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Riscoprire la semplicità per tornare a esser cristiani

La grande e amara verità che l’emergenza del Coronavirus ha messo a nudo, con spietata chiarezza, è che non solo l’Europa ha cessato, da tempo, di essere cristiana (questo infatti lo sapevamo già), ma che gli stessi cristiani hanno smesso di essere tali e che in nulla si sono distinti dagli altri nel vivere un momento così difficile e carico di minacciosi nuvoloni per il futuro. In altre parole, dobbiamo prendere atto che la cristianità, storicamente parlando, è arrivata al capolinea: è morta, e, se mai ne sentiremo ancor parlare, sarà perché da alcuni semi, oggi nascosti, avverrà la sua rinascita e non perché qualcosa possa sopravvivere nelle forme odierne. La realtà, più franca e irriverente delle nostre ipocrisie, ci ha messo di fronte allo stato delle cose: nessuno di noi può dirsi ancora cristiano; e se qualcuno si ostina a farlo, mente o s’inganna. La fede cattolica si è spenta nei nostri cuori, e non da ieri, ma da molto tempo: da prima che nascessimo. Come una pianta rara e delicata, essa aveva bisogno di grandissime cure: cure che i nostri avi le hanno sempre prodigato, ben sapendo che quello era l’unico modo per assicurarsi di tenerla in vita e rischiarare, con lei, le loro esistenze; ma noi, cresciuti alla scuola della svolta antropologica e nel clima della rivoluzione conciliare, ci eravamo scordati una verità tanto semplice, e l’abbiamo lasciata morire lentamente, con piena indifferenza.

Questi mesi senza la santa Messa, senza la santa Pasqua, senza il Sacrificio Eucaristico, con le chiese chiuse ai fedeli e con un clero improvvisamente impaurito e latitante, dopo che ci aveva rintronato gli orecchi con il ritornello dell’accoglienza dei migranti e della vicinanza al prossimo bisognoso, sono i segni tangibili della morte del cattolicesimo. La Chiesa, poi, era morta ancor prima: non di morte naturale, ma assassinata dal falso clero traditore e modernista, affiliato alle logge massoniche e prostrato davanti agli interessi del mondo, specialmente della grande finanza. La Chiesa è morta da quando ha rinunciato a dire con forza ciò che andava detto, ad annunciare dai tetti la verità del Vangelo; da quando, per non urtare le suscettibilità del mondo, ha incominciato a tacere sul divorzio, poi sull’aborto, poi sulle unioni e le adozioni omosessuali, infine sull’eutanasia. Quando un clero "cattolico" arriva a tacere su queste cose, o, peggio, a giustificarle, e al tempo stesso non si occupa d’altro, almeno a parole, che dei migranti, del clima e dell’ambiente, ciò significa che di cattolico non ha più nulla, neppure l’ombra. E che nel Palazzo apostolico, o meglio nella Casa Santa Marta, non abita più il vicario di Cristo, ma il servo dell’Anticristo. Un uomo talmente superbo e talmente luciferino da voler impartire una grottesca benedizione Urbi et Orbi al centro di una Piazza San Pietro completamente vuota, e sempre senza inginocchiarsi, sempre senza un briciolo di timor di Dio, ma seguitando a proferire bestemmie ed eresie, imperterrito, incorreggibile. Da ultimo, contro la Vergine Santissima: che non è, a suo dire, Corredentrice e nemmeno Regina, ma solo una donna, una donna qualsiasi, una donna che dubitava; una donna che, se avesse educato meglio suo figlio, non lo avrebbe poi visto morire sulla croce. Ma si possono dire tali cose e non suscitare una rivolta generale da parte dei cattolici? Ebbene, il fatto che non c’è stata alcuna rivolta e che solo pochissimi hanno rilevato la sconvenienza, la perfidia e la malvagità di quelle parole è l’ennesima dimostrazione del fatto che la Chiesa è morta, che non esiste più — sempre, beninteso, nella sua componente terrena e visibile. Se nella Chiesa vi fosse stata ancora un po’ di vita, parole così ignobili non sarebbero state tollerate neppure se a pronunciarle fosse stato l’ultimo prete di campagna, l’ultimo diacono o catechista. Ora le dice colui che viene chiamato papa, e non succede nulla. C’è bisogno di altre prove?

Ci sembra quanto mai attuale una pagina del libro di Girolamo Savonarola Della semplicità della vita cristiana, III, 4 (antico volgarizzamento di Girolamo Beniveni, Libreria Editrice Fiorentina, 1925, pp. 60-63; da parte nostra ci siamo permessi qualche aggiornamento lessicale):

Già di sopra abbiamo detto che dalla diversità delle forme nasce la diversità delle opere. Con ciò sia che ogni forma abbia la sua propria inclinazione ed operazione. Inclinandosi dunque l’uomo cristiano per grazia ad essa semplicità, la quale lui si sforza di fare dentro da sé, perfetta, seguita da questa forma, come è detto, la inclinazione alla semplicità esteriore. Come nessuna cosa dunque può avere la forma della gravità sena inclinazione a discendere al basso, così non può ancora alcuno uomo avere la grazia e la semplicità interiore senza la inclinazione alla semplicità esteriore. E così come e’ si dimostra in quella cosa non esser forma di gravità, la quale naturalmente non si dirizza al centro, cos’ parimente si dimostra colui che non ha la forma di alcuna cosa, facilmente si dimostra che e’ non ha ancora le opere, le quali propriamente s’appartengono a essa ad essa cosa, come verbi grazia quello che non ha forma della vite non fa delle uve, e chi non ha l’anima intellettiva non ha ancora essa virtù di discorrere e intendere mediante idee astratte. Colui dunque il quale non ha la forma della cristianità, la quale è la grazia insieme con la semplicità, non può viere cristianamente.

Oltre a questo, essendo l’anima nostra una secondo la sua essenza, e fondandosi tutte le sue potenze in essa essenza, quando lei, cioè essa anima nostra, si dirizza, mediante la operazione d’una delle sue potenze, in alcuna cosa molto veementemente, o non può allora secondo le altre sue potenze operare, o almeno si debilita e rimette la opera di quelle; come è, verbi grazia, quando uno con grande attenzione alcuna cosa riguarda, non molto bene ode allora quelle cose che si dicono, né così parimente bene opera secondo le altre sue potenze e virtù. E la principale operazione del cristiano è la orazione e la meditazione, o sì veramente contemplazione delle cose divine, le quali ricercano una grandissima attenzione sì per la altezza della divina eccellenza, sì ancora per la debolezza del lume nostro.

Queste opere dunque non può fare quello uomo il quale è disordinatamente occupato e veementemente intento nelle cose estrinseche. E tale è colui il quale non ama la semplicità esteriore o non vive semplicemente. Poiché chi vuole avere belle case, belle vesti, bei libri, e così tutte le altre masserizie, bisogna ancora che egli abbia molti danari, e moti danari non si possono acquistare né acquistati conservare, senza fatica, studio e sollecitudine grandissima, come è noto a ciascuno. Onde seguita che tali non possono essere dediti ed intenti alle orazioni e alle meditazioni divine, e però non possono veramente vivere da cristiano. Ma se l’uomo cristiano il quale ama la semplicità esteriore e la seguita, si occupa per amore di Dio ordinatamente nelle cose estrinseche, come è in sostenere la sua famiglia, o sì veramente li poveri, o in governare le cose della chiesa a lui commesse, benché questo tale secondo quello detto evangelico: "Marta, Marta, tu sei sollecita e ti occupi circa a più cose" si distragga alquanto dalla orazione e dalla quiete della sua mente, non però in tutto da quella sì aliena, anzi, ordinando ogni sua opera ad onore di Dio, sempre tende la sua mente e si dirizza in Dio, almeno abitualmente. Ma se l’uomo ama e cerca le cose a lui non necessarie, già da Dio mediante il peccato si rimuove, mentre che disordinatamente con lo affetto s’accosta ed inclina alla creatura, distraesi ancora per la occupazione dello intelletto e degli altri sensi, e così distratto non può in verità dare opera alla orazione e alla meditazione né vivere cristianamente.

Per questo dunque i padri nostri, così nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, e così quelli del secolo, come i religiosi, hanno amata essa semplicità, seguitandola anche con le opere. E però esercitandosi liberamente nelle orazioni e nelle contemplazioni, divennero uomini santi e divini e familiari agli angeli e a’ beati.

E di qui è che molti filosofi ancora tirati dalla ragione naturale, per poter meglio dare opera alla contemplazione della verità, hanno amata e seguita essa semplicità di vita. La quale perché noi per lo opposto non amiamo in questi tempi presenti, non diamo ancora opera alle orazioni e alle contemplazioni, per essere troppo occupati in queste cose esteriori. E però oggi non si vede alcuno che abbia familiarità con Dio, anzi pare cosa incredibile che alcuno sia illuminato di quelle cose che si hanno a fare da Dio in quel modo familiare nel quale sono stati illuminati i santi Padri.

La vigorosa predicazione di fra’Girolamo Savonarola è particolarmente adatta ai tempi che stiamo vivendo, perché esistono forti analogie fra la nostra condizione spirituale e quella dei fiorentini alla fine del XV secolo. Anche noi, come loro, siamo stati investiti, ma da molto più tempo di loro, dal fiume allettante, ma velenoso, della modernità. Abbiamo cominciato ad adorare le cose materiali e a dedicare ad esse tutte le nostre cure, tutti i nostri pensieri; a Dio abbiano riservato l’ultimo posto, e alla fine, neppure quello. Ecco perché non siamo più cristiani: perché abbiamo smesso di vivere da cristiani. Il cristiano non è colui che si professa tale; e non è colui che riceve il Battesimo e gli altri Sacramenti, ma poi vive alla sua maniera, pensa alla sua maniera, agisce alla sua maniera, senza minimamente preoccuparsi della legge del Signore, né avere alcun timore di Dio. Ma cosa significa vivere da cristiani? Ce lo ricorda fra’ Girolamo: vivere come colui che vuol piacere a Dio e fare la sua volontà, adottando l’abito della semplicità nelle cose esteriori, potremmo anche dire l’abito dell’umiltà, e affidandosi all’aiuto soprannaturale della grazia, per la sua vita interiore. Se si ha l’anima agitata da passioni disordinate; se si è turbati da mille appetiti e da mille desideri, tutti rivolti alle cose e alle creature e non al Creatore, non si può piacere a Dio e non si può essere cristiani. Il cristiano si riconosce dalla sua semplicità, ovvero dalla sua umiltà: la sua vita è sgombra da ambizioni terrene, egli non cerca la ricchezza, il potere, il denaro, né è tormentato dalla lussuria: tutte queste cose proiettano l’uomo nella dimensione inferiore, animalesca, e lo allontanano inesorabilmente da Dio. Per essere vicini a Dio, per udirne la voce, per riceverne la grazia, bisogna far pulizia entro se stessi: bisogna cacciar fuori ciò che a Lui non è gradito e spalancare le porte a ciò che a Lui avvicina. Le opere materiali sono lo specchio dell’anima: e se si è costantemente affaccendati nelle cose del mondo, se si è proiettati verso il godimento di beni terreni, se si brama ardentemente ciò che appartiene alla dimensione carnale, non si può essere in grazia di Dio, non si può udire la sua voce, non si può fare la sua santa Volontà. In fondo, è molto semplice: si vive secondo ciò che si considera importante, perché là dov’è il tuo tesoro, ci sarà anche il tuo cuore. In altre parole, non ci si può improvvisare cristiani: lo si diventa mediante una profonda conversione di vita, che si realizza nel corso della santificazione quotidiana. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto ci avvicinano o ci allontanano da Dio: ci si avvicina se si cerca di prendere Lui quale modello di vita e di fare ciò che Lui vuole; ci si allontana se si vuol piacere a se stessi, o agli altri uomini, e se si seguono le mode e i desideri del mondo.

Sant’Agostino ci ricorda che esistono due modi di vivere: secondo Dio o secondo l’uomo. La città terrena, non ci s’inganni con vani ragionamenti, è di fatto la città del diavolo: perché quando l’uomo vuole vivere non secondo l’amore di Dio, ma secondo l’amore di sé, rompe l’alleanza con Dio e diventa suo nemico. Come scrive il grande santo di Ippona nel De Civitate Dei (XIV, 1, 4):

… non esistono che due sole società umane che secondo le nostre scritture, possiamo giustamente chiamare le "due città". L’una è costituita dagli uomini che vogliono vivere secondo la carne, l’altra da quelli che vogliono vivere secondo lo spirito…

Quando l’uomo vive secondo l’uomo e non secondo Dio è simile al diavolo; perché neppure l’angelo doveva vivere secondo l’angelo ma secondo Dio, per perseverare nella verità e parlare la verità dalla verità di Lui e non la menzogna dalla propria menzogna… Quando pertanto l’uomo vive secondo la verità non vive secondo se stesso ma secondo Dio. È infatti Dio che disse: "Io sono la verità" (Giov. 14,63). Quando invece vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo, e non secondo Dio, vive senza dubbio secondo la menzogna; non perché l’uomo sia per se stesso menzogna, essendo suo autore e creatore Dio che non è certo autore e creatore di menzogna, ma perché l’uomo fu creato così retto da dover vivere non secondo se stesso, ma secondo Colui da cui fu creato, tale da dover far piuttosto la volontà di Lui che la propria…

La tristezza del mondo moderno è tutta qui: nel tradimento che l’uomo ha consumato, nella propria coscienza, verso il suo Creatore. La civiltà moderna è la civiltà della menzogna e l’uomo moderno è l’autore e la vittima di tale menzogna: perché è menzogna che l’uomo possa vivere secondo la propria volontà, mentre il suo destino si realizza pienamente solo adeguandosi a Dio, che è la Verità.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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