000 persone fra condannati a morte subito giustiziati, e internati in campo di concentramento. Perciò non fu la paura a impedire ai collaboratori di Mussolini, prima o dopo il 1936, come si vuole, di correggere la deriva personalistica del fascismo: fu la loro assoluta mediocrità, il loro servilismo, il loro opportunismo, il loro cinismo, se non qualcosa di ancor peggiore: non crediamo sia un caso che i due leader della rivolta al Gran Consiglio del 25 luglio, Grandi e Bottai, fossero massoni di vecchia data.

Bottai dal 1936 non credeva più nel fascismo o disapprovava gravemente ciò ch’esso era diventato? Benissimo: nessuno gli avrebbe impedito di dimettersi e ritirarsi a vita privata. Scelse invece di pugnalare Mussolini nell’ora più difficile per lui e per l’Italia, ma solo dopo essere stato silurato come ministro, nel febbraio del 1943. Fino a quel momento aveva giocato a fare l’oppositore interno, a civettare senza soste coi nemici del fascismo, ma non ci risulta si sia mai opposto a Mussolini a viso aperto. E quel che ora abbiamo detto di lui, vale anche per quasi tutti gli altri gerarchi. Mussolini non era un vendicativo, li avrebbe lasciati andare.Italo Balbo disapprovò le leggi razziali del 1938 e disapprovò, ancor di più, la dichiarazione di guerra nel 1940? Poteva dimettersi. Non parliamo del gran massone Dino Grandi, beniamino della buona società inglese e lui stesso acceso anglofilo: ma com’era possibile essere fascisti e allo stesso tempo anglofili? Significava non aver capito nulla del fascismo, o — peggio – esserci entrati per sabotarlo dall’interno. E tuttavia, si potrebbe obiettare, in una dittatura non ci si può dimettere, così, tranquillamente, da un alto incarico, come si può sempre fare in un regime democratico. Se ciò è vero — ma non è detto che lo sia nel caso del fascismo, proprio perché il fascismo fu un totalitarismo molto, ma molto imperfetto — dimostra soltanto la verità del nostro assunto: che quegli uomini rimasero nel fascismo a scopo d’interesse, fin tanto che esso assicurò loro dei vantaggi e tutelò i loro privilegi, ma sapevano benissimo di non potersene andare senza provocarne la crisi: cosa che, alla fine, fecero senza scrupoli, allorché si resero conto di aver aspettato troppo e che ogni ulteriore indugio li avrebbe accomunati nella rovina finale al loro padre/padrone, amato e odiato. Il 25 luglio fu la congiura della vigliaccheria: avrebbe avuto il diritto di essere considerata diversamente solo se fosse stata tentata qualche anno prima.

La verità è che il fascismo fu una grande idea, concepita da una grande mente e da un grande cuore; ma che Mussolini dovette fare il pane con la farina che aveva, cioè con la collaborazione di uomini piccoli, troppo piccoli per la grande idea che esso rappresentava per l’Italia. La voluttà di auto-umiliazione che ha invasato gli italiani dopo il 1945, il piacere di avvoltolarsi nell’auto-disprezzo per aver osato concepire e coltivare, per vent’anni, una tale idea, è un indice eloquente di quanto essa fosse vitale, addirittura necessaria: dal suo fallimento è derivato il fallimento dell’Italia come Stato, come nazione e come popolo. Fallimento che stiano seguitando a pagare da tre generazioni, con una classe dirigente sempre più mediocre, sempre più meschina, sempre più egoista e sempre più lillipuziana. Ora siamo arrivati al punto più basso, ma non è detto che, con un po’ di sforzo, non si possa scendere ancora di più. Perché farsi governare da gente come Conte, Casalino, Colao, Zingaretti, ecc., pronti e disposti a genuflettersi davanti a un Bill Gates o un George Soros, significa essere giunti proprio alla frutta. E aver lasciato che costoro mettessero il Paese agli arresti domiciliari, facessero polpette delle libertà più elementari e impedissero ai cattolici perfino la Messa, che nessuna guerra, terremoto o pestilenza del passato avevano mai fermato, la dice lunga sulla maturità politica del popolo italiano.

Un’ultima cosa, a proposito della tesi di Bottai. Egli parla del regime come di una commedia dell’arte, ma pare si scordi che, se commedia fu, una delle maschere più importanti fu proprio la sua. Inoltre egli parla con ironia e sufficienza di uomini come Starace e Pavolini, i quali le loro corresponsabilità col fascismo – e le loro colpe, se ne ebbero – le hanno pagate di persona, e non andando a combattere al soldo dei nemici dell’Italia. Quel tono sprezzante e mondano è la cifra della sua mediocrità morale. Pare che negli anni della crisi Bottai sia passato dalla massoneria al cattolicesimo; ma la conversione, a quanto pare, non gli ha insegnato la cosa più importante: la pietà verso i morti e il rispetto per i vecchi compagni che hanno proseguito con coerenza per la loro strada, sino alla fine. Perché la verità è questa: chi ha creduto per vent’anni in Mussolini, e da lui ha accettato onori e ricompense, poi non può, nel corso d’una notte, scaricarlo e cercare di rifarsi una verginità — e questo mentre il nemico batte alle porte. Deve avere la decenza di capire che, se il regime è giunto alla fine, e con esso tutto il Paese, i suoi esponenti devono perire insieme alla nave. Volersi salvare sbarazzandosi del capo tradisce non solo una viltà senza eguali, ma anche una profonda disonestà intellettuale.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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