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Il Gran Mufti e il Duce: come ti raccontano la storia

Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme e perciò massima figura istituzionale e religiosa islamica della Palestina, ma con un vasto seguito in tutto il mondo arabo, nonché fervente sostenitore della causa nazionalista del suo popolo, come è noto giudicò come la massima sciagura la crescente immigrazione ebraica in Palestina e cercò di opporvisi con tutte le sue forze, così come cercò poi di scongiurare fino all’ultimo la fondazione dello Stato d’Israele. È anche noto che, negli anni della Seconda guerra mondiale, come fecero tanti altri leader nazionalisti del Terzo Mondo, egli vide nelle potenze dell’Asse una valida alternativa al dominio britannico che stava favorendo, sia pure fra alti e bassi, l’immigrazione ebraica in Palestina e che del resto agiva in conformità alla famosa Dichiarazione Balfour del 1917, con la quale il governo britannico si era impegnato (quando ancora la Palestina era parte dell’Impero ottomano!) a favorire la costituzione di un "focolare nazionale ebraico" in Palestina, vale a dire che riconosceva le tesi, fino ad allora largamente minoritarie perfino in seno all’ebraismo, del movimento sionista fondata da Theodor Herzl. Così facendo, egli non agiva diversamente da uomini come Nasser o Sadat, allora giovani ufficiali dell’esercito egiziano, o come il leader nazionalista indiano Chandra Bose, in base al noto principio della politica secondo il quale i nemici del tuo nemico diventano di fatto tuoi amici, almeno potenziali, e non unire le forze con essi equivale a sprecare una possibilità di vittoria che potrebbe non ripresentarsi.

Hitler e Mussolini, all’epoca, erano in guerra con la Gran Bretagna e perciò solo da essi i nazionalisti di quei Paesi potevano sperare di scrollarsi il dominio, diretto o indiretto, esercitato dai britannici. A nessun lepade nazionalista arabo sarebbe venuto in mente di scartare una simile occasione per la ragione che Hitler perseguitava gli ebrei. A parte il fatto che le notizie sul destino degli ebrei dopo l’inverno del 1940-41 erano poche e confuse, al punto che nemmeno Churchill, Roosevelt o Stalin pensarono mai di fare una pubblica dichiarazione in merito (anche se quel silenzio sarebbe stato poi messo in conto, chi sa perché, a Pio XII, e a lui solo, benché il Vaticano si fosse prodigato per salvare la vita al maggior numero possibile di ebrei ricercati dalle autorità naziste), tutti gli uomini politici del tempo, compresi quelli europei, in quegli anni drammatici pensarono a tutelare i propri popoli e le loro necessità vitali, e nessuno si fermò di fronte a considerazioni di natura etica qualora le circostanze li costringessero a fare una scelta fra le potenze in lotta. Eppure ad Amin al-Husseini è stata particolarmente rimproverata la politica di amicizia e collaborazione con Hitler e Mussolini, evidentemente perché egli voleva tutelare gli interessi del suo popolo, quello arabo-palestinese, entrando in conflitto con quelli degli ebrei che, sulla spinta del movimento sionista, vedevano nella Palestina la loro nuova patria; situazione che differiva da quella di Nasser o Sadat in Egitto, non perché in Egitto non vi fossero ebrei, ma perché essi non pensavano di fondare un loro Stato nella terra del Nilo, bensì in Palestina. Quel che vogliamo dire è che i nazionalisti egiziani cercavano l’appoggio dell’Asse per cacciare i britannici dal loro Paese e renderlo del tutto indipendentemente; al-Husseini voleva cacciare dal suo Paese sia i britannici, sia gli ebrei che negli ultimi anni vi si erano stabiliti e che continuavano ad arrivare, e la cui presenza sempre più numerosa rischiava di gettare una pesantissima ipoteca sulla nascita di uno Stato arabo indipendente e sovrano. E se lo si vuol biasimare per non aver tentato di percorrere la via di un unico Stato per due popoli e due religioni, bisogna tener presente che per battere una strada così difficile bisogna che s’incontri la buona volontà di entrambe le parti, e non di una sola; e che nemmeno il Mahatma Gandhi, con tutto il suo carisma e il suo ascendente, riuscì a fare una cosa del genere per la sua patria indiana, in quanto non riuscì a convincere il leader dei musulmani, Muhammad Ali Jinnah, circa la possibilità di far convivere armoniosamente i seguaci di due fedi diverse (e, in quel caso, appartenenti a uno stesso popolo) in una sola nazione.

A differenza di Gandhi, comunque, al-Husseini non era un leader pacifico e fu l’animatore di una serie di agitazioni e rivolte antibritanniche in Palestina, culminate nella Grande rivolta araba del 1936-39, nel corso delle quali venero uccisi centinaia di ebrei, ma morirono anche molte migliaia di arabi. Lui stesso scampò, a sua volta, a un progetto di assassinio che avrebbe dovuto essere condotto da un gruppo di terroristi ebrei dell’Irgun, organizzato e finanziato dagli inglesi, con l’approvazione personale di Winston Churchill. Costretto a rifugiarsi a Beirut, poi a Damasco, e venuto in contrasto con le autorità francesi, al-Husseini, che da tempo aveva stabilito collegamenti con le autorità diplomatiche italiane e tedesche, si portò in Iraq, dove, presso il governo di Rashid Ali al-Kaylani, sperò di gettare le basi di un vasto Stato arabo, esteso dalle coste del Mediterraneo alla foce del Tigri e dell’Eufrate; ma tali speranze furono vanificate dalla pronta reazione britannica, che costrinse al-Kaylani alla fuga, alla fine di maggio del 1941. Sia il governo iracheno antibritannico, sia lo stesso al-Husseini trovarono momentaneamente rifugio a Teheran; ma anche da lì dovettero fuggire, poiché l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna stavano procedendo all’occupazione congiunta dell’Iran. Il Gran Mufti, che si era rifugiato nell’ambasciata italiana, ripartì in aereo con la delegazione diplomatica italiana e giunse in Italia, a Bari, da dove proseguì per Roma e si incontrò con Mussolini il 27 ottobre; poi si portò in Germania e incontrò Hitler un mese dopo, il 28 novembre, a Berlino. Con i due capi dell’Asse egli cercò di concordare una strategia comune fra i nazionalisti arabi e le due nazioni europee; si prestò a favorire l’arruolamento di volontari musulmani, in particolare nella Jugoslavia occupata, nelle formazioni dell’Asse, specie nelle SS tedesche. Vale a dire che fece esattamente quel che sempre fanno i leader nazionalisti che per conquistare l’indipendenza del proprio Paese hanno bisogno del sostegno di altri Stati: quel che avevano fatto Masaryk e Benes durante la Prima guerra mondiale, o Pilsudski, rispettivamente per la Cecoslovacchia e la Polonia, tanto per fare due esempi: arruolare compatrioti in formazioni militari disposte a battersi anche sotto una bandiera straniera, purché amica, per poi far valere la propria causa al tavolo della pace. Certo, al-Hussain non era uno stinco di santo; era un leader violento, intollerante, sleale, che faceva uccidere anche gli arabi da lui considerati troppo moderati; come altri, del resto. Ma ciò che gli viene rimproverato è soprattutto di aver collaborato, sia pure indirettamente, alla "soluzione finale": il che è una vera forzatura di carattere ideologico. Si vuol fare di lui un campione dell’antisemitismo, mentre il suo scopo principale era quello di portare avanti la causa del nazionalismo arabo, non certo di sterminare gli ebrei d’Europa ma semmai di cacciarli dal futuro Stato arabo e impedire che ne arrivassero altri in Palestina; come più tardi sarebbero stati cacciati dallo Stato ebraico centinaia di migliaia di arabi, a seguito delle guerre arabo-israeliane. Gli si rimprovera anche di essere stato ad ascoltare Hitler che gli descriveva la Seconda guerra mondiale come una guerra voluta dal giudaismo internazionale, e forse di aver aderito a tale punto di vista: ed è questa, probabilmente, la colpa che non gli viene "perdonata" dalla storiografia odierna, scritta e stabilita dai vincitori, i quali si riservano di criminalizzare qualsiasi interpretazione giudicata eterodossa, ossia che tenga conto del punto di vista della parte risultata soccombente.

E ora torniamo all’incontro di al-Husseini con Hitler e, prima ancora, con Mussolini, il quale, come è noto, ambiva a presentarsi ai popoli arabi, in funzione antibritannica, come la spada dell’islam. Così viene rievocato quell’episodio da Bernard Lewis, uno storico ebreo di cittadinanza britannica (Londra, 31 maggio 1916-Voorhees, New Jersey, 19 maggio 1918), morto a quasi centodue anni, che fu professore di Studi Orientali all’Università di Londra e a quella di Princeton, arabista di fama e collaboratore dei servizi segreti dei due Paesi, consigliere del Pentagono in diverse occasioni, specie per la stesura dei piani per l’invasione dell’Iraq nel 2003 (da: B. Lewis, Semiti e antisemiti. Indagine su un conflitto e su un pregiudizio; titolo originale: Semites and Anti-Semites. An inquiry into conflict and prejudice, New York, Norton & Company, 1987; traduzione di Livia De Ruggiero, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 166-168):

Il mufti fuggì in Iran insieme con Rescid Alì e diversi membri del suo regime. L’Iran stava però diventando insicuro per gli amici dell’Asse, che comunque seppero provvedere a se stessi: nell’agosto 1941, il mufti riparò dapprima nella legazione giapponese e poi in quella italiana, dove per un certo tempo rimase nascosto e da dove, l’8 ottobre 1941, quando i nuovi padroni dell’Iran, i russi e gli inglesi, imposero la rottura delle azioni diplomatiche con le potenze dell’Asse, – con la barba rasata, i capelli tinti e un passaporto italiano di servizio — partì per l’Italia insieme con il personale della legazione italiana. Arrivato a Roma l’11 ottobre, prese immediatamente contatto con il Servizio Informazioni Militari e subito dopo con lo stesso Mussolini, che gli fece una calda accoglienza, senza dubbio nella speranza di servirsene per la propria politica araba. Il mufti affermò di essere a capo di un’organizzazione nazionalista araba segreta con diramazioni in tutti i paesi arabi che disse, erano disposti a unirsi alle forze dell’Asse nella guerra contro la Gran Bretagna "alla sola condizione che esse riconoscano in principio l’unità, l’indipendenza e la sovranità di uno stato arabo a carattere fascista, comprendente l’Irak, la Siria, la Palestina e la Transgiordania". In cambio, secondo il mufti, gli arabi sarebbero stati pronti a discutere problemi politici e militari interessanti le potenze dell’Asse in generale e l’Italia in particolare, come "i Luoghi Santi, il Libano, il canale di Suez e ‘Aqaba". La proposta del mufti fu bene accolta dal ministero degli Esteri italiano, che suggerì un’iniziale elargizione di un milione di lire (circa 40.000 dollari del tempo) e trasmise la pratica a Mussolini. Il duce diede il suo assenso e acconsentì a incontrare il mufti. I due uomini si videro a Roma il 27 ottobre 1941, solo due settimane dopo l’arrivo del mufti in Italia. Secondo il resoconto fatto dal mufti di questo incontro, l’unico sinora venuto alla luce, Mussolini manifestò ostilità per gli ebrei, che dipinse come spie, agenti e propagandisti degli inglesi. "Sono nostri nemici… e non vi sarà posto per loro in Europa, nemmeno in Italia, dove ve ne sono al massimo 45.000 su una popolazione di 45 milioni. Sono pochi, ciononostante di loro solo i meritevoli rimarranno. Non più di 2.500."Secondo questo rapporto, Mussolini, "un vecchio antisionista", condivise in pieno l’ostilità del mufti per "uno stato sionista in Palestina… essi non hanno motivi storici, razziali o altro per costituire uno stato in Palestina… Se gli ebrei lo vogliono devono portare Tel Aviv in America". Dal punto di vista del mufti, l’incontro con Mussolini fu un successo e le due parti giunsero a un accordo generale. Ma restava ancora molto da fare. La dichiarazione che l’Asse doveva pubblicare in appoggio agli arabi non era ancora stata scritta e, cosa più importante, la Germania, il partner dell’Asse che contava di più, doveva ancora dare il suo consenso. Il 3 novembre, pochi giorni dopo l’incontro con il dice, il mufti preparò ancora un’altra bozza della dichiarazione. Dopo alcuni emendamenti secondari apportati dal ministero degli Esteri italiano, la bozza fu presentata a Mussolini e il 6 novembre all’ambasciata tedesca a Roma. Lo stesso giorno il mufti arrivò a Berlino, dove si incontrò con Ernst von Weizsäcker, segretario di stato del ministero degli Esteri tedesco. Dopo aver discusso con lui e con altri funzionari tedeschi la bozza di dichiarazione, il testo fu approvato con piccoli cambiamenti a loro volta approvati dagli italiani. La dichiarazione, secondo il riassunto pubblicato, non contiene niente più che una vaga proclamazione di principi generali. Comprendeva però una clausola secondo la quale le potenze dell’Asse si dichiaravano pronte a dare la loro approvazione all’eliminazione ("Beseitigung") del focolare nazionale ebraico in Palestina. Questa dichiarazione di intenti doveva "in un prossimo futuro essere esposta in un documento formale che avrebbe sigillato la sincera amicizia e la stretta collaborazione future tra le potenze dell’Asse e gli arabi. Al più presto possibile avrebbero avuto inizio le trattative per la conclusione di questo trattato". Quando ebbe luogo l’incontro con Hitler, il 28 novembre 1941, la situazione era perciò molto promettente dal punto di vista del mufti, il quale tuttavia fu deluso da quanto sentì: rispondendo alla sua prima dichiarazione circa quello che gli arabi erano disposti e capaci di offrire alla causa tedesca e quello che speravano in cambio, il Führer riaffermò per prima cosa e con forza la sua posizione antiebraica: "I fondamenti della dura battaglia che stava combattendo erano chiari. Egli stava combattendo un’irriducibile lotta contro gli ebrei, alla quale si accompagnava quella contro gli insediamenti ebraici in Palestina, perché attraverso essi gli ebrei volevano creare uno stato che fosse la base per le loro dannose attività in altri paesi. Era evidente che gli ebrei non avevano realizzato alcuna impresa costruttiva in Palestina e affermare ciò era una frode. Tutte le imprese realizzate in Palestina erano opera degli arabi. Egli era deciso a risolvere il problema ebraico un passo dietro l’altro e a rivolgere un adeguato appello ad altri popoli, anche non europei"(David Ysraeli, "The Third Reich and Palestine"). Se il Führer fu largo di professioni antiebraiche, fu però molto più cauto nel rilasciare le dichiarazioni filoarabe desiderate dal mufti…

E ancora:

La politica estera tedesca ha costantemente riconosciuto la priorità degli interessi italiani nel Medio Oriente [rispetto a quelli sovietici prima del giugno 1941, e a quelli della Francia di Vichy]e si è astenuta con cura da qualsiasi azione o iniziativa tali da portare la Germania in urto con il suo alleato italiano (B. Lewis, cit., p. 156).

Ci sarebbero tantissime cose da osservare su questa ricostruzione che ha le apparenze di una certa oggettività ma che, a ben guardare, tradisce un pregiudizio di fondo che rende tutto il lavoro del Lewis più simile a un libello politico che a una vera opera di ricerca storica. Egli non si preoccupa minimamente di salvare una parvenza di neutralità intellettuale: dove vadano le sue simpatie e quale sia il suo personale giudizio traspare piuttosto chiaramente, dalla prima all’ultima pagina del suo libro. Anche il modo in cui viene descritto l’incontro fra Mussolini e al-Husseini segue questo schema: pare che l’Autore voglia suggerire al lettore che un odiatore degli ebrei come il Gran Mufti non poteva desiderare d’incontrarsi con un interlocutore più appropriato del duce del fascismo: mentre chiunque conosca un minimo di storia del fascismo sa bene che questa è un’assoluta falsità. Sa, in particolare, che Mussolini non aveva nulla contro gli ebrei, tanto meno sotto il profilo razziale, e lo manifestò per la maggior parte della sua vita e del suo governo; che il movimento fascista della prima ora era pieno di ebrei, i quali erano al tempo stesso ardenti nazionalisti italiani; e che le cose si deteriorarono irreparabilmente solo nel 1938, in conseguenza, sì, delle leggi razziali varate dal regime, ma dopo che queste, a loro volta, avevano trovato uno stimolo nell’atteggiamento assunto dal Congresso ebraico mondiale nei confronti del governo italiano, specie a partire dalla guerra d’Etiopia, quando quello si schiererà apertamente per la politica delle sanzioni inflitte all’Italia dalla Società delle Nazioni.

Della ricostruzione di Bernard Lewis diremo soltanto che c’è qualcosa d’ironico, e quasi d’involontariamente comico, nel fatto che uno studioso ebreo, che per anni ha collaborato coi servizi segreti britannici e american in funzione anti-araba, e che ha svolto un ruolo importante nella preparazione l’aggressione all’Iraq del 2003, quella giustificata dalle potenze anglosassoni con la presenza d’inesistenti armi di distruzione di massa negli arsenali di Saddam Hussein, ponga sotto una luce torbida le azioni di quei nazionalisti arabi che si destreggiarono nel gioco delle grandi potenze per tutelare l’interesse del loro popolo, come se ciò configurasse automaticamente la colpa di antisemitismo e una chiara, innegabile complicità con il genocidio perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei. Ma questo è tipico della storiografia dei vincitori. Quando una guerra finisce con la disfatta completa di una delle due parti, i vincitori si sentono legittimati a ragionare secondo due pesi e due misure: una che riservano a se stessi e una per il nemico sconfitto, meritevole solo di una condanna senza appello. Tanto è vero che l’orientalista Lewis, di fronte a ciò che i Giovani Turchi fecero contro gli armeni, sposa la tesi negazionista e afferma che non lo si può definire un genocidio (cosa che gli valse un processo e una condanna, sia pure simbolica, in Francia): e tanto peggio per i due milioni di morti armeni, soppressi complessivamente nel 1894-96 e nel 1915-16. A quanto pare, per lui solo quello subito dagli ebrei, durante la Seconda guerra mondiale, si può considerare un vero genocidio. E cosa lo autorizza ad assumere questo atteggiamento antistorico, se non il fatto che l’Asse ha perso la guerra in modo totale e che poi Israele ha vinto, in modo totale, le guerre arabo-israeliane? E, magari, anche il fatto che l’Armenia indipendente, che avrebbe dovuto sorgere dopo la Prima guerra mondiale, col Trattato di Sévres del 1920, di fatto non vide mai la luce, a causa della ripresa della Turchia sotto la guida vittoriosa del generale Kemal Atatürk; mentre la nascita dello Stato d’Israele venne accettata dalle grandi potenze, nel 1948, come una sorta di risarcimento per ciò che avevano sofferto gli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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