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Inibire le relazioni umane è togliere la gioia di vivere

Quello che sta facendo questo sciagurato governo Conte Bis è un crimine sul piano economico, ma è anche, se possibile, un crimine perfino peggiore sul piano psicologico, umano e spirituale. I danni che sta causando alla vita di relazione, e quindi al tono vitale delle persone, sono semplicemente incalcolabili, perfino peggiori di quelli causati da una guerra. Durante la guerra i nostri genitori e i nostri nonni vivevano con la paura dei bombardamenti aerei; ma, salvo eccezioni, tale paura era circoscritta alle ore notturne. Vivevano anche con una serie di limitazioni nella sfera della libertà personale, ad esempio dovevano rispettare il coprifuoco e restare a casa, salvo permessi speciali, dal tramonto all’alba. Ora però questo governo di pazzi e/o di delinquenti ha esteso il coprifuoco a tutte le 24 ore, per tutta la popolazione e per settimane e mesi, riducendo l’Italia a un immenso campo di concentramento domiciliare. La chiusura dei bar e dei ristoranti e l’obbligo della mascherina per le poche e limitatissime uscite hanno distrutto la vita di relazione, e trasformato ogni persona in un potenziale paranoico e antisociale, spinta ad assumere il ruolo di sorvegliate, eventualmente di delatore, dei suoi vicini. Alla naturale benevolenza nei confronti del vicino o del conoscente è subentrato il sospetto, cui in molti casi sono seguite la disapprovazione e l’aperta antipatia. Perché costui si è permesso di scendere nell’orto senza la mascherina? Perché va a portare sul marciapiede il contenitore della spazzatura senza indossare la mascherina? È stato proibito a marito e moglie di andare a fare la spesa insieme; sono stati multati se uscivano insieme per fare una passeggiata nei prati o a prendere il sole su una spiaggia deserta. Amici che si erano trattenuti qualche minuto a chiacchierare a bordo di un’automobile ferma sul bordo della strada, sono stati multati perché non avevano rispettato la distanza di sicurezza fra di loro. Mamme che portavano i loro bambini al parco perché si sgranchissero e si distraessero un poco sono state multate, mentre chi portava il cane a spasso ha potuto farlo liberamente. Ci è stato detto e ripetuto fino alla nausea che avremmo potuto e dovuto restare uniti, ma stando distanti. I faccioni stupidamente sorridenti di noti personaggi dello spettacolo ci hanno perseguitato a tutte le ore dal piccolo schermo, per ripeterci fino alla nausea quanto è bello scambiarsi saluti e baci dal computer e quanto invece è brutto, irresponsabile, criminoso, pretendere di avere, come di consueto, un rapporto fisico diretto. C’è mancato poco che i vigili o i carabinieri entrassero nelle abitazioni per multare le coppie che facevano all’amore: in base ai "ragionamenti" delle autorità, quello avrebbe dovuto essere considerato l’atto più pericoloso e antisociale di tutti (proprio come in 1984 di George Orwell). Per oltre due mesi non si è fatta alcuna differenza fra persone che vivono nella stessa casa e persone che sono perfettamente estranee: alle une e alle altre è stato imposto lo stesso codice ci comportamento reciproco, basato sulla distanza di sicurezza e sulla totale sterilizzazione della dimensione sociale. Proibito parlarsi senza la mascherina, proibito entrare in buna anca o un negozio senza i guanti; proibito perfino andare dal medico, meglio telefonargli o, piuttosto, chiamare il pronto soccorso. Hanno fatto in modo che ognuno di noi si sentisse un potenziale untore, un vero e proprio delinquente se avesse infranto una sola delle innumerevoli e assurde prescrizioni, una sola delle farneticanti proibizioni che non avevano e non hanno nulla di scientifico, compresa la mascherina che, in nove casi su dieci, è di danno e non di giovamento alla salute, perché costringere le persone a respirare dannosamente la propria anidride carbonica sena offrire una protezione verso un pericolo peraltro pressoché inesistente.

I bar, in particolare, oltre a essere la fonte di guadagno e di vita per decine di migliaia di persone, sono anche un luogo fondamentale di socializzazione, ove, bevendo un bicchiere di vino, si parla con gli amici, si legge il giornale e poi lo si commenta, si fa una partita a carte o al biliardo. Niente bar, niente socializzazione: i piccoli paesi che hanno perso il loro bar o la loro osteria già negli ultimi vent’anni, hanno con ciò perso un elemento essenziale della loro vita sociale. Adesso, per quasi tre mesi l’Italia intera è stata privata di tutti i suoi bar e la vita sociale di quelli che li frequentavano, specie i pensionati che trovavano in essi un elemento indispensabile per continuare a sentirsi parte di un tessuto sociale, ha subito un block-out totale. Probabilmente ci vorranno mesi e anni per misurare tutto il male immedicabile che è stato fatto, la gravità della ferita che è stata inferta ad una società che già da tempo era avviata sulla china distruttiva dell’isolamento sociale e dell’individualismo esasperato. Privati del bar e della compagnia degli amici di quartiere, ci siamo consolati davanti al televisore, e lì abbiamo subito un ulteriore, gravissimo danno derivante dalla perfidia e dalla disonestà intellettuale di quanti controllano le reti televisive, tutti solidali fra loro e tutti obbedienti al potere, nel somministrare al pubblico forzato, e impossibilitato a concedersi altre forme di svago o distrazione, il peggio del peggio di cui erano capaci: una valanga ininterrotta di programmi spazzatura, uno più stupido e insulso dell’altro, inframmezzati da una martellante propaganda terroristica, basata sullo spauracchio della morte e sulla ripetizione ossessiva dei divieti, nonché da pubblicità di sedicenti associazioni umanitarie che raccolgono fondi per i bambini disabili e per quelli africani che soffrono la fame, il tutto condito con esortazioni ultimative e ricattatorie e con immagini terribili di un’infanzia sofferente, umiliata, negata, in pericolo imminente di morte per fame e malattie.

Vale la pena di rileggersi, a proposito della necessità dell’amicizia, una bella pagina di Aristotele (dall’Etica Nicomachea, IX, 9, a cura di Marcello Zanatta, Rizzoli, 1968m, e Fabbri, 1998, vol. 2, pp. 541-543):

Si dice infatti che per coloro che sono beati e bastano a se stessi non vi è nessun bisogno di amici: infatti possiedono già i beni. Essendo dunque autosufficienti, non hanno bisogno di niente, e l’amico, che è un altro se stesso, procura ciò che l’uomo, non può avere da se medesimo. Donde il proverbio: Quando la fortuna sia favorevole, che bisogno c’è di amici?".

D’altro canto ha tutta l’aria di un’assurdità, dopo aver attribuito tutti i beni all’uomo felice, il non assegnargli degli amici: cosa questa che — ad avviso di tutti — è il più grande dei beni esteriori.

Inoltre, se proprio dell’amico è piuttosto il fare del bene che riceverne ed è proprio dell’uomo dabbene e della virtù il beneficiare; ancora, se è più bello fare del bene agli amici che agli estranei, il virtuoso avrà bisogno di coloro che ricevano i suoi benefici. È questo il motivo per cui si ricerca anche se si ha maggior bisogno degli amici nella buona o nella cattiva sorte, atteso che e chi versa nella cattiva sorte ha bisogno di coloro che lo beneficano e quelli ai quali la fortuna è favorevole di persone a cui fare del bene.

Di più, è senza dubbio assurdo anche il fare di chi è beato un solitario; nessuno infatti sceglierebbe di possedere tutti i beni per goderne da solo, giacché l’uomo è un essere politico e naturalmente portato a vivere in società. Ora, queste caratteristiche appartengono anche all’uomo felice, giacché egli possiede ciò che per natura è buono; ed è evidente che è meglio trascorrere le proprie giornate assieme ad amici ed a persone virtuose che con estranei e cin quelli che ci capitano. Anche per l’uomo felice vi è dunque bisogno di amici. (..)

Ora, l’esser felice consiste nel vivere e nell’essere attivi, e l’attività dell’uomo dabbene è virtuosa e piacevole per se stessa, come si è detto in principio; ancora, se anche ciò che è proprio fa parte delle cose piacevoli, e se possiamo considerare attualmente quelli che ci stanno vicino meglio di noi stessi e le loro azioni meglio delle nostre; se infine le azioni degli uomini virtuosi che sono loro amici sono piacevoli per le persone dabbene (giacché esse possiedono ambedue le cose che sono piacevoli per natura); allora l’uomo beato avrà bisogno di tali persone, se preferisce osservare delle azioni virtuose ed a lui proprie; e tali sono le azioni della persona dabbene che è amica.

Di più, si ritiene che chi è felice deve vivere in modo piacevole. Ora, per un uomo da solo la vita è pesante, giacché non è facile in solitudine esercitare un’attività in maniera continua, ma assieme ad altri e in rapporto con altri è più facile. L’attività, che già di per sé è piacevole, sarà allora più continua: il che deve essere per l’uomo beato. Infatti il virtuoso, in quanto virtuoso, gioisce delle cose che sono conformi a virtù e s’affligge di quelle che procedono dal vizio, come il musico si allieta delle belle melodie, ma si affligge per quelle stonate.

Dunque, anche Aristotele è dell’opinione che l’amicizia sia un bene essenziale e che nessuno può venirne privato, o farne a meno, ed essere felice. Si potrebbe obiettare che alcuni grandi spiriti, non solo della traduzione cattolica, ma anche di altre tradizioni religiose, hanno cercato e realizzato la piena solitudine, senza perciò condannarsi all’infelicità, anzi, realizzando il massimo progresso spirituale, il che, senza dubbio, rappresenta anche il massimo della beatitudine a cui una creatura umana possa aspirare nel corso della vita terrena; e, senza andar troppo lontano, si può pensare ai monaci di clausura, molti dei quali hanno raggiunto uno stato di perfetta armonia e pace interiore, pur avendo rinunciato al bene dell’amicizia. Rispondiamo che il monaco di clausura, come il mistico in genere, mettendo in pratica una condizione di eremitaggio non è affatto solo e privo del conforto dell’amicizia, perché privandosi delle amicizie umane, o meglio privandosene nel senso comune, cioè tagliando i legami, fatti di desiderio, timore e aspettativa, ordinariamente legati all’amicizia umana (chi non gode al pensiero che l’amico sarà pronto ad aiutarlo, qualora ne avesse bisogno? e chi non soffre dell’invidia o dell’indifferenza mostrate da un amico sul quale aveva fatto conto?), realizza, però, in compenso, la perfetta amicizia e quindi la perfetta unione con Dio (Gv 15, 13-15; 17): Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. (…) Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

A questo punto i fautori del governo e gli ottimisti per contratto solleveranno un’altra obiezione: obbligandoci a stare chiusi in casa e chiudendo per decreto tutti i ritrovi pubblici, anzi proibendo perfino le feste e le riunioni in casa propria, per non parlare del divieto di partecipare alla santa Messa o di assistere al funerale di un amico, non siamo stati privati del bene dell’amicizia, ma solo, temporaneamente, del suo godimento immediato e diretto. Non ci è stata lasciata graziosamente la possibilità di vederci e di sentirci per via informatica? Non ci è stato lasciato l’uso del telefono, del telegramma, dei social network? E dunque, di che possiamo lamentarci? Si tratta di un’obiezione talmente stupida e talmente satura di malafede che si prova pena e imbarazzo a prenderla in considerazione. Provate a dire se vedere in faccia l’amico, o l’innamorato, o vostro padre che sta morendo all’ospedale, o la vostra anziana madre che vive un un’altra città e in un’altra regione, è la stessa cosa che accontentarsi di un rapporto indiretto, e di notizie di seconda mano. Ma, si dirà ancora, questo sacrificio era necessario per il nostro bene. Nemmeno questo è vero: un giorno, speriamo non lontano, verrà fuori la verità, così come già accade negli altri Paesi: che non c’è mai stata alcuna pandemia; che non c’è stato alcun aumento delle morti per malattie virali; che siamo stati vittime della più grande menzogna della storia contemporanea. Si è trattato di un grandioso esperimento per vedere quanto fosse facile, o difficile, imporre un governo totalitario sulla base di una pretesa emergenza sanitaria: se i popoli si sarebbero lasciati addomesticare, se la gente avrebbe bevuto le false notizie e si sarebbe rassegnata a tacere e obbedire, come un esercito disciplinato in tempo di guerra. L’esperimento, che si è risolto, specie per l’Italia, in un successo di proporzioni impensabili per quelli che lo avevano ideato e messo in atto, ha investito tutti gli ambiti della vita sociale e individuale, dalla finanza alla politica e dalla cultura all’informazione, senza dimenticare la sfera religiosa. Ma una delle cose più tristi che è emersa da esso è stata la risibile facilità con la quale ci siamo lasciati spogliare della vita nostra vita sociale, che è un diritto fondamentale e una necessità vitale per ciascun essere umano, non un bene di lusso, di cui si possa anche fare a meno. Come dice Aristotele, la vita umana non è completa, non è felice, non è neppure una vita realmente umana, se privata della relazione reciproca fra gli uomini, della quale tutti, in un modo o nell’altro, hanno bisogno, sia i buoni che i cattivi. Se fossimo dei consacrati, scaglieremmo una maledizione contro gli autori di un simile misfatto. Infatti, come la Messa è indispensabile alla vita soprannaturale dell’uomo, così le relazioni sociali sono indispensabili alla sua vita naturale. Ci hanno rubato con esse anche la gioia di vivere, e perfino la speranza. Conosciamo persone che son cadute in uno stato di profonda depressione, come gli indiani nelle riserve o come gli animali nelle gabbie dello zoo. Anche per questo, allora, oltre che per il disastro economico da voi provocato: che siate maledetti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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