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Ci resta la “nuda vita”, certo. Ma per fare cosa?

Uno degli slogan più odiosi e truffaldini coi quali l’establishment politicamente corretto ha cercato di smorzare e, se possibile, di stoppare sul nascere qualsiasi critica ai folli e autolesionistici provvedimenti varati dal governo italiano di fronte alla cosiddetta emergenza sanitaria è stato quello che bisogna lascarlo fare, perché, in fin dei conti, ora non è il tempo delle chiacchiere più o meno oziose, ma si tratta di difendere il valore primario della "nuda vita", pura e semplice. L’espressione la nuda vita è ripresa dall’opera del filosofo Giorgio Agamben e si trova nel suo libro Homo sacer. Ahinoi questi Conte, questi Zingaretti, questi Gualtieri, tutti i tristi personaggi che detengono oggi il potere nel nostro Paese, a nome e per conto non del popolo italiano ma dell’UE e della BCE, benché non eletti da alcuno e perciò decisi a tenere i cittadini lontani dalle urne il più a lungo possibile (tristi nel senso che ha la parola declinata al singolare, tristo, e non triste; si vedano i Promessi Sposi per rinfrescare la memoria, se non bastasse il dialetto: dalle nostre parti si dice al è un trist, per indicare una brutta persona, adusa al male e al vizio), nella loro suprema ignoranza e insipienza, hanno citato proprio l’autore che meno si addice alle loro intenzioni repressive nei confronti del legittimo dissenso. Giorgio Agamben infatti è un signore che fin dal 2003 ha rinunciato all’incarico di professore illustre all’l’Università di New York per protesta contro le leggi restrittive sulla libertà dei cittadini che quel governo, sulla scia dell’attentato dell’11 settembre 2001, aveva varato contraddicendo la sua natura democratica. Allora quel gesto piacque molto alla sinistra di casa nostra, perché il presidente in carica era un certo George Bush jr., il quale chiaramente stava sfruttando la psicosi terroristica per far digerire ai suoi concittadini una significativa restrizione delle libertà costituzionali. Ma sentite ecco cosa ha scritto Giorgio Agamben, a proposito delle prime manifestazioni della psicosi sanitaria scatenata in Italia e altrove (ma da noi, con assai maggiore virulenza) da chi se ne vuol servire per fare la stessa cosa che hanno fatto i governanti statunitensi dopo gli attentati terroristici di diciannove anni fa, cioè limitare drasticamente la sfera delle libertà fondamentali, nella sua rubrica sul sito Quodlibet, il 26 febbraio scorso:

La sproporzione di fronte a quella che secondo il CNR è una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. 

L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.

È evidente, pertanto, che i signori e signorini della sinistra al potere avrebbero fatto meglio a scegliersi un altro slogan, a cercarsi una diversa citazione per tappare la bocca alle opposizioni e per stoppare le critiche alla loro dissennata gestione della cosiddetta emergenza (che esisteva, in effetti, almeno dall’anno scorso, se non da prima ancora; ma le autorità e soprattutto la stampa si erano "scordate" di farcelo sapere): loro che, prima di porre l’Italia intera agli arresti domiciliari, chiamavamo sciacallo chi chiedeva semplicemente che fossero poste in quarantena, e non per motivi "razzisti" ma prudenziali, tutte le persone provenienti dalla Cina a gennaio e febbraio scorso. Sia come sia, e indipendentemente dal giudizio che si voglia dare tanto della cosiddetta pandemia da Covid-19 (cosiddetta perché proclamata dall’OMS, ma negata da illustri scienziati e da prestigiose istituzioni scientifiche), quanto delle misure sanitarie, politiche ed economiche prese per fronteggiarla, resta il concetto della "nuda vita" che si troverebbe a tu per tu con un pericolo mortale e che bisogna, pertanto, difendere a ogni costo dalla mortale minaccia delle malattie epidemiche; così come l’indomani dell’11 settembre 2001 bisognava difenderla, e non solo negli Stati Uniti ma nel mondo intero, dalla mortale minaccia terroristica.

E per prima cosa, che significa la nuda vita? Evidentemente, la vita al grado zero la vita senza nient’altro; la vita biologica intesa come la pura e semplice sopravvivenza. Il riferimento sottinteso, ovvio, è quello all’universo concentrazionario e più precisamente ad Auschwitz. E già qui si nota una forzatura, dovuta alla concezione materialistica del reale, tipica della cultura di sinistra. Per quei signori, infatti, dire "la vita" o dire "la nuda vita" è praticamente la stessa cosa: perché l’uomo è un animale evoluto a caso, nato per caso e destinato a morire secondo le leggi del caso, un organismo biologico che necessita del nutrimento per conservarsi; e quindi non c’è niente fra lui e la morte, niente di sostanziale, ma solo una serie di sovrastrutture dell’economia, perché è l’economia che gli dà di che vivere, ossia che gli dà il cibo con il quale nutrissi e conservarsi. Invece la nuda vita, intesa come espressione storica, è il frutto di una riduzione operata sull’uomo dal potere: quando l’uomo viene spogliato della sua libertà, dei suoi beni, della sua dignità, del suo stesso nome e, ridotto ad un numero, vestito di una casacca da prigioniero, viene ammassato coi suoi simili in un luogo di detenzione il cui scopo è annientarlo non solo fisicamente, ma anche moralmente, fino a ridurlo a un essere sub-umano che, per una scodella di minestra e una coperta con cui coprirsi la notte, sarebbe disposto a denunciare agli aguzzini il suo più prossimo compagno di sventura. Ma che la vita sia questo, fuori dai reticolati di un campo di concentramento, è tutto da dimostrare. Per colui che possiede una concezione spirituale del reale, e specialmente per un cristiano, la vita non è mai "nuda", perché, anche nelle condizioni più misere e drammatiche, è sempre rivestita dalla luce splendente dell’Essere, è sempre impreziosita e ingentilita dalla fiammella della grazia divina, che può accendersi in lei in qualunque momento. La vita umana per il cristiano è infinitamente preziosa, perché riscattata a caro prezzo da Gesù Cristo, fattosi uomo e morto sulla croce per amore degli uomini. E quindi non è mai "nuda", se per nuda s’intende ridotta a una mera realtà biologica. L’uomo non è un animale; non è frutto del caso; non nasce per caso né muore a caso. Tutto in lui reca la perfezione spirituale del Creatore, che l’ha fatto a sua immagine; tutto è predisposto perché egli conferisca alla vita il merito d’averla pienamente realizzata, cercando la verità e adorando quel Dio che gliel’ha data affinché produca molto frutto, secondo la similitudine della vite e i tralci, una delle più belle ed efficaci dei quattro i Vangeli (Gvi 15,1-8):

Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Dunque per chi ha una visione spirituale e non carnale della realtà, e in primissimo luogo per il cristiano, non solo la vita non è "nuda"; non solo non è casuale; non solo non è fine a se stessa, ma acquista valore e significato per il fatto di essere lo strumento, e per così dire il ponte, che permette agli uomini di oltrepassare la loro finitezza e la loro fragilità per incamminarsi là dove è giusto e bello andare: verso il Creatore e verso la loro vera patria, che è quella celeste. Non si vive per vivere, e tanto meno per morire: si vive per guadagnare la vita eterna: il che è il compito, il lavoro che ci è dato, e al tempo stesso il fine e lo scopo del nostro esserci, e che occupa, appunto, l’intero arco della nostra esistenza terrena. La vita ci è data per questo: per usarla nella ricerca della verità; e la Verità suprema, che include tutte le altre, e senza la quale nulla è vero, neanche ciò che a prima vista ne avrebbe l’apparenza, è Dio. Pertanto noi viviamo per Dio e i passi della nostra esistenza sono contati affinché noi ci mettiamo in cammino verso la nostra vera patria, che non è di quaggiù. Tutto è bene quel che ci indirizza a quella meta e che ci incoraggia a perseverare, senza lasciarci scoraggiare da difficoltà o incomprensioni; tutto è male di ciò che ci distoglie, ci distrae, ci fa andare in tutt’altra direzione. A noi la scelta: se vogliamo essere abitanti della città degli uomini, dominata dall’egoismo e dalle passioni disordinate, che è, a ben guardare, la città del diavolo, oppure della città di Dio, nella quale abbandoniamo la dimensione carnale e ci volgiamo con tutto il nostro essere alla dimensione spirituale. L’uomo carnale trasforma in fango tutto ciò che incontra, e tutto ciò che incontra, per lui, è occasione e motivo di scendere sempre più in basso, sprecando la vita che gli è stata data e abbrutendosi nei vizi capitali della superbia, dell’avarizia e della lussuria. L’uomo carnale è in noi come un vestito vecchio, dal quale dobbiamo separarci; è come un peso, un fardello che ci fa camminare con fatica e ci fa tenere gli occhi bassi, rivolti sempre alla palude stagnante nella quale si aggirano inutilmente i nostri passi, come in un circolo vizioso. L’uomo spirituale è l’uomo nuovo che nasce in noi, toccato dalla grazie e risvegliato ai suoi doveri e alle sue responsabilità; l’uomo che si è liberato degli inutili fardelli, che giudica meno di niente le cose che prima lo attraevamo e dalle quali dipendevano tutte le sue speranze e aspettative, mentre ciò che prima ignorava o disprezzava ora è divenuto il centro della sua vita, un centro caldo e luminoso che gli permette di cogliere la bellezza, la verità e la giustizia anche nelle cose più umili, anche nelle situazioni più serie. Come dice magnificamente san Paolo nella Lettera ai Filippesi (3, 7-11):

Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 

In conclusione, la vita non è un valore in se stessa; non è un valore assoluto. È solo un mezzo per collaborare all’opera del Creatore: il quale vuole operai volonterosi nella sua vigna, non servi inutili o, peggio, vignaioli omicidi, capaci di a uccidere suo Figlio pur d’impadronirsene (Mt 21, 33-44):

Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?». Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: «La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?» Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà».

Tale è la parabola della civiltà moderna, nata dall’odio contro Dio da parte dell’uomo che vuol farsi padrone del creato. Gesù ha predetto come finirà: i vignaioli omicidi saranno puniti dal Signore, il quale darà la sua vigna a qualcuno che sia più degno. Senza Dio, o peggio contro Dio, l’uomo non può far nulla (cfr. Gv 15,5); mentre con Dio e compiendo la sua volontà, può produrre molto frutto…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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