Bergoglio: il “papa” secondo i loro desideri
10 Giugno 2020Gesù non chiede: cosa credete, ma: chi dite che io sia?
12 Giugno 2020Antonio Livi se n’è andato in silenzio, vorremmo dire in punta di piedi, com’era nel suo stile, il 2 aprile 2020, a Roma, nel mezzo della falsa pandemia, a settantasette anni d’età (era nato a Prato il 25 agosto 1938). E la sua partenza ha lasciato un vuoto del quale pochi si sono accorti, perché pochi si ricordavano di lui, e i media cattolici avevano deliberatamente preferito ignorarlo, benché fino a pochi anni prima fosse considerato, e perfettamente a ragione, uno dei massimi teologi italiani viventi, oltre che uno dei massimi filosofi — perché, da buon seguace della scuola di san Tommaso d’Aquino, oltre e che del suo maestro Étienne Gilson, egli non confondeva le due cose. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche e ad uso scolastico, per anni i suoi articoli erano stati ospiti graditi sulla stampa cattolica, ad esempio sul quotidiano della C.E.I., L’Avvenire. Poi, con la svolta di Bergoglio, quello stesso giornale aveva adottato quale nuovo astro teologico il famigerato Enzo Bianchi (come sono brevi i trionfi del mondo), e a monsignor Livi era toccata l’amarezza di vedersi ridotto al ruolo d’incomodo rappresentante di una teologia ormai superata, perché non in linea con la "misericordia" di Bergoglio e della sua sedicente chiesa in uscita; e quando Livi aveva detto semplicemente quello che qualsiasi osservatore imparziale avrebbe dovuto dire, ossia che Bianchi non è cattolico (lasciamo ad altri la vexata quaestio se si possa considerare anche un teologo), il misericordioso direttore bergogliano Marco Tarquinio si era schierato apertamente per il nuovo astro e contro il vecchio collaboratore (inveterato sport nazionale, il cui eroe di fondazione è Maramaldo, e il cui nume tutelare è il maresciallo Badoglio: schierarsi prontamente con la parte vittoriosa e infierire contro quella soccombente), lasciando che questi venisse rimbrottato e mortificato da penne che, di fronte a lui, non valevano e non valgono neppure l’inchiostro nel quale vengono intinte per scrivere le loro spruzzatine di veleno.
Negli ultimi tempi, poi, già malato di quel tumore al cervello che l’avrebbe portato via, era stato forse l’unico teologo cattolico a dire pane al pane e vino al vino riguardo all’elezione di Bergoglio e al ruolo da lui svolto nella Chiesa cattolica, quello del distruttore voluto e programmato da tempo: si può consultare un’intervista in rete, che naturalmente non è mai "passata" sui mass-media di regime, tutti intenti a incensare il papa più francescano di san Francesco e più cristiano di Gesù Cristo, nella quale emerge questo tratto del suo carattere e della sua intelligenza: la schiettezza, la linearità, l’indisponibilità a tergiversare, a patteggiare, a girare intorno alle cose senza venire al punto. No, non era un uomo per tutte le stagioni, monsignor Livi; era un cattolico, un sacerdote e un docente, vorremmo dire un educatore, tutto d’un pezzo, privo di iattanza (difetto di tanti toscani, da Montanelli alla Fallaci a Cardini), ma anche senza ipocrisie, un uomo tranquillo ma dalla schiena dritta e dalla mente limpida, come ce ne sono pochi, ormai, anzi pochissimi
Se si prende in mano il suo manuale di storia della filosofia per i licei, si apre la prima pagina e si scorre la breve Introduzione, si resta subito folgorati dalla chiarezza concettuale, dall’indipendenza di giudizio e dalla perfetta onestà intellettuale dell’Autore, tutta merce ormai rarissima sul mercato editoriale scolastico e più in genere in tutto il panorama culturale contemporaneo, non solo laico, ma anche cattolico, o sedicente tale (da: A. Livi, La filosofia e la sua storia, Società Editrice Dante Alighieri, vol. 2, La filosofia moderna, 1996, p. 1):
Come abbiamo già osservato nell’Introduzione al vol. I di questo corso di storia della filosofia, la periodizzazione consueta e prevista dai programmi ministeriali prevede una distribuzione degli argomenti fortemente sbilanciata dal punto di vista cronologico: nel primo volume, infatti, si studiano ben venti secoli di stria della filosofia, mentre in questo secondo volume l’arco di tempo considerato è di soli quattro secoli, e il terzo volume addirittura riguarderà due soli secoli, gli ultimi. Detto questo, si comprende perché lo spazio riservato agli autori moderni (soprattutto a Descartes e a Kant per quanto riguarda questo volume) sia così sproporzionatamente maggiore rispetto a quello concesso ai grandi filosofi dell’antichità e del Medioevo (Platone, Aristotele, Plotino, sant’Agostino, san Tommaso, il beato Duns Scoto) senza alcun rapporto oggettivo con la loro intrinseca importanza, non solo storica ma anche teoretica e quindi attuale.
LA SVOLTA IMMANENTISTICA.
La sproporzione espositiva può comunque essere proficuamente utilizzata ai fini di un progressivo avviamento al pensiero critico, quale ci proponiamo di realizzare con questo corso di storia della filosofia; infatti lo studio dettagliato delle argomentazioni dei maggiori esponenti della svolta "immanentistica" che caratterizza la filosofia moderna (Descartes, Spinoza, Leibniz, Hume, Kant) servirà a rendere ragione della tesi di fondo che ispira il nostro lavoro storico ermeneutico: ossia che — come abbiamo segnalato nelle conclusioni del primo volume — non ci sono due possibilità per la filosofia (quando è filosofia in senso proprio), quella che risponde al metodo del realismo e che mantiene una coerenza sostanziale con il "senso comune", e quella che si ispira invece al metodo dell’immanenza gnoseologica o idealismo e che nega in tutto o in pare (ma solo dialetticamente, come vedremo, perché tale negazione è sostanzialmente contraddittoria) le premesse del senso comune. Essendo l’epoca moderna il momento in cui le due possibilità appaiono insieme e rappresentano il criterio ispiratore di celebri contrapposizioni teoretiche (Pascal e Vico contro Descartes, Reid contro Hume, Jacobi contro Spinoza), sarà indubbiamente istruttivo ed esaminare da vicino le argomentazioni delle due parti; la coerenza del discorso filosofico degli uni e degli altri potrà così essere opportunamente valutata, a tutti vantaggio della possibilità di fare filosofia in modo critico e personale.
Parrebbe, quella di monsignor Livi, una mera precisazione didattica, quasi una giustificazione di metodo, che rivela sì un grande scrupolo di oggettività, ma pur sempre limitata all’ambito del cosa; e invece è molto di più, investe anche l’ambito del come e lascia trasparire una potenza di pensiero e un rigore storiografico che spiccano immensamente nell’abituale panorama didattico, dove anche grandi luminari, o presunti tali, partono senza mostrare alcuna consapevolezza storica, scambiando le loro opinioni e i loro preconcetti per fatti di per sé evidenti, che non c’è neanche bisogno di spiegare tanto sono limpidi e trasparenti. E come ci si accorge di aver di fronte un interlocutore intelligente, anche se rivestito di poveri panni, dopo pochissimi minuti che si è iniziata una conversazione, così bastano poche righe al lettore per rendersi conto che l’autore di quel testo è uno studioso e un pensatore fuori del comune: un gigante, il quale ha pesato e valutato ogni parola, ogni virgola del proprio discorso, perché sa che i problemi della filosofia nascono proprio dal linguaggio e dall’adozione disinvolta e frettolosa di criteri metodologici posti come auto-evidenti ma, in realtà, tutt’altro che condivisi e condivisibili, non appena li si sottoponga ad un minimo di verifica storico-critica. Dunque: monsignor Livi mette subito il dito nella piaga e avverte gli studenti che i programmi scolastici, e tutta l’impostazione della cultura italiana, e non solo italiana, sono fatti in modo da dare un risultato preconfezionato: dedicando il primo anno di storia della filosofia ai primi venti secoli del pensiero occidentale, il secondo anno ai successivi quattrocento anni e il terzo agli ultimi duecento, si fa in modo che il pensiero moderno acquisti una dimensione sproporzionata e appaia come quanto di meglio ha prodotto il pensiero umano nel corso della sua evoluzione. Ma questo, avverte Livi, è un approccio meramente quantitativo ed esteriore alla storia del pensiero: quando mai l’ultimo arrivato si può considerare più valido di quelli che l’hanno preceduto, per il solo "merito" di esser giunto in un tempo vicino al presente? E quando mai il pensiero si giudica in base alla maggiore vicinanza o lontananza rispetto al punto d’osservazione? Il fatto è che i moderni danno per scontato che la modernità è il centro di tutto, e quindi che ogni cosa possa e debba essere giudicata istituendo un confronto con se stessa: sono valide le cose che le si avvicinano nel tempo e che confermano il suo paradigma, i suoi valori, le sue convinzioni; mentre appaiono dei goffi tentativi, degli sforzi non ben riusciti quelle forme di pensiero che sono più lontane da essa. Inutile dire che, in questa prospettiva, i mille anni di storia del pensiero cristiano devono per forza essere svalutati: sia perché più lontani da noi nel tempo, sia perché più lontani nei loro contenuti, nel loro approccio al problema della verità, nei loro modi di concepire la relazione tra ragione e fede. E così monsignor Livi smonta, in poche righe, il mito fondamentale su cui si basa la cultura moderna: quello dell’obiettività, della scientificità, della irrefutabilità. Niente affatto: il pensiero moderno è talmente disonesto, da aver bisogno di simili trucchi per imporsi: si auto-valorizza e si auto-celebra senza pudore, e costringe gli studenti a mandar giù capitoli su capitoli di quei pensatori che maggiormente hanno contribuito a edificare il castello di carte del pensiero moderno, mentre vengono sbrigati in poche lezioni, malvolentieri e con un senso di sopportazione, quei giganti del pensiero che hanno costruito il magnifico edifico sul quale ha riposato la concezione della realtà per oltre un millennio, e che ha permesso ai nostri avi di lavorare, amare, generare dei figli in un’ottica di serenità e continuità, pur nella consapevolezza della fatica e dei rischi del vivere. Del resto, non si tratta di contrapporre pensatori di età diverse, per esempio sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino (che vissero a sette secoli di distanza l’uno dall’altro!) contro Cartesio e Spinoza: perché anche nel quadro storico della modernità ci sono stati insigni pensatori che non hanno accolto il paradigma moderno, immanentista e idealista, ma hanno tenuto lo sguardo rivolto verso l’orizzonte della philosophia perennis. Solo che ad essi viene concesso uno spazio minimo sui manuali, e spesso i loro nomi non vengono neppure ricordati dai professori, col risultato di dare l’impressione che la modernità è formata solo dai pensatori che l’hanno celebrata e che si sono tenuti entro il limiti del suo rigido paradigma immanentista e idealista; operazione, sia detto per inciso, che viene fatta anche per la storia della letteratura e per la storia in quanto tale, nonché per la storia dell’arte, per la storia della scienza e per la stessa teologia. Il che ci rivela, una volta di più, il volto totalitario della modernità: per affermarsi, essa deve negare, disprezzare, rimuovere ciò che non le appartiene e che non può assimilare: comportandosi esattamente come hanno sempre fatto, in ambito non solo politico, ma culturale, tutti i regimi totalitari di qualunque tendenza. Ed è così che i nostri studenti hanno dovuto attendere tre generazioni per sapere che ci sono state le foibe, che c’è stata una guerra civile, che non tutto il bene stava da una parte sola; e chissà quanto dovranno attendere i cittadini prima di sapere che quella di George Floyd è una ben misera bandiera per chi voglia lottare contro il razzismo, che il razzismo non c’entra niente con le sedizioni degli Antifa e che la polizia, americana ma anche italiana, talvolta commette degli abusi e perfino dei crimini a danno di comuni cittadini, ma se questi sono bianchi nessuno solleva una questione, nessuno scende in piazza… come mai? E così, per anni ci hanno intronato gli orecchi con la barbarie dell’apartheid in Sud Africa, ma adesso che l’apartheid di fatto si è rivolta contro i bianchi, bocche cucite e silenzio assoluto. Allo stesso modo uno studente di liceo ha ben poche probabilità di trovare un professore come Antonio Livi, a spiegargli che oltre a Spinoza c’è Jacobi, oltre a Cartesio c’è Vico, oltre a Hume c’è Reid. La modernità si auto-alimenta, seleziona i propri cultori e le proprie truppe scelte, mentre ostracizza o cancella tutto ciò che le si oppone.
Sul piano strettamente filosofico, il grande merito di Antonio Livi è stato quello di rimettere al centro la filosofia del senso comune, sull’esempio di Étienne Gilson, riannodando il pensiero speculativo al sentire delle persone comuni e così ripristinando il sentiero interrotto fra ragione e fede, il tutto su una base di sano e concreto realismo. Una mela è una mela, diceva san Tommaso, e chi non è d’accordo può andarsene. La modernità, per ragioni tutte sue, ideologiche e peggio, cioè di potere e di controllo sulle persone e sulle cose, detesta il realismo del senso comune e pretende di rifare la realtà secondo le vane elucubrazioni di un pensiero astratto, velleitario, solipsistico, frutto a sua volta dell’ipertrofia dell’ego. Il realismo infatti richiede un atteggiamento di umiltà di fronte al mondo: le cose sono ciò che sono, sta alla mia mente cercare di comprenderle; laddove l’idealismo capovolge i termini del problema e dice: io sono il mondo, tutto ciò che esiste deve passare per la mia comprensione e la mia spiegazione; in un certo senso, deve chiedere il permesso a me. Ed ecco che la fede si allontana, se ne va per un’altra strada, desinata ad esaurirsi: non c’è posto per lei nella modernità. E non c’è posto neppure per la "vecchia" teologia, quella che mette Dio al centro, perché ora al centro deve esserci l’uomo, come insegna Karl Rahner, discepolo di Heidegger e quindi figlio d’un esistenzialismo nichilista e chiuso al trascendente: ancora e sempre immanenza. Ma uomini come Antonio Livi ci ricordano che esiste un’altra strada: quella del pensiero centrato sull’Essere…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione