Fino a che punto adattarsi è una virtù?
21 Maggio 2020Traditi, beffati, mascherati: a quando il risveglio?
23 Maggio 2020Tutta la vita umana è scandita dallo scorrere del tempo e perciò da un continuo, inarrestabile lasciarsi indietro le cose, le persone, le situazioni; e lasciarsi indietro anche la parte di noi stessi che eravamo ieri e che ora non è più. Gli antichi lo sapevano bene e ancor meglio lo sapevano i cristiani, nella grande stagione della civiltà medievale: tutto passa, tutto scorrere, la vita terrena corre verso la fine, come il fiume corre verso il mare. Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris: ricordati, o uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai. Oggi la falsa chiesa conciliare ha abolito perfino questa formula, preziosa e utilissima quant’altre mai; e ha fatto male, perché si è messa, anche in ciò, sulla scia del mondo, il mondo che non vuol pensare al tempo e alla morte, ma solo al godimento presente. Riflettere su questa verità era, ed è, un indispensabile esercizio per restare agganciati alla realtà e non smarrire il senso del limite, né coltivare, magari inconsciamente, impossibili sogni di potenza e di rivincita contro la morte. Non c’è alcuna rivincita, beninteso finché ci troviamo sul piano materiale: la morte è l’ultima parola, perché tutto ciò che nasce deve morire e tutto ciò che ha un principio deve avere anche una fine. Per quanto riguarda la dimensione del finito, la morte avrà sempre l’ultima parola e questo vale per il mendicante come per l’imperatore, senza eccezione alcuna.
Ciò detto, la differenza fra il cristiano e chi non lo è si vede proprio dal diverso atteggiamento nei confronti di tale consapevolezza. Il cristiano possiede una speranza che non è di origine umana, ma divina; non s’illude né s’inganna quanto all’ineluttabilità della morte, ma guarda oltre, perché sa che la vita del corpo non è la vita tutta quanta, anzi che non è la vita vera, ma solo il necessario preambolo di essa. Il cristiano dunque è e resta fondamentalmente un uomo di speranza, anche di fronte al mistero angoscioso della morte. Chi rifiuta il cristianesimo è un uomo della disperazione, anche se può mascherare abilmente questo fatto e sfoggiare davanti a quel mistero una disinvoltura che non può avere, e che, se realmente l’avesse, dimostrerebbe solo quanto arida e vuota è la sua dimensione interiore, perché davanti al mistero della morte è umano, ed è giusto, sentirsi turbati fino al profondo del proprio essere. Perfino Gesù rimase scosso e turbato dalla morte del suo amico Lazzaro (Gv 11, 32-36):
Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: «Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!».
Così pure di fronte al mistero, meno drammatico in apparenza, ma altrettanto severo e ineluttabile, dello scorrere inesorabile del tempo. C’è una profondità abissale nel pensiero del tempo che scorre, mentre un brivido arcano attraversa l’anima e la lascia sbigottita di fronte alla constatazione di tale scorrere inarrestabile e ineluttabile. E questa è una scoperta che sopraggiunge quando si è in età da avere dei nipoti — non importa se i nipoti arrivano davvero, o no — cioè quando una nuova generazione ha fatto il suo ciclo, dalla nascita all’età fertile, e adesso è pronta a fare la sua comparsa una seconda generazione, e ciascuna di esse vede o vedrà il mondo in una maniera sostanzialmente diversa da come lo hanno visto e conosciuto quelli che sono diventati genitori e ora potrebbero essere nonni. Anche in questa scoperta vi è qualcosa di drammatico, di lacerante, anche se parrebbe meno drammatico della realtà della morte. Perché è come scoprire che si muore ogni giorno, lentamente e insensibilmente, ma inesorabilmente: una cosa che ciascuno sa a livello teorico, ma che solo arrivati a una certa età si comincia a constatare. Vivere è vivere nel tempo, dunque è un incessante morire. Si muore ogni volta che una persona cara se ne va, anzi ogni volta che muore un semplice conoscente; ogni volta che una vecchia bottega o un’osteria abbassa la saracinesca per l’ultima sera; ogni volta che una vecchia casa viene abbattuta e un nuovo condominio viene costruito al suo posto; ogni volta che un prato viene asfaltato e un’autostrada passa là dove prima volavano le farfalle o gracidavano le rane. Non importa per chi suona la campana: suona per te, suona per tutti e per ciascuno: anche per il giovanotto che ora va fiero della sua salute e della sua forza, o per la bella ragazza che esulta in cuor suo vedendo la gente voltarsi a guardarla quando passa per la strada: e che anche loro, un giorno, più presto di quel che non avrebbero immaginato, se pure ci avevano mai pensato, si troveranno sull’altra riva del fiume, saranno seduti su una panchina o affacciati alla finestra della casa di riposo e vedranno passare, orgogliosa e indifferente, la nuova gioventù: un’altra generazione destinata a finire con la vecchiaia e la morte, come tutte le altre che l’hanno preceduta e quelle che la seguiranno.
Sì, è davvero un grande e inquietante mistero quello del tempo che passa, come è fonte in un arcano trasalimento fermarsi a osservare l’acqua che scorre. Chi è quel bambino che vi guarda, sorridendo, da una vecchia fotografia un po’ ingiallita? Siete proprio voi? E quell’altro bambino, e quella bambina, vestiti in maniera così buffa: sono proprio la mamma e il papà? Possibile? Dunque sono stati bambini anche loro? E i nonni? Noi li abbiamo sempre visti come persone anziane: ma in quelle vecchissime foto, miracolosamente conservate nel corso degli anni e dei decenni, è attestato il fatto indiscutibile che sono stati giovani anche loro, bambini anche loro. Il nonno non ha avuto sempre i capelli bianchi, dunque? No, aveva i capelli neri e il passo elastico di un giovanotto anche lui, come più tardi i suoi figli e noi suoi nipoti. E la nonna non ha avuto sempre quelle rughe intorno agli occhi e alla bocca: nossignori, è stata una bella ragazza bionda, ed era adorabile, e sprizzava gioia di vivere quando ballava (poveri balli di paese, e rari; non certo i fine settimana in discoteca!), quando rideva o anche solo quando camminava per recarsi a fare la spesa. E adesso, dove sono andati? Certo non dentro quella tomba ove ancora portiamo i fiori, ma per una forma di rispetto sociale più che di vera devozione. No, non sono lì: se sono da qualche parte — e il cristiano, questo, lo crede fermamente — allora sono in un’altra dimensione. Ci vedono, ci seguono, ma non con gli occhi del corpo perché non hanno più corpo. Anche noi non avremo più corpo. Questo che abbiamo ora, invecchierà e si raggrinzirà, come un vestito consumato dai tarli, e alla fine lo dovremo lasciare, e andarcene a che noi. La carne è destinata a finire, è lo spirito che continua a vivere, finalmente liberato dai ceppi cui era legato. Se il cristiano si scorda di questo, se lo perde di vista nella sua navigazione terrena, allora non è più un cristiano, è un misero uomo abbandonato alla paura della morte, come tutti gli altri. Come ricorda il Libro della Sapienza (2, 1-9):
Dicono fra loro sragionando:
«La nostra vita è breve e triste;
non c’è rimedio, quando l’uomo muore,
e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi.
Siamo nati per caso
e dopo saremo come se non fossimo stati.
È un fumo il soffio delle nostre narici,
il pensiero è una scintilla
nel palpito del nostro cuore.
Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere
e lo spirito si dissiperà come aria leggera.
Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo
e nessuno si ricorderà delle nostre opere.
La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia
scacciata dai raggi del sole
e disciolta dal calore.
La nostra esistenza è il passare di un’ombra
e non c’è ritorno alla nostra morte,
poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro.
Su, godiamoci i beni presenti,
facciamo uso delle creature con ardore giovanile!
Inebriamoci di vino squisito e di profumi,
non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,
coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano;
nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza.
Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia
perché questo ci spetta, questa è la nostra parte.
Ma il cristiano no. C’è la promessa di Gesù Cristo; c’è la testimonianza della sua Resurrezione. Le cose passano, le passioni svaniscono; si dissolvono le cose che credevamo eterne, e tutto viene limato e scalpellato via dall’opera incessante del tempo. Voler costruire qualcosa di durevole nella dimensione del tempo è come voler travasare l’acqua del mare in una buca scavata nella sabbia della spiaggia. Quando ogni altra cosa è caduta, quando svaniscono perfino i ricordi e si stenta a rammentare il volto delle persone care, allora si comprende che tutta la vita terrena è poco più di nulla, e che la sola vita è quella di cui parla Gesù, che è vita Lui stesso (Gv 6,48-51; 53-58; 63):
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. (…)
In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. (…)
È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita.
Da queste Sue parole si comprende quale atto gravissimo, quale odioso attentato alla nostra speranza cristiana è sta la proibizione, per mesi, di partecipare alla santa Messa e di accostarci al Corpo vivo di Gesù Cristo; tanto più odiosa in quanto ha colpito anche la Domenica di Pasqua, cioè la Messa delle Messe, la Messa dalla quale discende ogni altra Messa. Pasqua è la Resurrezione di Cristo, e riconciliarsi di Lui in quel giorno significa assaporare, già ora, la beatitudine della vita eterna. È stato da criminali averlo impedito, e quindi è un clero criminale quello che si è prestato a tale disegno. Strano, per la celebrazione del 25 aprile da parte degli eredi dei partigiani assassini, non c’era pericolo di contagio. Il pericolo è nella santa Messa, nell’accostarsi al Corpo di Cristo. Per questo la mascherina, i guanti, le pinzette; per questo i parroci scoraggiano la Comunione, pretendono che i parrocchiani ne facciano richiesta e poi qualcuno, non consacrato, la porterà loro a domicilio. Come la pizza. Le loro intenzioni sono chiare: abituarci a stare senza l’Eucarestia, cioè a vivere in peccato mortale. Togliere la Resurrezione e lasciare solo la Parola. Poi anche la Parola diverrà la parola, una fra le tante: come quella di Buddha, Maometto, Socrate. A questo mirava il perfido slogan: meno Messe, più Messa. Alla fine non ci sarà più la Messa; ci saranno le assemblee del popolo, nelle quali si leggerà la Bibbia e la si commenterà liberamente, stravolgendone il senso per togliere il peccato. Poi, basta anche quello. Resterà il clima, l’ambiente, i migranti e Pachamama. Intanto il tempo scorre e la vita se ne va. Arriva il giorno del Giudizio. Guai a voi, falsi pastori. Vi sarà chiesto di render conto e non saprete che dire. Allora, ma invano, sarà pianto e stridore di denti.
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash