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15 Giugno 2020Abbiamo posto più e più volte la questione della verità, che è non solo la questione centrale della filosofia, ma la questione essenziale di tutto, perché senza verità nulla ha significato, e dunque la verità è la garanzia della sensatezza dell’essere. È evidente che per i nemici della verità, i nichilisti, essa è l’obiettivo numero uno da colpire a morte: una volta fatto questo, tutto il resto viene da sé — tutto il resto perde significato e consistenza, diventa vano e superfluo, e ogni sforzo per dare un senso alle cose diviene velleitario e risibile. In alcuni precedenti lavori abbiamo risposto che la verità è quello che resta dopo aver tolto l’errore; e che la verità è Cristo, dal momento che solo Cristo è essenziale, tutto il resto non lo è. La prima risposta è di ordine logico, la seconda — complementare alla prima e conseguenza di essa — appartiene all’ordine esistenziale: pertanto è la stessa risposta, considerata da due differenti punti di vista. Eppure la verità è una, ed è un tutto: non ci sono due verità e neppure due modi di riconoscerla; altrimenti avrebbero ragione i relativisti, e si reintrodurrebbe dalla finestra, per così dire, ciò che, rifiutando la mancanza di senso del nichilismo, era stato cacciato fuori dalla porta. Infatti dire che ci sono differenti punti di vista sulla verità è, sul terreno pratico, la stessa cosa che dire che ci sono differenti verità. Se la verità è una verità per me (esistenzialismo) allora la verità è una operazione della mia mente, nasce con me, muore con me, e muta insieme a me; gli altri non vi hanno parte e non può esservi concordia su di essa, tranne che per la verità astratta della logica e della matematica. Per questa ragione la risposta meramente logica, la verità è quel che resta dopo aver sottratto l’errore, non ci soddisfa completamente. La logica è una bella cosa, ma purtroppo non ha a che fare con la sfera della vita pratica: e nella vita pratica noi abbiamo bisogno di qualcosa di più concreto e di più persuasivo di una verità definita unicamente in termini logico-matematici. La soluzione elegante di un problema di geometria soddisfa la nostra razionalità, noi sentiamo che quella è la verità perfetta, ma sentiamo anche, nello stesso tempo, che tale perfezione è possibile solo e unicamente perché ci troviamo nel regno della logica astratta. Nel regno della vita concreta, le cose non si presentano mai in maniera così ben definita: non c’è alcun teorema di Pitagora per affrontare le questioni relative alla conoscenza del vero nella sfera della vita vissuta; e il tentativo di dimostrare l’etica per mezzo della geometria, il tentativo di Spinoza, ci appare come una penosa e quasi caricaturale contraffazione del vero conoscere. Non si può esportare il pensiero logico-matematico al di fuori dell’ambito che gli è proprio, non lo si può trasferire e trapiantare in quello della vita pratica, per la semplice ragione che la vita pratica non è fatta di linee, punti, triangoli e circonferenze; non è fatta di cose astratte e perciò perette, ma di cose concrete e perciò imperfette, come del resto imperfetta è la conoscenza umana quando si rivolge ad oggetti inerenti alla dimensione empirica e non alla dimensione logico-matematica.
Nondimeno, sentiamo che non hanno ragione i nichilisti, e neppure i relativisti; sentiamo che negare l’assolutezza della ragione umana nell’ambito della vita concreta non equivale affatto a negare la verità in quanto tale. Equivale forse a negarla de facto, lasciandola sussistere come modello logico-matematico? Neppure, perché se così fosse, non ci sarebbe modo di distinguere fra una impossibilità e un limite inerenti alla nostra ragione, e l’impossibilità e il limite della verità in se stessa. Tale è infatti il circolo chiuso dell’idealismo: una volta ammesso che noi conosciamo solo quel che esiste nella nostra mente, cade ogni legame necessario fra verità oggettiva e verità soggettiva e tutte le verità diventano soggettive, tutte quindi diventano limitate, imperfette e discordi fra loro. Infatti, nella prospettiva del relativismo, c’è un inevitabile slittamento dal concetto della verità a quello delle verità: ma quando la verità diventa plurale, quando diventa molte, cessa automaticamente di essere la verità, perché la verità è una, indivisibile, indistruttibile, oggettiva, assoluta e permanente, ossia sottratta al fluire del tempo. La verità è per sempre, non è per un certo tempo e non diventa mai passato; non è un dato storico, bensì metafisico. E dunque: escludendo sia la prospettiva del relativismo, secondo la quale le verità sono molte, sia quella dell’idealismo, per il quale la verità è un’idea partorita dalla mia mente, che cosa rimane? Come si può sfuggire sia al labirinto del relativismo, sia alle sabbie mobili dell’idealismo? A noi sembra che la via d’uscita sia nel riconoscere che la verità non è solo un atto logico-matematico, ma un atto totale, proprio perché essa è un giudizio, e il giudizio coinvolge sì il pensiero razionale, ma anche qualcos’altro, perché è un atto totale, un’adesione e un assenso di tutto l’io alla cosa considerata e non solo delle facoltà logico-matematiche.
Ricordiamo cos’è la verità secondo la metafisica classica: la concordanza fra la cosa e l’intelletto (adaequatio rei et intellectus). È vero ciò che l’intelletto riconosce come tale nell’atto di giudicare: per esempio, che su questo tavolo c’è una penna, non due penne, e neppure nessuna penna. Il giudizio, però, è il frutto non solo di un atto della mente razionale, ma anche della coscienza tutta intera, che, per comodità, potremmo chiamare la mente sovra-razionale. In altre parole, noi vediamo, ossia constatiamo, che una cosa è vera, quando il nostro giudizio concorda con la verità che è in essa, e questo secondo le categorie della logica (vero/falso, prima/dopo, dentro/fuori, maggiore/minore, sì/no, ecc.); ma sentiamo anche che quella certa cosa è vera, perché tutto il nostro essere, tutta la nostra coscienza si appagano nel giudizio che diamo su di essa e godono nel percepire che non vi è alcuna distanza fra la cosa in se stessa e il giudizio che noi diamo su di essa. Ora questo sentire della coscienza tutta intera non è un semplice duplicato del constatare logico-matematico, ma una sua espansione e, per certi aspetti, una sua anticipazione, nel senso che noi prima sentiamo la verità (o la falsità) di una cosa, e poi, sia pure una frazione di secondo più tardi, la vediamo e la constatiamo, per mezzo degli strumenti che la logica ci mette a disposizione. E la prova che il sentire precede il constatare è data dal fatto che ciò accade anche nello stesso ambito logico-matematico, ad esempio nella soluzione di un problema di geometria: il giudizio che ci permette di cogliere la verità è, sì, il risultato di un procedimento logico, ma è anche, nel lampo dell’intuizione, un atto più ampio e più comprensivo, anteriore e non posteriore all’atto del pensiero logico. Quest’ultimo, infatti, ci serve principalmente per confermare (o per smentire), verificandola, l’intuizione mediante la quale la nostra coscienza ha visto che quella certa cosa è vera: ossia che è vera la relazione istituita fulmineamente fra la cosa e il nostro giudizio. In questo atto di giudizio totale della nostra coscienza, pertanto, viene cadere anche la distinzione cartesiana fra pensiero ed estensione e quella kantiana fra noumeno (o cosa in sé) e fenomeno. Infatti sia Cartesio che Kant assumono come dato certo, il quale non necessita di ulteriore verifica, che noi sappiamo quel che sappiamo mediante un giudizio di ordine logico che la nostra mente fa calare sulla cosa esterna; sebbene non si comprenda come si attua il passaggio dalla mente alla cosa, visto che stando ai loro presupposti, si tratta di due enti del tutto separati e distinti. Arrivati a questo punto si comprende anche la rivolta dell’idealismo, che, sdegnato per questo modo astratto e presuntuoso di concepire la facoltà intellettiva, rovescia completamente la prospettiva e afferma che la realtà è un’idea, o un complesso d’idee, della nostra mente; e pertanto che è il pensiero a generare l’essere, non l’essere il pensiero. La qual cosa ci porta dritti nel regno della pazzia pura: e infatti l’idealismo è una forma di lucida pazzia, una allucinata parodia della realtà, come aveva ben visto, da subito, Schopenhauer, il quale accusava Hegel di essere null’altro che un coribante intento a creare una realtà artificiale nella quale l’intelletto spiega, sì, ogni cosa, ma per la buona (o pessima) ragione che ogni cosa, in effetti, è una sua creazione soggettiva.
Dunque, vede la verità significa anche assumerla con la totalità della coscienza; se si verifica una incertezza nel giudizio, ossia se si produce una distanza fra l’intelletto e la coscienza, possiamo star certo che quella è la spia che la verità non è stata davvero riconosciuta, perché riconoscere la verità equivale ad averne la certezza, una certezza infallibile, si capisce nei limiti — che pur sempre esistono — della certezza umana, allorché si passa, come già detto, dalla sfera del pensiero astratto a quella del giudizio pratico. E il limite è causato dal fatto che la nostra mente e la nostra coscienza non riescono a coglie tutta la realtà, ma solo una parte di essa; di conseguenza, la verità cui possono pervenire è pur sempre una verità insoddisfacente, perché limitata a una porzione della cosa e incapace di abbracciarla tutta intera. Eppure, qualcosa nella nostra struttura ontologica protesta contro questo limite, che a sua volta genera un sia pur piccolo margine di dubbio: non lo accetta, lo subisce malvolentieri e anela a sbarazzarsene, come un cavallo brado purosangue anela a sbarazzarsi della sella e del cavaliere, perché tale è la sua natura. E qui viene in soccorso una facoltà superiore alla ragione, la fede, che non è contraria ad essa, come vorrebbero gli illuministi, ma ne è il naturale ampliamento e prolungamento. La fede è certezza di cose sperate, come dice la Lettera agli Ebrei (11,1): La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Noi, infatti, immersi come siamo nella dimensione dello spazio e nel tempo, non riusciamo a vedere tutto, quindi non riusciamo a capire tutto; ma abbiamo bisogno di sperare, perché senza la speranza la nostra vita non avrebbe più senso, come non ha senso una vita nella quale sia caduta ogni speranza di verità. Chiunque di noi, infatti, avverte infallibilmente, sia pure con diversi gradi di consapevolezza, che perdere ogni speranza di conoscere le cose secondo verità è come morire: è la morte della ragione e insieme la morte dello spirito. È la ragione, infatti, che ci fa uomini, beninteso la ragione che abbraccia tutta la coscienza e non solo una parte di essa, come vorrebbero i razionalisti, da Cartesio in poi. Il nichilista, da parte sua, è un morto che forse ignora di essere tale, così come l’idealista (in senso filosofico) è un pazzo il quale anestetizza la propria disperazione, fabbricandosi una realtà secondo i suoi desideri, per consolarsi della tragedia di dover vivere senza la speranza del vero.
È qui che si attua la convergenza fra la verità e il senso della vita. Se la verità è la condizione per vivere nella speranza, essa deve alimentarsi a una fonte che non inaridisca, e la sola fonte perenne di questo tipo scaturisce dalla fede. La fede, però, non lo si scordi mai, è sì, un atto della volontà, ma tale atto è reso possibile da un atto preliminare che deve essere necessariamente incondizionato, assoluto, veritiero in se stesso. Ora, abbiamo visto che nella sfera esistenziale non si dà nulla del genere: nulla infatti, nel nostro mondo, è incondizionato, assoluto e veritiero in se stesso. Ne consegue che un tale atto, per esistere, non può che venire da Dio, perché solo Dio è il Vero, l’Assoluto e l’Incondizionato. Solo Dio, pertanto, può garantire la verità del nostro conoscere; solo Dio, Giusto Giudice, può far sì che la nostra mente riesca a cogliere le cose per ciò che sono, cioè secondo verità, e non s’inganni, né si smarrisca in un mondo d’illusioni. Il mondo moderno è un mondo d’illusioni funeste, deliranti, proprio perché ha escluso Dio, che oltre a essere il fine naturale cui tendono tutte le cose, dunque anche l’intelligenza umana, è la sola garanzia di verità del nostro conoscere, il solo argine contro il fiume limaccioso della follia. La storia della cultura moderna è la storia di una pazzia progressiva, lucida a suo modo, ma nella quale la ragione è sempre più staccata dal suo sbocco naturale, la verità; e la ragione senza la verità è come un’arma potente che finisce per rivolgersi contro se stessa. Infatti constatiamo che nel mondo moderno trionfa una razionalità di tipo meramente strumentale, che sa perfezionare al massimo i modi e le tecniche, ma non ha ormai la benché minima cognizione del fine cui si è indirizzata. In altre parole gira su se stessa, a vuoto, e ignora dove la sua scienza e la sua tecnica la stiano trascinando. La ragione, non più sorretta, né illuminata dalla fede, come lo era nel passato, si sta ritorcendo contro l’uomo: lo sta addirittura portando verso l’autodistruzione. Lo ripetiamo: la via d’uscita da questo drammatico vicolo cieco risiede nella fede; ma la fede, a sua volta, è un dono di Dio, prima di essere un atto della volontà. Giungiamo perciò alla conclusione, già tante volte indicata, che la cosa di cui ha maggiormente bisogno l’uomo contemporaneo è l’umiltà, fatta di coscienza del proprio limite e di apertura al senso del mistero. Se non riconosce che vi è qualcosa di più grande di lui e della sua ragione calcolante e strumentale, l’uomo è destinato a perire. È nell’umiltà, nel farsi piccolo, nel liberarsi del fardello dell’ego, che l’uomo può ritrovare la fede: quella fede che un tempo accomunava gli uomini di scienza e di pensiero agli uomini semplici del popolo — e ai bambini. Questa è la grandezza del cristianesimo: la capacità di far inginocchiare davanti all’altare un san Tommaso d’Aquino, la più grande mene filosofica nell’arco di mille anni, e una santa Caterina da Siena, così illetterata che doveva dettare le sue lettere — alcune delle quali dirette a papi e sovrani, che le leggevano con la massima considerazione. Abbiamo bisogno di ritrovare quell’umiltà. Solo allora torneremo a vedere la verità e la vita non ci apparirà insensata ed inutile, ma dono prezioso di Dio…
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