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… e soprattutto: perché comportarsi da idioti?

Potremmo sottotitolare la presente riflessione Idioti parte due, sempre con riferimento all’uso massiccio e indiscriminato delle mascherine sanitarie anche dopo che l’emergenza è finita e che insigni medici, come Alberto Zangrillo, hanno detto a chiare note che il virus del Covid-19 si è estinto; anche se in Parlamento il solo Vittorio Sgarbi sembra aver tratto le conseguenze di tali dichiarazioni dei veri esperti, non dei palloni gonfiati televisivi, e chiesto all’assemblea legislativa di prenderne atto. Infatti, dopo aver valutato se esista un diritto all’idiozia di massa, e aver risposto negativamente (mentre quella privata si può in sostanza tollerare in quanto rientra nella sfera dei normali diritti individuali, mentre questa si configura come un attentato alla libertà di tutti), ci resta pur sempre la cosa più importante da chiarire. Che è questa: trattandosi di un atto volontario, e sia pure indotto da mesi e mesi di terrorismo psicologico televisivo, che cosa spinge milioni di persone a scegliere un comportamento da idioti, laddove potrebbero scegliere di comportarsi da persone sensate? La paura, naturalmente, potrebbe fornire da sola una spiegazione più che sufficiente. La paura è il più antico e il più potente dei nostri istinti, e in questo caso è stato coltivato ad arte, metodicamente, scientificamente, per settimane e mesi, martellandolo a tutte le ore del giorno nella testa e nel cuore delle persone. E insieme alla paura, il conformismo: l’abitudine a non pensare con la propria testa, a fare quel che fanno gli altri, a lasciarsi guidare passivamente come un gregge di pecore.

C’erano già stati degli episodi significativi, che avevano mostrato ad abundantiam cosa possa fare questo miscuglio micidiale di paura cieca e istinto gregario. Per citarne solamente uno, ricordiamo quel che accadde a Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017, durante la proiezione sui maxischermi di una partita di Champions League fra la Juventus e il Real Madrid, allorché alcuni delinquenti spruzzarono, a scopo di rapina, dello spray urticante tra folla, già abbondantemente alterata dall’assunzione di bevande alcoliche, cosa che generò un allarme generale per un presunto attentato terroristico. Risultato: il popolo bue si diede a una pazza fuga che provocò due morti e 1.672 feriti, una decina dei quali molto gravi I responsabili della strage vennero poi individuati e arrestati e ci furono delle condanne per omicidio preterintenzionale; intanto, però, la lezione era stata chiara, se qualcuno avesse avuto voglia di apprenderla: gli italiani si stavano riducendo al livello di una mandria di bestiame impazzito, pronti a gettarsi a capofitto in uno stampede, una fuga di bovini incontrollata e autodistruttiva, nella quale si smarrisce ogni briciola di umanità e dignità personale, per regredire ad uno stato puramente animale. Sicché mentre altre città d’Europa hanno dovuto contare i loro morti e feriti provocati da veri attentati terroristici, l’Italia, coi fatti di Torino, ha avuto anch’essa le sue vittime da piangere (sindaco: la grillina Chiara Appendino, tuttora indagata per omicidio colposo e disastro colposo, oltre che per falso ideologico in un’altra vicenda), ma col triste vanto d’essere stata il teatro dell’unica strage di terrorismo in cui le vittime sono state reali, ma i terroristi non c’erano, in compenso c’era una mandria di ex persone impazzite che si sono calpestate a morte per scappare da un pericolo immaginario. Ed ecco il punto: in una società come la nostra, non è necessario che vi sia un pericolo reale per far scattare la psicosi collettiva; basta che qualcuno dica che c’è un pericolo. Gli italiani, si sa, sono un popolo emotivo: la loro storia è piena di episodio dai quali traspare la loro emotività (uno per tutti: la rotta di Caporetto, in cui una modesta sorpresa tattica si trasformò, nel giro di poche re, in una catastrofe militare senza precedenti), però, se non altro, potevano vantare, rispetto ad altri, un forte senso critico individuale, che è stato loro prezioso in diverse occasioni. Ora si direbbe che l’emotività sia rimasta, anzi se possibile perfino aumentata, ma in compenso è del tutto evaporato ogni residuo di senso critico; e l’emotività sommata alla paura e all’istinto gregario produce effetti disastrosi, sui quali son pronti a giocare speculatori senza scrupoli come di Bill Gates.

Tutto chiaro, allora; tutto spiegato? Niente affatto. Va bene la paura; va bene l’emotività; va bene anche il conformismo: eppure, nel conto c’è ancora qualcosa che non torna. Si ha l’impressione che vi sia qualcosa d’altro in questo voler prolungare ulteriormente uno stato di emergenza sanitaria che è già durato fin troppo; in questa sorta di nostalgia della mascherina, quasi di rimpianto per le settimane nelle quali siamo stati letteralmente segregati in casa, sotto ricatto morale e con lo spauracchio di sanzioni pesantissime, come se all’improvviso fossimo diventati tutti quanti, chissà come, dei potenziali, pericolosissimi delinquenti. Vediamo di capire cosa potrebbe essere questo qualcosa d’altro.

1. Prima di tutto, il ritorno alla normalità implica un ritorno alla responsabilità individuale di ciascuno nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri. Per un tempo considerevole, una parte di tali responsabilità erano state annullate o disciplinate rigidamente da un’istanza superiore, la legge, entrata perfino nella sfera più intima e privata delle persone a stabilire quel che si poteva e quel che non si poteva fare, centellinando con avarizia, o perfino negando, anche i gesti più abituali e i comportamenti più innocenti. Ovviamente, per una psiche normale il ritorno alla normalità equivale a un sollievo, a levarsi di dosso un vero e proprio giogo, tanto scomodo quanto umiliante. Ma per una psiche disturbata, depressa, malata? Per una psiche affetta da uno stato patologico, la mancanza di libertà e l’imposizione esterna di regole rigidissime non vengono percepite come un giogo, e tanto meno come un’umiliazione della propria dignità e autonomia, bensì come un sollievo, un aiuto, un sostegno. Finalmente l’anima sofferente, abbattuta, prostrata, riceve un bastone al quale appoggiarsi: è un sollievo, non un peso. E ora quel bastone, col ritorno alla normalità, viene meno; colui che lo aveva offerto, lo ritira. Subentra un senso di frustrazione, di dispetto. Perché offrire un sostegno e poi riprenderselo, lasciando le persone più incerte, più sole e affaticate di prima? Questo tipo di soggetti sono adesso più infelici che mai, proprio come certi malati sono infelici quando subentra la guarigione, perché sanno che non verranno più accuditi, vegliati e coccolati come prima; non saranno più scusati nei loro difetti, nei loro capricci, nelle loro pretese: in breve, dovranno tornare a lavorare, come tutti gli altri, e rientrare in una condizione simile a quella da cui erano usciti, sia pure al prezzo della malattia. Ma ci sono delle persone, e anzi non poche, le quali sono disposte a pagare un simile prezzo, né lo trovano eccessivo, in cambio di quelle attenzioni che in via ordinaria non ricevono da nessuno, o non le ricevono nelle misura desiderata, magari perché non sono capaci di farsi voler bene, non hanno meriti di alcun genere, né hanno voglia di fare alcunché se non farsi servire e coccolare.

2. In secondo luogo bisogna tener conto del fattore noia. La vita ai nostri giorni è diventata eccessivamente noiosa, e lo è diventata precisamente perché, o soprattutto perché, si è diffusa l’idea che è giusto e doveroso controllare tutti i fattori legati all’imprevisto, onde garantire la maggior sicurezza possibile a tutti e a ciascuno. In una certa misura, cioè è normale e lo si deve considerare come un elemento centrale di qualsiasi società civile, dal momento che gli uomini desiderano la sicurezza e lo stato, le leggi e anche la chiesa rispondono appunto a tale bisogno. La civiltà moderna però ne ha fatto una specie di dogma sacro, e ciò in conseguenza del fatto di aver messo l’uomo al posto di Dio. Ormai siamo arrivati al punto che chiunque inciampa per la strada in un cubetto di porfido sporgente, si sente in diritto di far causa al comune per avere un risarcimento in denaro, e chiunque perde un congiunto perché divorato da uno squalo, si ritiene pienamente legittimato a intentare una causa alle autorità per non aver installato sulla spiaggia dei cartelli con il divieto di balneazione, o almeno con qualche segnale di pericolo. Insomma, non si accetta più l’imprevisto, e se l’imprevisto accade, magari nelle forme di un terremoto o un’eruzione vulcanica, perfino in tali casi ci si ritiene defraudati di un diritto essenziale, il diritto alla sicurezza. Buffo che cò accada in una società ove i nascituri non hanno, per così dire, neppure la sicurezza di poter nascere secondo le leggi di natura, perché la loro madre potrebbe decidere di sopprimerli nel proprio seno, e ciò perfettamente a termini di legge: come dire che si vuole, si pretende, il più alto grado possibile di sicurezza, ma solo in ciò che asseconda i propri desideri e non io diritti della persona umana in assoluto. Ebbene, nel grigiore della noia quotidiana l’emergenza sanitaria ha portato una nota di novità, ha modificato radicalmente le abitudini e introdotto il fattore pericolo, che per le persone annoiate è divenuto sinonimo di avventura. È avventuroso dover rischiare la vita anche solo per andare dal fornaio a comprare il pane: è l’equivalente odierno delle avventure che vivono i personaggi dei film western. Dunque, per tali persone vi è un’inconscia resistenza a rientrare nei ranghi della normalità: è come doversi congedare da una bella avventura: pericolosa ma bella, anzi, bella proprio perché pericolosa. E ciò spiega la riluttanza a separarsi dalla mascherina, simbolo dell’avventura. In un certo senso, per tali persone rinunciare alla mascherina è l’equivalente di ciò che avrebbe significato, per un annoiato borghese dei primi anni del Novecento, rinunciare per sempre alla lettura dei romanzi di Emilio Salgari; addio al mondo dei pirati di Mompracem, alla Tigre della Malesia e alla Perla di Labuan. Non bisogna sottovalutare il peso esercitato dalla noia nei grandi eventi della storia. Alcuni storici e sociologi sono convinti che le scene impressionanti di entusiasmo guerresco e d massiccio arruolamenti volontari dell’agosto 1914 si spiegano, almeno in parte, col senso di noia e frustrazione provato da milioni di persone, specie di giovani, in un’Europa troppo pacifica e civilizzata e perciò povera di avventura. E come per molti giovanotti il sogno recondito era quello di tornare a casa vittoriosi e con una ferita romantica, ad esempio con una benda sull’occhio come D’Annunzio, sì da suscitare l’ammirazione delle fanciulle, nel subconscio di molte persone la mascherina diviene l’equivalente odierno di un trofeo guerresco da esibire, a testimonianza del fatto che loro c’erano.

3. In terzo luogo bisogna fare riferimento al bisogno di appartenenza e ai riti d’iniziazione, ben noti agli studiosi di antropologia. La società odierna, specie ai tempi della globalizzazione selvaggia, distrugge le identità, le appartenenze, le radici culturali e spirituali, mentre livella, omologa, massifica tutto, uomini e cose. Tuttavia il senso di appartenenza fa parte dei bisogni primari dell’uomo: se viene negato, se viene represso, riemerge come può e nelle forme che gli sono permesse, anche le più meschine o degradanti. La mascherina indossata con convinzione, con ostinazione, quasi con senso mistico, anche quando ormai perfino i sassi hanno compreso che non ha il minimo valore sanitario, diventa così il surrogato dell’appartenenza a un gruppo, in questo caso il gruppo di quelli che hanno capito, ossia quelli che possiedono senso di responsabilità (nel linguaggio del PD: gli esponenti dell’Italia migliore, contrapposti a tutti quelli che non votano a sinistra, e formano l’Italia peggiore). Non è un caso che a farsi banditori di una simile mistica siano personaggi come Zingaretti, cioè gli esponenti di quella parte politica che più di ogni altra si batte, di fatto, per la distruzione di tutte le identità e le appartenenze, in nome di una società totalmente "liberata" nella quale saranno avvantaggiati innanzitutto i clandestini (che non saranno più tali, anzi già da oggi è proibito chiamarli con questo nome), i sodomiti (vedi sopra) e ogni genere di marginali, irregolari, abusivi e i membri delle minoranze più aggressive, come gli occupanti di case sfitte che usano la corrente elettrica senza pagarla, così come non pagano l’affitto; e svantaggiati invece tutti i "normali", i miti, gli studenti volonterosi, i professionisti onesti, i cittadini rispettosi della legge, i puntuali pagatori delle tasse, ecc. Si noti che l’identità più forte è quella che si riceve per mezzo della famiglia e che quella parte politica, oggi al governo del Paese (anche se nessuno è riuscito a capire esattamente in che modo ci sia arrivata, visto che da anni non vince le elezioni) proclama apertamente che la famiglia deve fare un passo indietro, come ha detto il governatore Bonaccini, secondo il quale la prima agenzia educativa deve essere lo Stato, e la famiglia stare al secondo posto (proprio nell’Emilia dove si è scoperto lo scandalo degli affidi abusivi dei bambini alle famiglie "diverse"). In questo contesto, portare la mascherina anche fuori tempo massimo può dare un senso di appartenenza a chi non ce l’ha, e ai nostalgici del ’68 può quasi far rivivere le emozioni di quando, col viso nascosto da un fazzoletto, prendevano a sprangate i "fascisti" o magari i poliziotti dell’odiato ordine borghese. Inutile dire che stiamo parlando, ancora e sempre, di quella certa parte ideologica: impossibile sbagliare, del resto sono i migliori, quindi li si trova sempre in prima fila. Sì: perché la mascherina serve anche a travisare il volto, a nascondere la propria identità; e naturalmente offre un forte vantaggio psicologico rispetto a quelli che non ce l’hanno, perché essi possono essere visti e riconosciuti, ma quanto a loro non possono vedere né riconoscere. Sì: è un bel vantaggio per chi sogna ancora l’ideologia del ’68, estinta in ogni altra parte del globo; per chi si sente migliore, ma senza esserlo: insomma per tutti gli sfigati che si credono indispensabili al Paese.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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