I tecnici del linguaggio manipolano a piacere la realtà
9 Aprile 2020Il Nemico perfetto
10 Aprile 2020Cos’è che rende grande una società, e cosa invece ne provoca la decadenza? Qual è il fattore che permette ad alcune società umana d’innalzarsi al disopra del loro modi di vita precedenti, al disopra dei modi di vita delle società contemporanee, e di spiccare come un diamante in mezzo ad esse, come una pietra rara fra le pietre ordinarie? La domanda è già di per sé politicamente scorretta, perché presuppone che le società umane non siano tutte equivalenti; mentre non si dovrebbe neanche immaginare che ci siano delle società superiori ad altre, migliori di altre. In nome del relativismo, dell’egualitarismo e del buonismo imposti dal Pensiero Unico, ci si inibisce qualsiasi confronto, si censura in anticipo qualunque parallelismo: le società, come le culture e le religioni, sono tutte buone e belle; meritano tute lo stesso apprezzamento e lo stesso rispetto. Proibito anche solo accennare che, forse, una società di antropofagi non è precisamente la stessa cosa di una che alimenta le più alte forme dell’arte, della scienza e del pensiero; che uccidere il nemici, tagliar loro la testa e poi succhiarne il cervello, come si succhia una coppa gelato, non è una pratica che abbia pari dignità intrinseca a quella di comporre musiche religiose o inni di lode e ringraziamento al Creatore. Antropologi, psicologi, storici, perfino teologi insorgeranno tutti assieme per redarguirci e per ricordare a tutti, specie a quanti se ne fossero scordati, che ogni società e ogni atto sociale sono espressioni della vita umana e che se ci mettiamo a stabilire primati e graduatorie, certamente ricadremo in quell’orribile colpa collettiva che è stata il razzismo, responsabile dei crimini più nefandi della storia. Comunque, non lasciamoci bloccare o ricattare da queste sciocche obiezioni e proviamo a dare una risposta alla domanda che ci eravamo posta; sappiamo infatti che una cosa è il giudizio storico e un’altra, ben diversa, il giudizio morale: e se abbiamo il dovere di non disprezzare alcun popolo e alcuna società, perché senza dubbio esistono molte ragioni per cui gli uni hanno costruito le cattedrali, gli altri abitano nelle grotte che contendono agli animali feroci, questo non ci impedisce di esprimere una valutazione che prenda atto delle differenze e non le sminuisca, non le minimizzi per un malinteso democraticismo, ma anzi esalti le creazioni più alte dell’umanità, sia materiali che spirituali, e valorizzi quanto più possibile quelle società che le hanno prodotte o che, quantomeno, le hanno rese attuabili: perché abbiamo un debito verso di esse e non verso le altre, un dovere di riconoscenza verso i nostri antenati che hanno tracciato la via sulla strada delle forme più nobili e alte dell’esistenza umana, mente non ne abbiamo alcuno verso quelle che sono rimaste ferme alle forme più basse di crudeltà, idolatria e superstizione, o che hanno celebrato come valore supremo la destrezza nel procurarsi teste umane da appendere come trofei sulle porte delle proprie capanne. Ebbene, diciamo subito che a fare la grandezza di una società è la capacità di fondere il fattore spirituale, soprattutto quello religioso, con fattori "materiali" quali la laboriosità, la perseveranza, la prudenza, il coraggio, la lungimiranza.
Un buon esempio di una società – ma potremmo anche dire di una civiltà, perché il termine è più comprensivo e appropriato — la quale ha saputo armonizzare e fondere in se stessa i due aspetti, la ricerca dell’utile materiale e l’impegno per il bene comune, compreso quello delle generazioni future, è offerto dalle poleis della Grecia classica e ancor più, a nostro avviso, perché più chiara e consapevole era la dimensione spirituale, dai Comuni italiani del Medioevo.
Ci piace riportare a questo proposito una pagina dei notevole storico, oggi alquanto trascurato, Niccolò Rodolico (Trapani, 14 marzo 1873-Firenze, 19 novembre 1969), che fu anche un grande medievalista, autore di testi fondamentali come Il popolo minuto a Firenze, del 1944, e di manuali scolastici di prim’ordine per la scuola media superiore, nella quale si mette a fuoco proprio questo concetto (da: N. Rodolico, Sommario storico per i Licei e gli Istituiti Magistrali, Firenze, Felice Le Monnier Editore, 1941, vol. 1, pp. 213-214):
LE FORZE MATERIALI E MORALI DEL COMUNE.
Il Comune è creazione di quella gente, che ha dato forze d’intelligenza, di capitali, di attività nelle officine e nei mercati: sia borghesia venuta su dal popolo con il lavoro, sia nobiltà che alla borghesia si è accostata.
Il Comune italiano vive dunque e prospera soprattutto per la ricchezza del lavoro dei suoi cittadini, ricchezza che è incitamento a nuovo lavoro e a maggiore ricchezza.
Il lavoro fu passione, di cui, certamente, avarizia e ambizione furono stimoli e scopi, ma di cui furono altresì fiamme purificatrici la visione non del solo angusto orizzonte della propria vita e della propria famiglia, ma quella del lontano avvenire della famiglia e del Comune, il dovere di preparare quell’avvenire, di fornire mezzi di difesa e di potenza e di esaltare con opere d’arte il Comune e i suoi Santi patroni. Quando la ricchezza è così trasformata, essa acquista un alto valore morale.
Dall’XI al XIII secolo, nel periodo aureo del Comune, prima che i cittadini costruissero grandiosi palazzi privati (e i mezzi non facevano loro difetto), s’alzarono il Palazzo del Comune e la cattedrale. Fra il secolo XI e il XII (le date sono significative) in tutti i Comuni sorsero, come d’incanto, le magnifiche cattedrali al Dio liberatore, invocate dai marinai di Pisa e di Genova nella lotta contro i Mussulmani, al Dio purificatore, invocato dai Patarini di Milano nella lotta contro i feudatari ecclesiastici simoniaci, alla Vergine e al Santo protettore.
Il fattore materiale, e particolarmente la ricerca del profitto, è stato denigrato, disprezzato e demonizzato, per decenni, dalla cultura di sinistra, specie quella di origine marxista, in maniera assolutamente stupida e miope; e lo è tuttora, da milioni di persone le quali, cresciute in quella cultura, non sanno vedere al di là del loro paraocchi ideologico — ma sarebbe più esatto dire che non vogliono – e seguitano a votare per i partiti di sinistra con perfetta mentalità statalista, certe del loro stipendio o della loro pensione garantiti a fine mese e convinti, press’a poco, che il denaro si possa raccogliere sui rami degli alberi, come la frutta, e che se non se ne trova, ciò si debba solo alla perfidia e all’egoismo dei ricchi, che lo tengono nascosto e non vogliono dividerlo con alcuno. Si tratta di una classe a tutti gli effetti privilegiata, in quanto il suo tenore di vita non è legato agli alti e bassi dell’economia e non risente, se non in casi estremi, delle normali dinamiche sociali e produttive, neppure del blocco dichiarato dal governo per ragioni sanitarie in questo 2020, che ha messo in ginocchio gran parte di quanti hanno un partita IVA e specialmente quanti lavorano nel turismo e nella ristorazione, i settori trainanti che concorrono al PIL. Chi ne fa parte non teme, in linea di massima, la perdita del posto di lavoro, neppure in caso di gravi negligenze e perfino in caso di infedeltà amministrativa; è forte del fatto di poter timbrare il cartellino anche in mutande e poi tornare a letto, o farselo timbrare da un collega, e certa che, in caso di contestazioni, troverà un giudice pronto a dargli ragione, mentre un dipendente privato, trovandosi nella stessa identica situazione, può star certo di perdere il posto e di dover anche risarcire i danni causati all’azienda. In compenso, al suo interno si trovano proprio i più accesi moralisti e i nemici del profitto: quelli che proclamano essere cosa immorale la ricerca del guadagno e che disprezzano dal profondo del cuore l’imprenditore o il commerciante che lavorano per costruirsi una casa e per lasciare un’azienda in attivo e un po’ di capitale ai loro figli e nipoti. O forse dovremmo dire quelli che lavoravano in vista di tali obiettivi? Perché la triste realtà è che la classe dei veri imprenditori è quasi scomparsa: distrutta dall’assurdo fiscalismo dello Stato e, da ultimo, dalla criminale ingerenza della UE, con le sue norme tanto incomprensibili quanto soffocanti e coercitive. I grandi imprenditori hanno spostato i loro capitali in borsa, o magari all’estero, dove il fisco è più equo; i piccoli, dopo aver resistito per anni, per decenni, quasi senza margini di guadagno, con eroica ostinazione, uno dopo l’altro hanno dovuto abbassare le saracinesche, abbandonati dallo Stato che li spreme senza pietà, pignorati dalle banche, distrutti dalla concorrenza delle multinazionali che il governo ha fatto di tutto per favorire, mentre faceva di tutto per distruggere loro. Il simbolo di questa realtà è nella foto che mostra l’allora premier Gentiloni stringere la mano al bandito internazionale George Soros, il 3 maggio 2017, nell’atto di riceverlo come ospite ufficiale: lo stesso Soros che il Mercoledì Nero del 16 settembre 1992 aveva causato un crollo in borsa del 30% e guadagnato in un colpo 1,1 miliardi di dollari, rapinandoli dalle nostre tasche. D’altra parte è vero, come ci ricorda Niccolò Rodolico, che il fattore materiale non è tutto e che la ricerca del profitto non può essere il motore esclusivo della società. È necessario che ad esso si affianchi e s’intrecci il fattore spirituale, specie religioso. Una società che crede in Dio, che crede nella famiglia e che crede nella patria (le tre componenti della pietas dei romani) è sana e solida, progetta per il futuro, costruisce per le generazioni che verranno. Le cattedrali medievali sono sorte nella fase più splendida della civiltà comunale perché quei magnati, quei nobili inurbati, quei grandi mercanti e imprenditori e banchieri (banchieri, cioè prestatori di denaro, non ancora usurai e speculatori alla Soros) non pensavano solo alla vita terrena, ma anche alla vita eterna; e non si preoccupavano solo di saziare il corpo e gratificare il proprio io, ma avevano anche il pensiero rivolto ai loro figli e ai loro nipoti, secondo la formula ciceroniana: serit arbores, quae alteri saeclo prosint. Il male della civiltà moderna è che essa nasce esclusivamente da motivazioni materiali e, nel corso della sua parabola, sempre più si è indirizzata verso la ricerca del profitto quale fattore propulsivo fondamentale. Ad esso, poi, si è unita in misura crescente, e perfino maggiore, la ricerca del piacere: spasmodica, ossessiva, irrefrenabile. Ed eco che si sommano i tre vizi capitali dell’umanità: l’avarizia, intesa come cupiditas, cioè come smania di accumulare beni in misura illimitata; la lussuria, come ricerca di piaceri sempre più elaborati e sempre più aberranti; e la superbia, espressione dell’io che si vuol auto-affermare, senza riconoscere niente e nessuno al di là e al di sopra di se stesso, né Dio, né patria, né famiglia. Tutte le società che entrano in questa prospettiva esistenziale si avviano rapidamente alla decadenza. La civiltà moderna è la sola civiltà umana che nasce, fin dalle origini, con un tale orizzonte materiale e spirituale: pertanto la sua storia è quella di una crescente decadenza, di un abbrutimento e un imbarbarimento sempre più accentuati, anche se la decadenza è stata mascherata dietro le quinte vistose e perfino brillanti della tecnologia e dello stile di vita consumista, che sbandiera una vitalità e una salute del tutto apparenti e artificiali. Vi è in essa qualcosa di profondamente sinistro, perfino di macabro, che richiama l’immagine della banda musicale di un transatlantico di lusso, la quale continua a suonare allegre canzoni, mentre la nave imbarca acqua e, già inclinata sul fianco, si appresta a scivolare nella sua liquida e oscura tomba sul fondo del mare.
Possiamo fare qualcosa per stornare la mortale minaccia dell’autodistruzione, verso la quale ci stiamo ormai visibilmente avviando a grandi passi? Sì, certamente; anche se non abbiamo alcuna garanzia che faremo in tempo ad evitare il baratro. Quando si dice: la società moderna, in realtà bisognerebbe specificare di quali soggetti stiamo parlando. La modernità è come una malattia, come un tumore: avanza un poco alla volta e si mangia un organo alla volta, una parte dell’organismo dopo l’altra. Le prime a esser infettate sono le classi dirigenti: da esse è partita la spirale distruttiva; sono loro che, per prime, si son fatte risucchiare l’anima e l’hanno barattata in cambio del miraggio di sempre più benessere, piacere e sicurezza. Le classi inferiori si sono conservate sane più a lungo. L’isterismo collettivo che si è diffuso quando l’OMS ha annunciato la pandemia da Coronavirus, ha svelato in particolare questo aspetto: il bisogno irrazionale di una sicurezza che non appartiene alla dimensione terrena. L’uomo moderno vorrebbe la garanzia di non ammalarsi, di non trovarsi in pericolo, di non morire. Ma questo è impossibile, al di là del fatto se davvero il Coronavirus sia quel mortale flagello che i media hanno dipinto, seminando scientemente il terrore in tutte le case. Dal momento in cui la luce, anzi da quando viene concepito, l’essere umano non è, né può essere, sicuro di nulla. La mentalità moderna ha creato in lui l’illusione di aver sempre le cose sotto controllo; ma la verità è che niente e nessuno, neppure la tecnologia più sofisticata, potranno mai garantirlo contro l’incertezza del suo destino, che è ontologicamente legata al suo statuto di creatura. L’uomo è fragile, sia fisicamente che spiritualmente: può ammalarsi e morire in qualsiasi momento; e può anche perdere la propria anima e votarsi alla dannazione eterna. Questo sapevano i nostri avi, pur non essendo andati all’università e sapendo giusto leggere, scrivere e far di conto quanto basta a lavorare e mantenere la famiglia. Noi l’abbiamo scordato: questo è il nostro peccato. È da esso che dobbiamo emendarci, se vorremo costruire una vera società e non un bivacco di egoisti e mercenari. E per farlo avremo bisogno di due cose: imparare a essere umili e chiedere con fede la grazia divina.
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