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Facciamo memoria sulla Brigata ebraica, 1944-46

Recentemente si è parlato della Brigata ebraica che prese parte alla campagna d’Italia, nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, in relazione ad alcune polemiche di carattere generale sulla Resistenza, l’antifascismo e la ricorrenza della cosiddetta Liberazione, il 25 aprile di ogni anno.

Crediamo che tutti sappiano cosa fu la Brigata ebraica. Ad ogni modo, per quanti non lo sapessero, o non ne avessero una nozione sufficientemente chiara, riportiamo la parte introduttiva della voce ad essa dedicata da Wikipedia:

La "Brigata ebraica" (Jewish Infantry Brigade Group in inglese), definita Chativah Yehudith Lochemeth (Forza di combattimento ebraica) dai suoi membri fu un corpo militare dell’esercito britannico durante la seconda guerra mondiale. Si è formato nel settembre 1944 ed è stato reclutato tra ebrei Yishuv  dalla Palestina mandataria e comandato da ufficiali anglo-ebrei. Servì nelle ultime fasi della campagna d’Italia e fu sciolto nel 1946.

Dopo la guerra, alcuni membri della Brigata hanno aiutato i superstiti dell’Olocausto a compiere l’Aliyah clandestina (o Aliyah Bet), sfidando le restrizioni britanniche.

Dopo aver illustrato la sua formazione e il ruolo da essa svolto nella campagna d’Italia, il suddetto articolo si sofferma anche su un aspetto assai controverso relativo al periodo in cui la Brigata, terminate le operazioni militari, venne acquartierata a Tarvisio, presso il confine italo-austriaco, il 2 maggio 1945, e poi riposizionata in Belgio, in Olanda e da ultimo nella provincia tedesca dello Schleswig-Holstein, al confine con la Danimarca, dove nel luglio del 1946 venne smobilitata, non senza aver prima fatto arrivare segretamente in Palestina uomini e materiale bellico in vista della costituzione dello Stato d’Israele. In quella fase, una parte dei suoi componenti, oltre ad adoperarsi attivamente a supporto dell’emigrazione clandestina dei loro correligionari europei in Palestina, si rese responsabile di azioni di vendetta illegale e indiscriminata non solo contro soldati e ufficiali tedeschi e quanti essi ritenevano responsabili delle sofferenze patite dagli ebrei in Germania e nei Paesi occupati durante la guerra, ma anche contro la popolazione civile, praticando largamente la tortura sui prigionieri:

Il Tilhas Tizig Gesheften (comunemente noto con le sue iniziali TTG, tradotto vagamente come "bacio [letteralmente, leccare] il mio culo") era il nome di un gruppo di membri della Brigata ebraica formato immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. Con il pretesto dell’attività militare britannica, questo gruppo è stato coinvolto nell’assassinio di nazisti, ha facilitato l’immigrazione clandestina di sopravvissuti all’Olocausto in Palestina mandataria e ha portato clandestinamente armi all’Haganah. La Brigata ebraica si unì anche a gruppi di sopravvissuti all’Olocausto nel formare squadre di assassini note come Nakam allo scopo di rintracciare e uccidere ex ufficiali appartenenti a SS e Wehrmacht che avevano partecipato ad atrocità contro ebrei europei. Le informazioni relative al luogo in cui si trovavano questi fuggitivi venivano raccolte torturando i nazisti incarcerati o da documenti militari. Le uniformi britanniche, la documentazione militare, le attrezzature e i veicoli utilizzati dai veterani della Brigata ebraica contribuirono notevolmente al successo dei Nokmim. Il numero di nazisti uccisi dai Nokmim è sconosciuto, ma le stime indicano un massimo di 1.500.

Lungi da noi voler fomentare ulteriori polemiche, sia sulla Resistenza che sulla Brigata ebraica: ciascuno ha diritto alle proprie opinioni. Tuttavia, per potersi formare un’opinione che sia motivata, e non frutto di passioni puramente emotive o di pregiudizi ideologici, bisogna essere informati circa i fatti. E per di offrire un contributo alla conoscenza completa dei fatti, ci sembra giusto lumeggiare anche un aspetto dell’attività della Brigata ebraica, o meglio di alcuni membri di essa, che le fonti storiche generalmente passano sotto silenzio, mentre non lo fa, come si è visto, Wikipedia. Si tratta di un’attività "parallela" a quella ufficialmente svolta, di forza militare inquadrata nei ranghi dell’Esercito di Sua Maestà britannica e perciò sottoposta all’autorità e alla responsabilità di quel Comando militare: un’azione che potremmo definire di vendetta personale per ciò che gli ebrei avevano subito da parte del governo hitleriano e delle autorità naziste.

Per farlo, ci serviamo non di un libello filo-nazista o antisemita, ma del corposo e documentatissimo volume di oltre 500 pagine scritto da un noto giornalista e storico ebreo, Tom Segev, nato a Gerusalemme nel 1945 da genitori che avevano lasciato la Germania nel 1935 per trasferirsi in Palestina, allora sotto mandato britannico: Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele (titolo originale: The Seeventh Million, Domino Press Ltd., 1991; traduzione di Carla Lazzari, Milano, Mondadori, 2001, pp. 136-138):

Alla fine della guerra [gli uomini della Brigata ebraica] speravano di essere mandati in Germania a fianco dell’esercito di occupazione. Così doveva essere, sosteneva Moshe Sharett, non per ragioni militari ma "prima di tutto" per ragioni morali e simboliche, "per dare soddisfazione al popolo ebraico". La Brigata arrivò in Italia quando le sorti della guerra erano ormai decise. Partecipò soltanto a qualche scaramuccia. Poi, più niente. Fu una grande amarezza per i soldati. Alcuni sfogarono la propria rabbia sui prigionieri di guerra tedeschi e devastarono le proprietà dei civili, riducendo così le probabilità di essere mandati in Germania. Più restavamo in Italia e più si annoiavano. "La nostra pazienza è al lumicino", scrisse un soldato. "Esploderà la rabbia, temo. E ci danneggerà, perché non sarà facile incanalarla nella direzione giusta.". I più giovani si unirono, decisi ad andare in cerca degli agenti della gestapo e delle SS nelle zone di confine fra l’Italia e l’Austria: "un atto di ribellione", lo definì un soldato. I comandanti lasciarono fare, scorgendoci probabilmente un’utile valvola di sfogo per la loro frustrazione.

Quei giovani, dichiarò in seguito un ufficiale, Yisrael Karmi, erano "gli uomini migliori della Brigata, i più leali". Ebbero fortuna: scovarono quasi subito un pezzo grosso della Gestapo , ch collaborò, fornendo una lista di nomi. L’elenco, osservò Karmi, era compilato con una precisione esemplare: di ciascuno forniva una breve biografia con le attività passate e l’indirizzo. Ogni nome diventò un obiettivo. "Abbiamo scovato una fonte", riferì a Moshe Sharett, membro dell’esecutivo dell’Agenzia ebraica, un ufficiale della Brigata, Meir Grabovski. "Possediamo tutte le informazioni che ci servono. Ci siamo procurati lo schedario: sappiamo chi sono e dove sono… Siamo i soli a poterli scovare e consegnare [ai vendicatori, n.d.t.] senza dipendere dalle complicazioni della politica mondiale, ma considerando soltanto il diritto a vendicare il sangue versato". Grabovski, il quale assunse in seguito il nome di Argov e divenne uno dei leader del Mapai, riteneva la vendetta il compito più importante per la Brigata. Nella sua lettera a Sharett, egli specificava che in si trattava di "un linciaggio", bensì della punizione delle SS che avevano partecipato al massacro degli ebrei. Il metodo adottato dai soldati della Brigata era semplice. Vestiti con l’uniforme della polizia militare britannica, si presentavano a casa della vittima a bordo di un camion militare con la targa coperta di fango. Bussavano, controllavano i documenti dell’uomo che cercavano e lo invitavano a seguirli per un controllo. Di solito filava tutto liscio. Poi lo conducevano in un luogo appartato, dichiaravano la propria identità e lo fucilavano. A volte lo giustiziavano sul posto. "Il cassone del camion era interamente coperto da un telone" raccontò un sodato. "Sul fondo c’erano dei materassi. Un paio di noi aspettavano dentro al buio. Non appena spuntava la testa del tedesco, lo si afferrava ben stretto per la gola e ci si buttava all’indietro sul materasso Il tedesco soffocava e la caduta gli spezzava all’istante l’osso del collo". (…)

Alcune azioni erano "puri e semplici atti di teppismo", come il giorno in cui i vendicatori si nascosero ai margini di una strada e cominciarono a sparare su tutto quello che si muoveva, o come quell’altra volta che uccisero anche un’ebrea scampata all’Olocausto. Bisognava fra l’altro decidere come liberarsi dei cadaveri. I vendicatori avrebbero voluto lasciarli bene in vista, perché venissero scoperti, ma Ben-Gal temeva che fosse pericoloso per i soldati della Brigata e perciò aveva ordinato di gettarli in qualche lago profondo. Non sempre però gli uomini gli obbedivano ed egli si lamentava della scarsa disciplina. (…)

Diversi vendicatori fecero poi carriera nell’esercito israeliano: alcuni divennero generali e uno di loro, Haim Laskov, assurse al rango di capo di Stato maggiore. Diversi anni dopo Laskov ricordava: "Non sono state delle ‘belle’ azioni. Sono state delle vendette. Insomma, abbiamo perso la guerra. Abbiamo perso sei milioni di ebrei. Chi non ha mai visto quei luoghi — i campi di sterminio e i crematori — non potrà mai capire quello che ci hanno fatto. E siccome eravamo deboli, non avevamo una nazione nostra e non avevamo potere, siamo ricorsi alla vendetta. Non è stata una cosa bella.". In ogni caso, anche la vendetta fu una piccola cosa. "Purtroppo", concludeva Laskov "non ne abbiamo ammazzati molti".

Riassumendo. C’è un’unità militare, la Brigata ebraica, formata da volontari che vogliono battersi contro la Germania di Hitler, ma che, per una serie di ragioni, viene mandata in linea quando la guerra è già entrata nella fase conclusiva. Poi la guerra finisce, ma l’unità non viene disciolta se non quindici mesi più tardi. In questo tempo, una parte dei suoi uomini decide di dedicarsi al vero scopo per cui si era arruolata: la vendetta. Usando proditoriamente l’uniforme dell’esercito britannico, essi vanno in giro per conto loro ad arrestare, interrogare, torturare, assassinare e occultare i cadaveri di alcune centinaia, o forse alcune migliaia, di persone, oltre a sfogare il loro odio contro i civili e contro persone che non c’entrano nulla e si trovano lì per caso, perfino ebrei scampati al genocidio. Non vi è la minima garanzia di legalità per quegli arresti e quelle esecuzioni, mentre la tecnica utilizzata per eliminare i condannati è di tipo prettamente criminale: si tratta di brutali assassinii con successivo occultamento di cadavere, per cui ai parenti delle vittime toccherà lo strazio di una lunga incertezza sulla sorte dei loro cari e, infine, sarà negata loro anche la consolazione di poter portare i fiori su di una sepoltura, come per le morti della "lupara bianca" mafiosa. Rievocando quei fatti, un futuro generale e capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano ammetterà che non si è trattato di una bella pagina, e tuttavia rivendicherà la sua piena legittimità morale e giungerà a rammaricarsi che non sia stata ammazzata abbastanza gente. Questa è la parte in ombra della storia della Brigata ebraica che ancor oggi il grosso pubblico ignora e che solo uno storico ebreo ha avuto l’onestà di far conoscere al lettore comune. Sorvolando sulle ragioni di quel complice silenzio, certamente ci si domanderà per quale motivo gli uomini della Brigata ebraica si sentissero in diritto di agire a quel mondo, senza provare, neppure a distanza di anni, il benché minimo rimorso, o avere il più piccolo ripensamento. A noi sembra che la spiegazione risieda nello spirito religioso col quale essi agivano, e che li portava a vedere la vendetta non solo come un diritto, ma anche e prima ancora come un sacro dovere. L’idea da essi coltivata era che chi alza la mano contro un ebreo deve essere punito dalla vendetta ebraica, senza passare dai canali della giustizia riconosciuta a livello internazionale, perché questa non è specificamente ebrea e non è basata sulla legge del taglione: occhio per occhio e dente per dente. In questa prospettiva si capisce meglio come poté Abba Kovner, un intellettuale ebreo sopravvissuto del ghetto di Varsavia, concepire il piano di assassinare sei milioni di tedeschi, a guerra finita, avvelenando gli acquedotti di Amburgo e Norimberga, per pareggiare il conto col nemico. A tale scopo fondò una cellula segreta denominata Nakam (Vendetta), che ebbe l’appoggio di Chaim Weizmann, futuro primo presidente di Israele, ma il piano naufragò per ragioni casuali, e quegli uomini ripiegarono su un obiettivo più modesto: aspergere con l’arsenico il pane del campo profughi Stalag 13, presso Norimberga, causando l’intossicazione di duemila persone – poveri cristi che avevano perso la casa e ogni altro bene sotto i bombardamenti – alcune in forma grave. L’Irgun, gruppo paramilitare sionista, aveva annunciato: L’Irgun della terra di Israele si vendicherà sui tedeschi ovunque essi si trovino… Un Dio geloso e vendicatore sarà al nostro fianco. Amen (cit., p. 139). Questo aiuta a capire la strategia puntualmente adottata da Israele nel conflitto coi palestinesi e la sua noncuranza delle numerose risoluzioni di condanna dell’ONU. La giustizia internazionale non ha nulla da dire in tali casi: per Israele esiste una sola giustizia, la sua, e si chiama vendetta. E le sue radici affondano nella sua tradizione religiosa, che non prevede il perdono verso i non ebrei…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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