Riscoprire la semplicità per tornare a esser cristiani
6 Aprile 2020Come la massoneria attua la manipolazione mentale
8 Aprile 2020I popoli, da che il mondo esiste, seguono la direzione indicata dalle loro classi dirigenti: questo è un fatto. Ed è pure un fatto che queste ultime non sempre hanno chiaro dove vogliono andare e dove vogliono condurre la società e lo Stato. Inoltre le classi dirigenti amano la stabilità, una volta che siano giunte al potere o ne godano i benefici; ma se sono insoddisfatte o se ritengono che i loro interessi richiedano una svolta rispetto al passato, non esitano a farsi rivoluzionarie e ad agitare la bandiera del cambiamento, anche il più radicale. Ma una classe dirigente che voglia essere rivoluzionaria non per raggiungere un certo obiettivo, e quindi per un periodo limitato di tempo, ma che voglia esserlo stabilmente, sarebbe una contraddizione in termini, perché la rivoluzione è cambiamento e il cambiamento non può essere permanente. Pure, ci sono stati alcuni esempi di questo tipo, anche se per ovvie ragioni sono durati pochissimo e si sono risolti in un clamoroso fallimento. La borghesia giacobina, per esempio, giunta al potere in Francia nel 1793-94, proclamò un governo rivoluzionario sino alla vittoria contro tutti i nemici, interni ed esterni, cioè un governo rivoluzionario permanente: e non stiamo parlando solo del partito giacobino, ma di tutta quella parte della classe dirigente la quale dal 1789 aveva imboccato la via della rottura radicale col passato, cioè con la monarchia assoluta e con l’Ancien Régime, e aveva sobillato il popolo ad abbattere la divisione della società per ordini e a scagliarsi contro la Chiesa, espropriando i suoi beni per finanziare una nuova classe di piccoli e medi proprietari legati al suo stesso destino. Una tale politica richiedeva l’alleanza con i sanculotti, ma gli obiettivi dei sanculotti erano diversi da quelli della borghesia giacobina, animata da una concezione dirigista dello Stato, e non poteva perciò reggersi che con il terrore permanente; ma anche questo non poteva durare all’infinito, perché la sua base di consenso sociale era destinata a ridursi giorno dopo giorno. Infatti cadde rovinosamente e tutti i suoi maggiori esponenti subirono la stessa medicina che fino ad allora avevano riservato ai loro nemici: l’eliminazione fisica mediante la ghigliottina. L’esperimento sovietico fu assai più durevole ma ebbe lo stesso risultato: esso dimostra che una classe dirigente che voglia reggersi sulla rivoluzione permanente è costretta o a rinnegare i propri ideali o a tradire le aspettative e i bisogni reali della popolazione, o entrambe le cose insieme; e che comunque non può reggersi per più di qualche decennio, a meno che venga artificialmente rivitalizzata da una minaccia esterna talmente grave da persuadere la popolazione ad affidarsi ad essa, nonostante tutto, come a un’estrema ancora di salvezza. Tale fu il ruolo svolto dall’aggressione nazista del 1940, che servì a ricompattare la società russa attorno alla dirigenza bolscevica, nonostante questa si fosse appena resa odiosa con il genocidio ucraino e con le purghe staliniane; ed è assai dubbio che avrebbe potuto seguitare a reggersi senza la minaccia radicale rappresentata dalla Germania hitleriana, capace di far sì che la dirigenza comunista potesse appellarsi ai vecchi e condannati valori patriottici e religiosi, quelli della Santa Russia, di matrice zarista e contadina.
Con l’avvento graduale della modernità, comunque, e specialmente con l’avvento del modo di produzione del moderno capitalismo, si nota un fatto significativo, in contrasto con tutto ciò che la storia ha finora prodotto: la nascita di una classe dirigente, o meglio di un’aspirante classe dirigente, per la quale l’idea della rivoluzione permanente, a trecentosessanta gradi — economica, finanziaria, scientifica, tecnologica, culturale, urbanistica, artistica, morale, religiosa — diventa un orizzonte possibile, anzi, diventa la strategia adottata per indirizzarvi le masse e per far sì che si stacchino rapidamente dai vecchi modi di vivere, di sentire e di pensare e si affidino a lei nella marcia sempre più rapida e sempre più decisa verso cambiamenti incessanti, ossia verso la religione del progresso illimitato. Letta in questo modo, tutta la storia dell’Europa e del mondo moderno e contemporaneo altro non appare che la storia di come una élite che si ritiene illuminata ha deciso d’imporre ai popoli un’incessante rottura coi precedenti modi di vita e coi precedenti sistemi di valori e di credenze. Il progresso è di per sé rivoluzionario: assunto in forti e continue dosi, crea uno stato di rivoluzione permanente. Tuttavia le società umane, finché sono tali, vale a dire finché sono ancora umane, riflettono la caratteristica fondamentale del vivere sociale: il bisogno di stabilità. Ne consegue che le società, sottoposte alla pressione continua del progresso illimitato, entrano in una spirale di tensione che si accumula senza poter essere smaltita, e perciò finisce per diventare autodistruttiva. Le società moderne sono necrofile e violente perché sottoposte a incessanti stimoli distruttivi, che non sono in grado di elaborare né di assorbire. Questo naturalmente pone un grosso interrogativo: esistono delle classi dirigenti nichiliste? Esistono, cioè, delle classi dirigenti interessate non a preservare la società, ma a spingerla verso il baratro dell’autodistruzione? Posta così, sembra quasi una domanda priva di senso: come potrebbero esistere delle classi dirigenti tanto stupide o masochiste? A meno che la distruzione della società non sia il compito che esse si sono assegnate o che qualcuno ha assegnato loro in vista d’un fine ulteriore. Quale? Proseguendo nel delineare questo scenario ipotetico, bisogna immaginare che a determinate condizioni, nel quadro della tarda modernità, esistano delle forze interessate non a proteggere e sviluppare la società, ma a sfruttarla fimo a distruggerla; delle forze così ricche e potenti da ricompensare le classi dirigenti dei singoli Paesi facendo di esse il proprio strumento e quindi premiandole con ricchezze e carriera, in un paesaggio sempre più desolato di rovine e disperazione. È concepibile un simile scenario? Purtroppo sì. Se si ammette che oggi, nell’era della globalizzazione anche il potere si è globalizzato, ossia si è concentrato in pochissime mani e si è esteso fino a controllare tutta l’informazione, tutta la politica, tutti i sistemi scolastici, giudiziari e sanitari dei vari paesi, e sta lavorando per accentrare la suprema autorità in un organismo supernazionale ultracentralizzato, il quale deciderà praticamente ogni aspetto della vita pubblica e privata degli abitanti della terra, dalle vaccinazioni obbligatorie all’eutanasia di Stato, allora è verosimile che le classi dirigenti si trasformino in gruppi di sottopotere al servizio del potere mondiale vero, e che il loro compito passi da quello di organizzare la vita delle rispettive società a quello di servire fedelmente gl’interessi di quelli che le hanno messe in posizioni privilegiate dalle quali deriva il loro benessere, anche se ciò avrà luogo in un quadro sociale d’impoverimento generalizzato.
In questi primi decenni del terzo millennio il quadro complessivo che abbiamo delineato è già in una fase piuttosto avanzata e quindi le cosiddette classi dirigenti, che a questo punto dovrebbero chiamarsi, più esattamente, classi parassitarie adibite al controllo della popolazione in conto terzi, mostrano in maniera più spiccata la tendenza nichilista cui sono ispirate le loro azioni; e ciò è particolarmente evidente nei cosiddetti intellettuali, divenuti ormai aperti corteggiatori del vizio, del disordine e della morte, cioè del nulla. Tuttavia c’è stato un tempo, diciamo fra il XVIII e il XIX secolo, in cui le classi dirigenti si presentavano ancora come fautrici di ideologie ottimistiche e additavano ai popoli i vantaggi e le meraviglie del progresso, promettendo una diffusione sempre più ampia del benessere, delle comodità, del tempo libero e del godimento di diritti in continua espansione. Se richiedevano sacrifici ai cittadini, li presentavano sempre come atti necessari per raggiungere quei fini; mentre oggi le richieste di sacrifici sono aumentate a dismisura e la loro giustificazione non è più il benessere, ma la difesa della vita e di poco altro. Ora quel tempo è finito, eppure ci muoviamo ancora, per forza d’inerzia, all’interno di quel paradigma: il paradigma della crescita illimitata. E non è che esso sia stato accettato ovunque con sentimenti di entusiasmo da parte delle popolazioni; anzi, il più delle volte esse hanno cercato di resistere, sia in senso fisico che psicologico; ci son volute parecchie generazioni per piegarne la resistenza. La storia dell’Occidente moderno è la storia di questa battaglia di retroguardia che le popolazioni hanno giocato, senza speranza di vincere, contro le forze della modernizzazione: il grande capitale finanziario e la rivoluzione tecnologica. Dalle azioni di sabotaggio dei luddisti, nell’Inghilterra del primo ‘800, fino ai gilets jaunes francesi dei nostri giorni, sempre le classi lavoratrici, e spesso anche i ceti medi, almeno nella loro componente inferiore, hanno cercato di opporsi. Non parliamo poi della resistenza spirituale offerta soprattutto dalla Chiesa cattolica, la quale si è protratta, fra alti e bassi, fino all’epoca del Concilio Vaticano II; dopo di che è crollata di schianto e anche la Chiesa si è arresa al mondo moderno e alle forze della dissoluzione.
Gli storici, qua e là, hanno registrato il fatto che nella modernità la regola è che le classi dirigenti hanno imposto nuovi modi di vivere, di lavorare, di pensare, alle popolazioni; e che queste hanno offerto come minimo una resistenza passiva, restando aggrappate ai vecchi sistemi di vita, la piccola azienda a conduzione familiare, la famiglia tradizionale, la pratica religiosa, il senso del risparmio, il rispetto per il lavoro onesto e ben fatto, ecc. A questo proposito vogliamo citare una pagina che ci ha colpito e che parla dello sviluppo economico nella Francia della seconda metà del XX secolo; la riportiamo quasi integralmente affinché il lettore ne possa comprendere bene il contesto (da: Georges Livet e Roland Mousnier, Storia d’Europa; titolo originale: Histoire générale de l’Europe, vol. III, L’Europe de 1789 à nos jours, Paris, Presses Universitaires de France, 1980; traduzione dal francese di Maria Novella Pierini, Il Novecento, Bari, Laterza & Figli, 1983, vol. 3, pp.126-127):
Ma la Francia gaullista, nonostante i suoi successi in campo nucleare, non ha mezzi all’altezza della politica che intende condurre. Il Terzo mondo latinoamericano, africano o arabo non ha bisogno di buone parole, ma di fabbriche, di prodotti industriali, di tecnica. Ora, la Francia non ne produce a sufficienza. L’industria francese, pur essendosi sviluppata sotto la IV Repubblica, resta largamente in ritardo rispetto all’industria tedesca che, nel 1960, ha un potenziale tre volte maggiore del suo. Il governo manda collaboratori, ma — a causa del sistema universitario e scolastico, ereditato dai Gesuiti — la Francia sforna il triplo di letterati rispetto agli scienziati e ai tecnici. Solo gradatamente il Generale si renderà conto dei limiti economici del suo paese. C’è sì stata in Francia una trasformazione, provocata da un incremento della natalità, dalla pianificazione tecnocratica suggerita da Jean Monnet e dai suoi collaboratori e dalla volontà di alcuni ministri dell’Economia, come E. Faure, nel 1953-1954; ma solo a partire al 1964 emerge davvero la volontà di accelerare lo sviluppo economico. Presentando il IV Piano, nel 1964, il Generale parla della pianificazione come di "un dovere bruciante". Sarà però soprattutto la politica del suo Primo Ministro, Georges Pompidou, e di Michel Debré, ministro degli Affari economici, a impegnare la Francia, dal gennaio del 1966, in una via decisamente nuova. Georges Pompidou — che conserverà tale volontà fimo alla sua morte — sostiene che la Francia non potrà "mantenersi all’altezza del suo ruolo" se la sua industria non raggiungerà i livelli di quella tedesca. Michel Debré fornisce i mezzi, spinge alla concentrazione delle piccole e medie aziende francesi e riesce a mettere insieme i nuclei centrali, ancora deboli, ma già apprezzabili: Péchiney-Uguine-Kuhlmann, Saint-Gobin-Pont-à-Mousson, Thomson-Brandt; costringe le banche e le compagnie nazionali di assicurazioni a raggrupparsi. Ma, nel 1979, né nell’industria chimica, né in quella elettronica, né nella siderurgia le aziende di punta sono francesi. Bayer è quasi due volte più forte di Péchiney e Rhône-Poulec messe insieme. Siemens equivale all’incirca a tutta l’industria elettronica francese, ecc. Del resto, il conservatorismo del padronato francese, corrispettivo del sindacalismo anarchico-rivoluzionario, non stimola il progresso. Come ha detto A. Sanguinetti, l’industria francese, in larga misura, "è artigianato all’ennesima potenza". È vero che in Francia, come in Italia e in Spagna, – fino al momento in cui sono intervenuti lo Stato, gli Americani e l’Opus Dei — il vecchio fondo cattolico e contadino si è combinato con quello socialista ed egualitario nel rifiutare il motore dello sviluppo: il profitto. In Francia, lo sviluppo economico — ciò è incontestabile — è stato, in definitiva, imposto a una popolazione relativamente arcaicizzante. È sicuramente, questa, una delle ragioni per cui la crisi del 1968 sarà tanto violenta in Francia. Tali elementi pesano su qualunque efficace politica di costruzione europea.
Il passaggio che ha attratto la nostra attenzione è questo: lo sviluppo economico è stato imposto a una popolazione relativamente arcaicizzante. Non si poteva dir meglio con meno parole. In Francia, come in Italia, la classe dirigente ha imposto un vasto processo di ristrutturazione tecnocratica. Poi si citano il cattolicesimo, la tradizione scolastica gesuita, la mentalità conservatrice degl’imprenditori e quella anarchica degli operai… Benissimo, ma queste sono le forme che ha preso la resistenza, non le cause. Il fatto è che le popolazioni hanno subito la modernizzazione e, per quanto possibile, hanno provato a resisterle. E la scelta oggi è proprio questa: o si sta coi popoli, o con la grande finanza.
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