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Qualcuno si ricorda della Croce di Auschwitz?

Di fronte agli scempi dell’antipapa Bergoglio e del suo indegno falso clero, non sono pochi quelli che rammentano con viva nostalgia il pontificato di Giovanni Paolo II e che si rifugiano nei ricordi, peraltro assai idealizzati, tanto da aver tolto da essi tutto ciò che darebbe loro ombra, per lasciare solo le luci. Se considerassero le cose più equamente, si accorgerebbero che le premesse per l’apostasia attuale erano già presenti, tutte quante, nel pontificato del papa polacco; anzi che lo erano già fin dall’indomani della scomparsa di Pio XII e soprattutto dopo l’indizione del Concilio Vaticano II. A chi, se non a Woytjla, si deve l’atteggiamento di prona remissione assunto dalla Chiesa verso le altre religioni, e specialmente verso l’ebraismo? Quel che sta accadendo ora è la diretta conseguenza di quell’atteggiamento e di quelle scelte, che noi, da parte nostra, non abbiamo per nulla dimenticato. Un episodio fra i tanti, ad ogni modo, ci aiuterà a rinfrescare la memoria di quanti fossero disposti a riconsiderare in maniera più oggettiva gli ultimi quarant’anni nella vita della Chiesa; a loro ci rivolgiamo per sollecitare un ripensamento critico che aiuti i cattolici a comprendere meglio anche il presente, per saper trovare le risposte alla crisi drammatica che stiamo vivendo: crisi di fede, di umanità, di civiltà.

Qualcuno si ricorda ancora la vicenda del convento delle suore carmelitane situato all’interno del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia? Correvano gli anni tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e i nostri "fratelli maggiori" avevano levato altissime strida e amari lamenti per l’oltraggio intollerabile che recava loro l’esistenza di quel convento e della grande croce eretta nel 1979, in occasione della visita del papa polacco e della celebrazione della santa Messa nel campo attiguo di Birkenau. Sebbene ad Auschwitz non siamo periti solo degli ebrei e sebbene degli ebrei si fossero convertiti al cattolicesimo senza perciò scampare al genocidio, come Edith Stein, la quale si era fatta suora carmelitana, assumendo il nome di Teresa Benedetta della Croce, e che ad Auschwitz appunto era morta, quel convento e quella croce rappresentavano una provocazione e dovevano essere rimossi. Non solo i gruppi sionisti e integralisti ebraici, ma un po’ tutto il mondo ebraico, assecondato dalla quasi totalità della stampa mondiale e degli altri mezzi d’informazione, dipinse la presenza di quelle suore e di quella croce come un ostacolo insormontabile alla serenità dei rapporto fra ebrei e i cristiani, e come una contraddizione rispetto a quanto annunciato trionfalmente nella Nostra aetate e in genere da tutta la teologia e la pastorale successive al Concilio, cioè il pieno riconoscimento della pari dignità della religione ebraica rispetto a quella cristiana, per non dire della sua primogenitura e della non necessità, per gli ebrei, di convertirsi al cristianesimo, avendo essi già comunque la Promessa di Dio, la cui natura è indefettibile. In qualsiasi altra parte del mondo, la presenza di una croce e di un convento in un luogo che simboleggia la sofferenza umana non viene percepita in termini ostili; qualunque altra cultura e religione non coglie la loro esistenza come una sfida, né come un attentato alla proprietà esclusiva del dolore umano da parte di questo o di quello; ma nel caso di Auschwitz, così è stato. E le cose si spinsero tanto lontano che, a un certo punto, si arrivò quasi allo scontro fisico (citiamo da una fonte neutra come Wikipedia):

Le tensioni sfociarono nel 1989, quando si verificarono due proteste di rilievo. Nel maggio, l’Organizzazione Internazionale delle Donne Sioniste condusse una protesta di 300 membri che sfilarono con simboli e bandiere israeliani. Nel luglio il rabbino newyorkese Avraham Weiss guidò con 6 sostenitori una protesta che ebbe risalto a livello internazionale: scalarono le recinzioni del convento con le uniformi dei campi di concentramento. Il gruppo molestò poi le suore con rumori e grida finché dei lavoratori locali li allontanarono gettando loro secchiate d’acqua

Così è stato rievocata la vicenda del convento di Auschwitz dal celebre giornalista investigativo americano Jonathan Kwitny (1941-1998) nella sua biografica di papa Wojtyla, terminata poco prima di spegnersi per un cancro allo stomaco: L’uomo del secolo. La vita e il tempo di Giovanni Paolo II (titolo originale: Man of the Century, 1997; traduzione dall’inglese di Simone Venturini, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2002, pp. 386-387):

Il papa inoltre intervenne personalmente, senza passare attraverso Glemp [Jòzef Glemp, arcivescovo di Gniezno e Varsavia, primate di Polonia dal 1981 al 2009, nominato cardinale nel 1983], nella questione di un convento stabilito da suore carmelitane in un edificio usato dai Tedeschi come magazzino per i gas mortali di Auschwitz.

Gli ebrei differiscono dai cristiani per la loro percezione della sofferenza. Giovanni Paolo II parla della sofferenza come qualcosa di nobile e che redime e la stessa arte ecclesiale [?] spesso la presenta in questo modo; gli ebrei non riconoscono alcun motivo di consolazione in Auschwitz e ne hanno un brutto ricordo. Anche se la controversia ebbe origine in Polonia, la Chiesa intera dovette subire gli attacchi della stampa mondiale.

«Glemp non capiva il motivo per cui gli ebrei erano in agitazione» riporta un portavoce dei più importanti gruppi di ebrei (Stanislaw Krajewski, che rappresenta i gruppi in Polonia]. «Considerò le pressioni per rimuovere il convento come parte di un movimento contro la Chiesa». Giovanni Paolo II apprese del clamore da un giornale, ma anch’egli non capì ciò che accadeva: nel 1987, aveva aperto un analogo convento carmelitano in un campo di sterminio a Dachau, in Germania, e nessuno si era lamentato..

Il cardinale Macharski di Cracovia, nella cui arcidiocesi si trovava Auschwitz, si incontrò con i capi dei gruppi di ebrei in protesta e nel 1989 decise di far trasferire il convento in un luogo vicino al campo di sterminio. La disputa sembrava conclusa.

Ma nel 1989 il convento restò con l’appoggio di molti vescovi polacchi. Glemp trattò, in diverse occasioni, di entrambi i versanti della questione, ma non trasferì le suore. Un gruppo estremista di ebrei americani inscenò davanti alla TV uno scontro sul luogo, gridando di voler essere rispettati mentre le suore rispondevamo che i dimostranti erano stati inviati dal demonio.

Durante l’inaugurazione, Mazowiecki [giornalista e fondatore del sindacato Solidarnosc insieme a Lech Walesa] riferì a Jan Novak, il polacco d’America ex funzionario a Radio Europa Libera, che la questione stava avvelenando le relazioni tra cattolici ed ebrei. Chiese a Novak di parlarne a Giovanni Paolo II. Così Novak: «Mi procurai un invito a pranzo a Castelgandolfo. Dissi: "l’intera faccenda deve concludersi immediatamente. Le Carmelitane devono lasciare quel luogo". Sentivo che [il papa] era assolutamente dalla mia parte».

«Lasci a noi il problema» disse Giovanni Paolo II a Novak.

Il Vaticano ordinò il trasferimento del convento. Le suore continuarono a opporsi finché il papa non inviò loro un ordine scritto. Il papa «attese il più a lungo possibile» dice l’amico Jacek Wozniakowski con cui Giovanni Paolo II discusse la questione. «Quando comprese che lì episcopato polacco era incapace di risolvere la questione, passò all’azione».

Giovanni Paolo II dirà poi al suo amico André Frossard: «Gli ebrei desiderano che Auschwitz resti un posto di silenzio e li comprendiamo perfettamente. Questo silenzio indica un rimprovero, un lamento contro Dio stesso. Comprendiamo questo bisogno di silenzio perché anche Gesù Cristo disse sulla croce: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?". Ebrei e cristiani devono capirsi su questo punto».

Così, dunque, parlava e così ragionava, un pontefice romano di fronte a un contenzioso che vedeva da un lato il diritto di un convento di suore carmelitane ad esistere, e a pregare e adorare Dio in un luogo dove molti uomini, ebrei e cristiani, hanno sofferto e sono morti, e dall’altro la spigolosa intolleranza di quelli che rivendicano per sé il diritto esclusivo di dirsi vittime di quella pagina di storia e si sentono offesi dalla presenza di una croce, che è, sì, il simbolo del cristianesimo, ma anche un simbolo di pace e amore universale e che ricorda come in quel luogo sono morti anche dei cristiani, fra i quali madre Teresa Benedetta della Croce e padre Massimiliano Kolbe, che era stato internato proprio perché aveva cercato di nascondere e così salvare numerosi ebrei polacchi ricercati dai nazisti, e poi scelse la morte volontariamente per salvare la vita ad un compagno di prigionia già condannato, padre di famiglia. Tutto ciò che sa fare Giovanni Paolo II è ignorare le ragioni di quelle suore e della Chiesa stessa, scavalcare il primate della Polonia, diretto responsabile di quel clero, prestare attenzione alla sola campagna degli ebrei che si ritengono offesi, e assicurare loro che ci avrebbe pensato lui. Poi, siccome le suore ostinate non se ne vogliono andare (e si noti la tendenziosità del racconto di Kwitny, che mette sullo stesso piano le molestie aggressive del rabbino Weiss e le parole delle suore, che vedono in quel gruppo di esagitati uno strumento del diavolo), il pontefice manda loro un ordine scritto affinché la smettano di opporsi al trasferimento. Non risulta che abbia speso una parola di solidarietà, di simpatia e di consolazione nei loro confronti, benché, come polacco, dovesse conoscere benissimo il retroterra culturale della disputa e le sue implicazioni psicologiche, morali e religiose. Tanto più che quella croce era stato proprio lui a farla erigere, o aveva permesso che venisse eretta, allorché si era recato ad Auschwitz per pregare e celebrare la santa Messa dieci anni prima, e già allora qualcuno aveva ritenuto di male interpretare le parole che lui stesso aveva pronunciato (cfr. il nostro articolo: Giovanni Paolo II mancò di tatto verso gli ebrei durante la sua visita ad Auschwitz?, già pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/02/18). Tuttavia la cosa che lascia maggiormente sconcertati non è la decisione di far allontanare le suore, che potrebbe anche spiegarsi in termini di opportunità diplomatica — per quanto ciò abbia il sapore d’una resa a discrezione, davanti a una vera e propria intimazione: Le carmelitane devono lasciare quel luogo! – bensì le ragioni che spingono quel papa ad assumere una tale decisione. In buona sostanza, e senza alcuna sfumatura, Giovanni Paolo II accoglie in toto le motivazioni ebraiche, mostrando addirittura di condividere il ragionamento dei "fratelli maggiori", che si può scomporre nei seguenti elementi:

1) GLI EBREI DESIDERANO CHE AUSCHWITZ RESTI UN POSTO DI SILENZIO E LI COMPRENDIAMO PERFETTAMENTE, dice Wojtyla, parlando con André Frossard. Eppure già qui c’è qualcosa che non va, qualcosa che stride con la verità delle cose. Un convento di religiose cattoliche è troppo rumoroso? Che significa affermare che Auschwitz deve restare un luogo di silenzio? Se non lo si deve intendere in senso fisico — e non crediamo che le suore amino dilettarsi con la televisione e la radio accese a tutto volume — allora se ne deve dedurre che agli ebrei dà fastidio la preghiera dei cristiani. La ragion d’essere di un convento di suore, infatti, è la preghiera. E la preghiera fa pochissimo rumore, o meglio non ne produce affatto. Dunque, non è il rumore che dispiace, ma il fatto che delle suore cattoliche stiano lì a pregare Dio. E per quale mai ragione, se non perché non è il Dio degli ebrei, ma il dio dei cristiani (con buona pace di Bergoglio, per il quale Dio non è cattolico e dunque, come dichiara il documento di Abu Dhabi, può essere ugualmente pregato da qualsiasi religione, tanto son tutte uguali). Ora, proprio questa palese intolleranza anti-cattolica avrebbe dovuto bastare avanzare perché il papa rispondesse in ben altra maniera alla richiesta di smantellare il convento: Perché – avrebbe dovuto chiedere — la preghiera di quelle suore reca danno oppure offesa a qualcuno? Reca danno o forse offesa alle anime di quanti sono morti in quel luogo — e che, ripetiamo, non erano tutti ebrei, ma c’erano anche numerosi cristiani? E sarebbe stato interessante udire la risposta.

2) QUESTO SILENZIO INDICA UN RIMPROVERO, UN LAMENTO CONTRO DIO STESSO. Ma questa sarà la mentalità ebraica, non è la mentalità cristiana, anzi questa ne è l’esatto opposto. Il cristiano non ha mai ragione di rimproverare Dio, di chiedergli conto del perché permetta che accadano delle cose brutte. Se un cattolico stringe i pugni contro Dio, vuol dire che è impazzito o che non è mai stato veramente cattolico. Dio sa quello che fa. Egli è Padre amorevole, perciò non è nemmeno pensabile che gli si possa imputare la responsabilità del male che accade nel mondo. Il cristiano sa bene da dove viene il male: dalla ribellione contro Dio; e sa che è una conseguenza del Peccato originale., conseguenza, a sua volta, del cattivo uso della libertà. In ultima analisi, il cristiano sa che il male esiste perché esiste la libertà, perché Dio ha voluto donare alla sua creatura prediletta la cosa più preziosa di tutte, il libero arbitrio.

3) COMPRENDIAMO QUESTO BISOGNO DI SILENZIO PERCHÉ ANCHE GESÙ CRISTO DISSE SULLA CROCE: "DIO MIO, DIO MIO PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?". Niente affatto: il cristiano non comprende, non condivide, né giustifica, un tale bisogno di silenzio, perché il silenzio che il cristiano ama è fatto di preghiera e adorazione, non di lamento e di rimprovero contro il suo Dio. Tu hai fatto bene ogni cosa, mio Dio, dice il cristiano; aiutami a fare sempre di più la tua volontà, e a farla con gioia, non con stanca sopportazione.

4) EBREI E CRISTIANI DEVONO CAPIRSI SU QUESTO PUNTO. No, mai. Questo è proprio il punto che li divide — oltre, naturalmente, al rifiuto da parte degli ebrei della Persona di Gesù Cristo, della sua Incarnazione, della sua Passione e Morte, e della sua Resurrezione per la nostra salvezza. Per il cristiano, la sofferenza ha un significato e un valore enormi; per l’ebreo, evidentemente no. Come dice Jonathan Kwitny: Gli ebrei differiscono dai cristiani per la loro percezione della sofferenza. Giovanni Paolo II parla della sofferenza come qualcosa di nobile e che redime e la stessa arte ecclesiale [?] spesso la presenta in questo modo; gli ebrei non riconoscono alcun motivo di consolazione in Auschwitz e ne hanno un brutto ricordo. Anche se, messo così, l’enunciato si tinge di una sfumatura ambigua: c’è qualcuno al mondo che può avere un buon ricordo di Auschwitz? Di Auschwitz nessuno può avere un bel ricordo, questo è certo. Però a un cristiano Auschwitz fa venire un mente suor Teresa Benedetta della Croce, santa e co-patrona d’Europa, e san Massimiliano Kolbe, colui che offrì la sua vita per la salvezza di uno sconosciuto. Ed è questo che riscatta la sofferenza: l’amore; così come Gesù è risorto per completare il proprio atto di amore totale nei confronti degli uomini. Perciò il ricordo di Auschwitz in sé non è bello, ma i pensieri che esso evoca lo sono: sono pensieri di pace e di perdono, che rammentano all’anima come il bene sia più forte del male e, alla fine, vinca sempre. Questo pensiero non fa parte della mentalità ebraica: per l’ebreo, Auschwitz è e rimane il simbolo di un ferita immedicabile, di una domanda senza risposta e di una sofferenza che si rinnova sempre, di generazione in generazione. Come si fa a dire che su questo punto cristiani ed ebrei vanno d’accordo e si possono capire perfettamente? E come fa a dire una cosa del genere proprio il papa, il successore di san Pietro? Lo domandiamo a quei cattolici, e sono molti, i quali paragonano i tempi presenti a quelli di Giovanni Paolo II, e dicono sempre: Eh, se ci fosse ora papa Woytjla, questa e quest’altra cosa non sarebbero capitate! Lui sì che sapeva parlare forte e chiaro, lui sì che faceva rispettare la verità del cattolicesimo! Il fatto è che costoro si sono costruiti la memoria di quel pontefice a misura della loro nostalgia e della loro frustrazione: insoddisfatti del presente, proiettano nel passato il rimpianto di un tempo felice. La verità è un’altra, e cioè che dopo il 1958 la Chiesa ha cominciato a deragliare; che dopo il Concilio Vaticano II non è più stata la stessa, non solo sul piano liturgico e pastorale, ma anche dottrinale; e che tutti i papi da Giovanni XXIII in poi – a eccezione forse di Luciani, morto troppo presto per poter mostrare quel che avrebbe fatto – assecondando il Concilio, e quindi la libertà religiosa, l’ecumenismo e il liberalismo, hanno tradito, in misura maggiore o minore, l’autentico Magistero, e hanno mancato al loro primo dovere, preservare intatto il Depostitum fidei.

Tornando alla vicenda Auschwitz, c’è una coda della storia. Le suore infine se ne sono andate, ma questo ormai non era più sufficiente: doveva andarsene anche la Croce. I massimi esponenti dell’ebraismo internazionale chiesero a gran voce che la Croce venisse rimossa, perché, secondo un esponente del B’nai B’rith canadese, Ian Kagedan, essa rappresentava una lacuna evidente nella comprensione fra cristiani ed ebrei (Carter chided for Auschwitz convent stand, Toronto, Ont., 13 settembre 1989). Il che mostra come il dialogo interreligioso tanto strombazzato dal Concilio, e le scuse profuse dai papi post-conciliari, specialmente da Woytjla, a questo e a quell’altro, come se il cattolicesimo avesse solo un passato di colpe e di brutture da farsi perdonare, funzionano sempre a senso unico: sono i cattolici che devono dialogare, sono loro che si devo scusare, e questo atteggiamento di remissività, se non di vera e propria sottomissione, non fa altro che incoraggiare richieste e pretese sempre più grandi e sempre più perentorie da parte degli altri, senza che questi si sentano minimamente stimolati a mettersi a loro volta in discussione. Cose, peraltro, che la Chiesa ha sempre saputo, e le ha sempre sapute per averle osservate nella sfera pratica, che conta più di mille parole; ma che col Concilio Vaticano II ha improvvisamente scordato, implicitamente accusando i duecentosessanta papi dei millenovecento anni precedenti di essere stati poco dialoganti ed ecumenici, e dunque, in fondo, poco comprensivi e poco misericordiosi. I cattolici polacchi, da parte loro, avendo compreso benissimo quale fosse il vero oggetto del contendere, hanno preso l’iniziativa e hanno eretto spontaneamente molte centinaia di croci all’esterno di Auschwitz, tanto per far sapere come la pensano e quali sono i loro sentimenti, infischiandosene delle polemiche e della solita campagna di vittimismo da parte dei sionisti, i quali subito si sono lamentati della sempre risorgente mala pianta dell’antisemitismo, e hanno preteso che le croci venissero tolte e il terreno passasse di proprietà, in modo che simili "abusi" non abbiano a ripetersi. Di questa vicenda, che rimane tuttora aperta, non si parla fuori della Polonia, e i primi a non parlarne sono i cattolici, specialmente la stampa e le televisioni legate al Vaticano. Già: bisogna far credere che le relazioni con i "fratelli maggiori" nel comune padre Abramo sono sempre improntate alla massima apertura, stima e fiducia reciproca; anche se la realtà è ben diversa, e non certo per colpa dei cattolici. Ma se qualcuno raccontasse fuori della Polonia, e specialmente in Italia, come stanno in realtà le cose, subito L’Avvenire, Famiglia Cristiana, La Civiltà Cattolica, Ravasi, Parolin, Paglia e Bassetti salterebbero su, sdegnati e furenti, e direbbero: Ahinoi, ecco i fantasmi del passato che ritornano; ecco le vecchie tendenze antigiudaiche far di nuovo capolino. E mai e poi mai sarebbero disposti ad ammettere che, se anche ciò fosse minimamente vero, una bella fetta di responsabilità ce l’hanno proprio loro; esattamente come una buona parte di responsabilità sul nascere di un sentimento razzista nel popolo italiano ce l’hanno quei governanti i quali, nel corso degli ultimi tre decenni, hanno spalancato le porte dell’Italia a una vera invasione mascherata da parte di masse afro-islamiche, ben decise a non assimilarsi e, anzi, a conquistare il nostro Paese, con la fora del loro numero e con la fecondità delle loro donne…

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Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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