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Che cos’è l’armonia sociale?

Un tempo si parlava dell’armonia sociale e se ne parlava come di una cosa altamente desiderabile, una meta verso la quale bisogna tendere. Poi, sotto l’influsso della prevalente cultura marxista, fondata sul rancore sociale e sull’odio più o meno accortamente rivestito coi più presentabili panni della sete di giustizia, si è smesso di usare tale espressione e se ne è abbandonato anche il concetto. La cultura del sospetto, alimentata soprattutto dalla psicoanalisi, ha fatto il resto: ormai, se qualcuno insisteva a parlare ancora dell’armonia sociale, era immediatamente bollato come un nemico del popolo, un difensore dell’ingiusto ordine sociale, o, nel migliore dei casi, uno spacciatore d’oppio che voleva narcotizzare il popolo. Secondo la cultura del sospetto, infatti, se uno parla del bene, vuol dire che si appresta a vibrarti una coltellata nella schiena; se uno parla della purezza, vuol dire che si accinge a violentarti; e se un altro parla dell’onestà, significa che la sua astuzia o i suoi sensi di colpa lo spingono a dire il contrario di ciò che fa e che ha sempre fatto nella sua vita. La sotto-variante della cultura del sospetto, alimentata dall’idea della lotta di classe, aggiunge che certe persone, per il fatto stesso di appartenere a determinate categorie sociali, non sono autorizzate a parlare, perché qualsiasi cosa dicano, certamente la diranno in perfetta malafede, allo scopo d’ingannare e manipolare gli altri. Così, ad esempio, il ricco, chiunque egli sia – e poco importa se è un ozioso ereditiere o uno che si è fatto da sé a forza di sgobbare — non ha alcun diritto di parlare della giustizia sociale, meno ancora di nominare i poveri: la parola povero dovrebbe scottargli sulle labbra, a lui, infame oppressore e sfruttatore del popolo; meglio che non la pronunci proprio. Anche se, magari, è stato povero anche lui, e sa bene cosa vuol dire la fatica quotidiana di sfamare se stesso e la propria famiglia: si veda, nel Mastro-don Gesualdo di Verga, l’odio di tutta la comunità nei confronti del protagonista, un ex manovale arricchito con la sua instancabile laboriosità e il suo senso degli affari. Si prenda anche nota che la cultura del sospetto e del rancore, al presente, non è stata diffusa solo dai marxisti e dai sessantottini, ma anche e soprattutto dai cattolici progressisti e di sinistra: da sacerdoti come don Lorenzo Milani, per esempio, sempre dietro i nobili paludamenti dell’ansia di giustizia e di verità, resi ancor più credibili dall’abito che indegnamente indossavano, e che usavano non per servire Dio ma per incitare alla disobbedienza e al disprezzo nei confronti delle autorità costituite. Cosa di cui don Milani diede l’esempio col suo comportamento verso l’arcivescovo di Firenze, a dispetto del fatto che, come consacrato, aveva volontariamente assunto il voto dell’obbedienza, oltre a quelli della povertà e della castità.

Ma cos’è l’armonia sociale? Prima di decidere se sia auspicabile, bisogna capire di cosa si tratta esattamente. Le società umane sono, per definizione, imperfette: nessuna si avvicina a quel paradiso in terra che sognano, da sempre, millenaristi e rivoluzionari d’ogni sorta; nessuna ha in se stessa sufficiente giustizia per assicurarle una durata illimitata. Infatti, tutte le società umane subiscono un processo di trasformazione — evoluzione o involuzione, secondo i parametri e il punto di vista adottati — e, alla fine, si estinguono, scompaiono, si confondono nel crogiolo di altre società, che ne prendono il posto dopo averle assorbite. E tuttavia, sono innegabili i vantaggi della stabilità: quanto più una società è stabile, tanto più la gente si sente incoraggiata a sposarsi, ad avere dei figli, a mettere su un’impresa, a lavorare serenamente e a lasciare qualcosa di cui gli eredi potranno godere. Stabilità non è sinonimo di fissità: nessuna società rimane ferma e immobile in se stessa, come pietrificata; se anche ciò fosse possibile, al prezzo di una spietata repressione della normale dialettica sociale, non sarebbe però auspicabile, perché una certa dose di progresso è indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi comunità umana. Una certa dose, non un torrente rovinoso che spazza via ogni cosa. Il progresso, come ogni altro aspetto della vita sociale, deve essere in qualche modo padroneggiato, orientato, disciplinato: non si può permettere, ad esempio, che diventi monopolio di una ristrettissima élite ultraprivilegiata, che possiede tutti i mezzi di produzione e d’informazione, e che usa il progresso a suo esclusivo vantaggio costringendo tutto il resto ella popolazione a subirne gli effetti, più o meno dirompenti, mai comunque realmente vantaggiosi per essa, perché messo al servizio di un feroce egoismo che è il suo peccato d’origine.

Dunque, la società deve coniugare stabilità e progresso; non può chiudersi nella mera conservazione dell’esistente, ma non può neanche inseguire una trasformazione incessante e sempre più vorticosa, perché le sue strutture ne risulterebbero distrutte. La società è paragonabile a un organismo: l’organismo sano è quello che riesce a tenere in equilibrio una spontanea necessità di rinnovamento con una altrettanto naturale necessità di equilibrio. Per ottener un tale risultato, è necessario che la società miri alla coesione interna: se è coesa, riuscirà a superare le tensioni e al tempo stesso potrà fronteggiare efficacemente eventuali minacce provenienti dall’esterno, di qualunque natura esse siano. La coesione, a sua volta, non è un valore assoluto, ma relativo: è in funzione dell’equilibrio; e l’equilibrio è, come abbiamo visto, una sapiente coesistenza di stabilità e progresso. Le società che pongono la coesione come il valore supremo sono le società totalitarie, nelle quali l’individuo è interamente compresso a beneficio di una realtà considerata superiore, lo stato, la classe, la razza, ecc. Storicamente, la società che ha goduto della maggiore coesione è stata, a nostro giudizio, la società medievale. In essa il cristianesimo svolgeva il ruolo d’istanza superiore unificatrice; per il resto, stabilità e progresso erano mantenuti in difficile ma riuscito equilibrio. Si prenda l’economia: all’individuo era consentito arricchirsi, con il commercio, con la guerra, perfino con il prestito di denaro, ma senza oltrepassare un certo limite e senza violare le regole del buon vivere sociale. Il commerciante disonesto, ad esempio, era giudicato dai maestri delle corporazioni; il banchiere veniva sanzionato dalla Chiesa e anche punito dalla stessa comunità, se spingeva troppo oltre la sua avidità e diveniva un usuraio, cioè un puro e semplice parassita. Le sanzioni per chi infrangeva le norme del buon vivere civile provenivano sia dall’alto che dal basso. La concorrenza dei mercanti fra di loro era disciplinata per legge, erano proibite forme sleali di pubblicità, ma soprattutto era il consumatore, come si direbbe oggi, a "punire" il venditore di prodotti scadenti. A parità di regole produttive, il fornaio che vendeva pane scadente vedeva diminuire la propria clientele e alla si vedeva costretto a chiudere l’attività: esisteva un meccanismo virtuoso per cui chi lavorava bene era automaticamente premiato. Tutto questo, sovente, più in teoria che in pratica; ma qualche volta anche in pratica, a dispetto della teoria. Ciò che veniva combattuto era il fatto che si creasse una situazione di monopolio, che avrebbe distorto irrimediabilmente le leggi della sana concorrenza. Chi opera in regime di monopolio può fare quello che vuole, vendere ciò che vuole, e il pubblico è costretto ad acquistare i suoi prodotti, senza avere alternative. Se tutte le botteghe di una certa comunità appartengono a un unico proprietario, questi potrà imporre i prezzi che vuole e anche prendersi il lusso di vendere merce scandente, tanto la gente sarà obbligata a servirsi ugualmente dei suoi rivenditori. Questo è esattamente quel che succede oggi con le multinazionali e i grandi cartelli finanziari: e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Dunque, tornando al Medioevo, nessuno pensa che fosse una società perfetta; al contrario, era piena di magagne. E tuttavia era una società a misura d’uomo, specialmente nella sua fase più felice, quella che va dal Mille al 1200, che poi è la fase della nascita e dello sviluppo dei Comuni, prima che questi iniziassero a degenerare. Per un paio di secoli, forse due secoli e mezzo, si sono create le condizioni perché stabilità e progresso restassero in equilibrio; di conseguenza la società era coesa, quanto non lo era mai stata prima. Si potrebbe obiettare che anche la società romana era coesa; ma questo ci rimanda al concetto della sana coesione o della coesione forzata. La società romana, specie nel periodo tardo repubblicano e imperiale, era coesa perché si stava trasformando in un immenso campo di concentramento, coi ricchi padroni di tutto e gli altri ridotti a servirli. Non era coesione, ma costrizione, il che è ben diverso. Perché ci sia una sana coesione, deve esistere l’elemento della libertà. La libertà è essenziale all’uomo che vuol essere degno di questo nome; dove essa manca non ci sono più uomini, ma una turba di schiavi. Ecco perché la situazione creata dagli assurdi provvedimento del governo Conte Bis, con il pretesto dell’emergenza sanitaria, ha fatto regredire la società italiana, in questa primavera del 2020, a livelli servili, coi cittadini che di colpo sono stati ricacciati nella condizione di sudditi, tenuti ad obbedire ciecamente a tutti gli ordini, anche i più capricciosi e irrazionali, dell’autorità statale, e nel più totale disprezzo delle loro giuste necessità materiali. Un’autorità che, a questo punto, diviene moralmente illegittima: perché ogni autorità è legittima nella misura in cui serve gli interessi collettivi e persegue il bene comune, che sia stata democraticamente eletta, come avviene nelle società occidentali odierne (ma non è il caso del governo Conte Bis, non eletto da alcuno) o che esprima un ordinamento gerarchico e fortemente strutturato, come nel caso delle società medievali. La democrazia, infatti — ce ne siamo scordati — non è neppure essa un valore assoluto: è uno strumento, un mezzo per perseguire il bene comune. Se viene utilizzata per ledere il bene comune, anch’essa diventa un ostacolo da abbattere, perché il fine della società è il bene dei suoi membri, o della grande maggioranza di essi, e non la perpetuazione dell’autorità fine a se stessa.

Osservano gli storici Jean-Pierre Poly ed Éric Bournazel, richiamandosialla lezione di Ernst Bloch e oltrepassando gli schemi della storiografia marxista, col suo rigido economicismo (in Il mutamento feudale. Secoli X-XII; tit. or.: Le mutation féodale. Xe-XIIe siècles, Presses Universitaires de France, 1980; tr. di U. Gherner, edizione italiana a cura di G. Sergi, Milano, Mursia, 1990, pp. 207-08):

Non è sufficiente ricostruire nel modo più preciso possibile la condizione dei gruppi che compongono una società e illustrare così il suo lessico sociale. Bisogna porsi anche la domanda: quale immagine della propria struttura si costruisce una società? Come articola i diversi elementi di questo lessico? Sotto questo aspetto nessun elemento storico è più chiaramente rivelatore di quello durante il quale la rapidità dei cambiamenti sociali rompe le abitudini consolidate e scuote i rapporti sociali esistenti. Allora, i vecchi discorsi si incrinano, il dogma vacilla e lascia spazio alla contestazione o addirittura all’eresia. Allora si elabora e si assesta lentamente anche una nuova giustificazione dell’ordine sociale esistente. Quale immagine si facevano i contemporanei di questi disordini e di questi cambiamenti? Una risposta diretta alla domanda è difficile da dare. Noi percepiamole tensioni e i conflitti del X, dell’XI, del XII secolo quasi soltanto con gli occhi degli uomini della Chiesa incaricati nella società del tempo di esprimere l’ordine del mondo, se non come era, per lo meno come avrebbe dovuto essere. (…)

Quando, nei primi anni del secolo X, i preamboli dei documenti la riprodussero, era già da tempo pronta una risposta teorica a un’agitazione sociale: "Chi resiste al potere resiste all’ordine stabilito da Dio". Fortunata unione della provvidenza divina e del conformismo sociale. Non avviene affatto per caso che il tema dominante di ogni descrizione delle tensioni sociali sia quello dell’unità organica di tutte le sue parti. L’immagine del corpo sociale non è ancora una semplice metafora. La società, casa di Dio, è un corpo inteso nella sua fisicità: ha testa, occhi, orecchie, narici costole, mani, piedi, viscere, e anche escrementi. Questo corpo è quello di Cristo; romperne l’unità significa mutilare il Cristo, contestare il potere vuol dire rendere la società acefala, un mostro senza testa, un folle; come diceva con stupefacente cecità il monaco che riferiva sulla rivolta degli insorti di Le Mans: bruciano addirittura il castello e lo fanno senza ragione.

Questa è stata la grande lezione della civiltà medievale, che avrebbe molto da insegnare anche a noi. Un solo Dio, una sola fede, un solo sovrano (che i comuni riconoscevano, e infatti non lottavano per l’indipendenza ma per l’autonomia); un solo obiettivo: il bene comune, nella pluralità dei ruoli e delle attività economiche; e un’armoniosa tripartizione sociale, oratores, bellatores e laboratores. Checché ne dicano gli storici odierni, impregnati di materialismo, i primi due ordini non erano affatto parassitari, perché sia le funzioni sacerdotali, sia la difesa militare, erano sentiti dall’uomo medievale come necessari per assicurare il bene comune, non meno del lavoro del contadino, dell’artigiano e del mercante. L’uomo moderno si crede superiore perché cresciuto nei sacri principi dell’89: ma la verità è che la modernità ha distrutto un mirabile ordine sociale senza averne creato uno migliore. Lo vediamo ora, con le meraviglie della globalizzazione, ove un pugno di miliardari possono trattare come bestiame da macello tutti gli altri. E niente Dio a cui rivolgersi. L’armonia di una società riflette l’idea che ha di sé quale riflesso dell’ordine del mondo. Ma noi crediamo che il mondo sia ordinato? E pensiamo qualcosa di noi, come individui e come società, che non sia il nulla?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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