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Che cosa, esattamente, ci ha allontanati da Dio?

La crisi che stiamo attraversando non parte da ieri, ma risale a molti, molti anni fa. E non è solo una crisi economica, o produttiva, o sanitaria, o politica, o legislativa, o della pubblica sicurezza, o familiare, o culturale, o migratoria, ma tutte queste cose insieme, e, prima di tutto, e causa di tutto, una profondissima crisi spirituale e morale. Né il fatto che il nostro Paese la stia vivendo in forme particolarmente drammatiche deve farci velo alla sua dimensione occidentale, anzi, planetaria: è la crisi di una intera civiltà, o meglio di un modello di civiltà (perché miliardi di persone non appartengono alla civiltà occidentale, e tuttavia guardano ad essa come a un modello, sia pure con differenti sfumature). Lo abbiamo già detto più volte: la civiltà occidentale moderna è essa stessa una malattia, è la malattia; fin dalle sue origini, il mondo moderno ha incubato in sé i germi di una malattia mortale, che ha avuto sette o otto secoli per svilupparsi: ora la malattia è entrata nella fase finale, e noi tutti ci dibattiamo nelle convulsioni della morte. Abbiamo anche sostenuto, più e più volte, che la causa prima di quella malattia che è la modernità consiste nell’aver voltato le spalle a Dio, nell’allontanamento da Lui, nel rifiuto del Suo amore, per sostituirlo con un bieco, perverso, demoniaco amore di noi stessi, del nostro io più basso, della nostra natura inferiore: perché, pur esaltando a parole la ragione, il fatto è che il sistema di vita moderno deifica gli istinti, gli appetiti, le brame incontrollate, e per poter fare una cosa tanto vile e innaturale è quasi costretto a capovolgere tutti i valori e a sovvertire ogni criterio di verità. Eppure una cosa ci resta da chiarire, la più importante di tutte: da dove viene il rifiuto di Dio, caratteristico, anzi essenziale, dell’uomo moderno? Se, infatti, Dio è consustanziale al nostro essere; se la nostra natura è tale da averne il desiderio, la nostalgia, al punto che non può dirsi veramente umana una società se non si rivolge a Dio per adorarlo (e infatti non ne è stata trovata neanche una che faccia eccezione alla regola), allora come è stato possibile che noi, ad un certo momento, ci ponessimo su questa strada, operando una vera rottura nei confronti della nostra natura più vera e più profonda e tradendo il nostro stesso statuto ontologico?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo uscire dal terreno strettamente filosofico e aiutarci con una ricognizione di tipo storico. La modernità non sorge contemporaneamente in tutto l’Occidente e non si afferma in maniera uniforme, ma tutto al contrario, nasce da alcuni focolai molto limitati, si espande a macchia di leopardo e penetra nelle varie classi sociali e nelle differenti regioni geografiche con tempi e spesso anche con modalità profondamente diversi, in un arco di tempo che copre, appunto, non meno di sette secoli, cioè dal tardo XIV secolo. Al principio la modernità è soprattutto, o quasi esclusivamente, una nuova filosofia, cioè una nuova maniera di vedere il mondo, la natura, l’uomo e la relazione con Dio, oltre che naturalmente una nuova scala di valori e quindi un nuovo codice etico. Inoltre all’inizio è un fenomeno limitato a una minuscola percentuale della classe dirigente e più precisamente alla classe intellettuale, che all’epoca era al novanta per cento formata da ecclesiastici. E infatti: la crisi della modernità matura entro la Chiesa, e per l’esattezza fra i teologi della tarda scolastica; in un secondo tempo si estende alla gerarchia, ai vescovi e ai cardinali, e solo da ultimo penetra nella società civile, contagiando scrittori, pensatori, scienziati, artisti e un certo numero di principi, sovrani, magistrati, mercanti, banchieri. Il popolo, il popolo delle campagne, resta legato alla visione cristiana nelle forme pratiche della sua vita e ci vorranno ancora parecchi secoli perché la modernità riesca a conquistarlo: bisognerà arrivare fino al XIX secolo per l’Europa occidentale e al XX secolo per l’Europa meridionale e per quella orientale, vale a dire che bisognerà attende che la Rivoluzione industriale faccia sentire i suoi effetti. Fino a quell’epoca, la civiltà moderna riguarda una minoranza della popolazione, quella che vive nelle città e quella che, per ragioni lavorative e professionali, è più aperta e ricettiva al cambiamenti; quella che è più inquieta e insoddisfatta, non solo e non tanto sul piano materiale — parliamo della nobiltà del XVIII secolo e della borghesia del XIX — quanto sul piano culturale, morale, esistenziale. La battaglia della modernità per la conquista dell’Occidente, e poi del mondo, è condotta da una élite che non oltrepassa, per alcuni secoli, il due, tre per cento della popolazione totale, ma è quel due, tre per cento che possiede i più importanti strumenti della cultura, della ricerca e della comunicazione; è la parte la più dinamica, la più audace perché già disancorata, psicologicamente, dalle proprie radici; inoltre la più decisa e consapevole della posta in gioco, mentre gli altri non si sono nemmeno accorti di quel che sta bollendo in pentola.

Prendiamo il caso dei grandi banchieri: mano a mano che si rendono conto del loro potere, delle loro possibilità, degli obiettivi che possono raggiungere, crescono a dismisura sia la loro ambizione, sia la loro audacia, sia la loro insofferenza e il loro disprezzo nei confronti dei vecchi schemi e modi di vita, delle vecchie certezze e soprattutto della vecchia morale, la quale condannava il prestito di denaro a usura, e in genere la monetarizzazione del tempo, come un gravissimo peccato, in quanto nella visione cristiana il tempo appartiene solo a Dio e quindi non è lecito farsi pagare un interesse progressivo sul prestito del denaro. Per liberarsi dai vecchi schemi e dalle vecchie costrizioni, il banchiere ha bisogno di un clero che gli tolga lo spettro della scomunica, di una filosofia che giustifichi il suo modus operandi, di una magistratura che lo tolleri e lo difenda, di un potere politico che abbia bisogno di lui e lo sostenga; e quel che si è detto del mercante, vale, in diversa misura, per tutte le nuove figure sociali che caratterizzano il sorgere e l’affermarsi della modernità. Ecco perché si tratta di un processo molto lento e discontinuo; nel XVII secolo c’è perfino una rifedualizzazione delle campagne e una regressione dell’economia finanziaria, e monetaria in genere, il che impone una battuta d’arresto nell’Europa meridionale (ma non in quella nord-occidentale e nella sua nuova appendice nordamericana, già entrate nell’orbita del moderno capitalismo finanziario). Frattanto, però, l’ostacolo più grosso, la visione cristiana della vita, e non soltanto la posizione della Chiesa verso il denaro e verso l’usura (si pensi al rifiuto di papa Clemente VII di annullare il matrimonio di Enrico VIII, che fornisce il pretesto affinché un re "difensore della Chiesa" si autoproclami capo della sua chiesa), è stato rimosso con la rivoluzione luterana, pudicamente e ipocritamente chiamata riforma, la quale, fra le altre cose, fornisce ai sovrani che vi aderiscono – i principi tedeschi, i sovrani inglesi, danesi e svedesi e infine la Repubblica olandese – il capitale necessario per accelerare il movimento centrifugo dalla vecchia civiltà europea, quella cristiana, incamerando i beni delle Chiesa. Operazione che verrà poi ripetuta, con la Rivoluzione francese e con l’unificazione italiana, nei Paesi cattolici, o piuttosto ex cattolici, permettendo alle monarchie liberali, cioè rivoluzionarie, di finanziarsi e dotarsi proprio dei mezzi necessari per sostituire alla cultura e alla morale cattolica una cultura e una morale laica, con la quale recidere l’ultimo legame fra lo Stato e la religione.

Le masse contadine sono rimaste legate al vecchio sistema di valori e tradizioni fino all’avvento della Rivoluzione industriale; poi, cacciate dalle campagne, inurbate a forza da un meccanismo economico spietato, inumano, preludio alla globalizzazione selvaggia dei nostri giorni, anch’esse hanno voltato le spalle al vecchio Dio e si sono rivolte al nuovo messia, Marx, e al nuovo dio, lo Stato etico di classe, che si presentava loro nelle vesti suadenti del riscatto e della liberazione e poi, una volta andato al potere, svelerà la sua vera natura furiosamente totalitaria. Ma fino a quando erano rimaste legate alla terra e fino a quando erano state organizzate da un basso clero uscito dal loro stesso seno, le masse contadine avevano resistito tenacemente alla modernità, se necessario anche con le armi e al prezzo della vita, come si vide ad esempio in Vandea, nel 1793, e più tardi in Messico, negli anni ’20 del Novecento. Ma era una battaglia persa in partenza, perché la cultura moderna conquistava sempre più consensi fra le classi dirigenti, e se le classi dirigenti adottano una nuova mentalità e un nuovo sistema di valori, mentre le masse contadine restano fedeli ai vecchi, è solo questione di tempo la vittoria delle prime e la sconfitta delle seconde; se necessario, le classi dirigenti moderniste non esitano a invocare l’intervento del capitale straniero, e perfino delle armi straniere, pur di venire a capo della resistenza interna e di collocarsi nel sistema della politica, dell’economia e della finanza moderne. La modernizzazione, infatti, è un sistema globale che non può accontentarsi, per sua natura, di successi parziali e di una diffusione locale: se qualcosa resiste alla sua espansione, si tratta di una nemico che deve essere eliminato ad ogni costo, con qualsiasi mezzo. Si pensi a uno Stato d’una certa importanza che rifiuti di aprirsi al cosiddetto libero mercato, cioè alla penetrazione del capitale finanziario speculativo: la sua sola esistenza è un elemento d’inciampo che va rimosso, perché i mercati finanziari devono essere controllati interamente, se qualcuno riesce a sottrarsi la vittoria finale della grande finanza è posta in forse, dunque essa deve fare ricorso a tutte le sue risorse e dispiegare tutta la sua potenza, per venire a capo del problema. Notiamo per inciso che anche le due guerre mondiali del XX secoli si possono leggere in tale ottica, dopo di che diverrà più chiara l’espressione il sangue contro l’oro che la parte uscita sconfitta adoperava per spiegare alle masse le ragioni della lotta e dei sacrifici che venivano chiesti.

Nel 1832 il famoso poeta ebreo tedesco Heine, trovandosi in Francia, scrisse una serie di articoli per la Gazzetta Universale di Augusta, poi raccolti in volume con il titolo di Rendiconto parigino. Nell’estate, trovandosi in Normandia, osservò una marcata differenza tra l’atmosfera culturale di quella regione e quella che aveva lasciato subito prima nella capitale, e ne riferì nell’articolo datato da Le Havre il 1° agosto, di cui riportiamo uno stralcio (da: Heinrich Heine, Rendiconto parigino, a cura di Paolo Chiarini, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1972, pp.226-227):

Non posso fare a meno di osservare che l’influsso del clero cattolico è in questa provincia più grande di quanto si creda a Parigi. Durante i funerali li si vede passare per le strade nei loro abiti religiosi, con croci e stendardi, cantando malinconicamente — spettacolo quasi sorprendente per chi venga dalla capitale, dove cose del genere sono severamente proibite dalla polizia, o meglio dal popolo. Per tutto il tempo che sono stato a Parigi non ho mai visto un sacerdote girare per le strade nell’abito del suo ministero; neppure in uno dei mille e mille funerali che ho incontrato durante l’infuriare del colera ho mai visto la Chiesa rappresentata dai suoi servi o dai suoi simboli. Molti sostengono, tuttavia, che anche a Parigi la religione — in silenzio — riprende vita. È vero, per lo meno la comunità religiosa dell’Abbé Chatel [Ferdinand Toussaint François Chatel, 1795-1857, s’era staccato, dopo la rivoluzione di luglio, dalla chiesa di Roma e aveva fondato una "Église unitarie française"] registra un quotidiano incremento; la sua sala, nella Rue Clichy, è già diventata troppo stretta per la fola dei fedeli, e da qualche tempo egli officia nel grande edificio del "boulevard" Bonne Nouvelle, dove un tempo il signor Martin esibiva gli animali del suo serraglio e dove, adesso, c’è una scritta a lettere cubitali: "Église catholique et apostolique".

Ancora nel 1832, dunque, una cosa era il sistema di vita parigino, un’altra cosa e ben diversa quello normanno. In Italia, il sistema di vita moderno si è imposto solamente con il boom economico degli anni ’50 e ’60, sempre irradiandosi dalle città e dal Nord verso il Sud (per mezzo dell’immigrazione interna dal Sud verso il Nord), finché la civiltà contadina si è spenta per il venir meno delle sue basi materiali e morali e l’agricoltura è divenuta un sistema produttivo fondato sugli stessi presupposti tecnici e finanziari di tutti gli altri, vale a dire dominato dalla logica delle grandi banche e non più da una propria logica interna (tanto è vero che un raccolto troppo abbondante viene distrutto sotto i cingoli dei trattori, in omaggio alle leggi della finanza moderna). Per il resto, è interessante confrontare le osservazioni di Heine con la sociologia e la psicologia del clero cattolico dei nostri giorni: anche qui la vittoria della modernità è stata una vittoria totale, nel senso che il clero stesso ha ripudiato i propri simboli e i propri riti, li ha nascosti, ha cercato di giustificarli goffamente in base alla logica e alle categorie della mentalità moderna. La Messa di Pasqua soppressa per motivi di sicurezza sanitaria e la santa Comunione distribuita ai fedeli coi guanti di plastica, la mascherina e le pinzette, sono comportamenti che hanno la loro origine nell’ormai lunga abitudine del clero di dismettere l’abito e i simboli della condizione sacerdotale non appena messo il piede fuori dalla chiesa, anzi, non appena terminate le celebrazione liturgiche; per non dire delle chiese che hanno abolito la croce in omaggio a un fumoso e velleitario dialogo interreligioso. Se un prete arriva a comportarsi come se Gesù Eucaristico potesse essere portatore di un virus mortale, allora vuol dire che ha perso la fede ma vuol tenere in vita un’ignobile farsa per ragioni meramente opportunistiche. Ed ecco la risposta che cercavamo: la modernità si allontana da Dio per meglio schiavizzare l’uomo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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