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Uomini piccoli e uomini grandi

Ci sono uomini grandi e uomini piccoli: una società ben strutturata si ispira ai primi e non concede troppo spazio ai secondi. Gli uomini grandi sono quelli che sanno capire, che sanno perdonare, che sanno ricordare, ma senza odio; e che quando chiedono giustizia, non cercano di mascherare una loro sete di vendetta, di natura privata o, peggio, di natura ideologica. Gli uomini piccoli hanno sempre in bocca la memoria di un popolo e la giustizia da applicare per rispetto delle vittime, ma in realtà hanno memoria solo per una parte del passato, mentre nascondono accuratamente quella parte che non si adatta ai loro schemi politici; e quanto alla giustizia, non è che un paravento per sfogare la loro brama di vendetta. Gli uomini grandi e gli uomini piccoli sono normalmente mescolati nella vita di ogni giorno, e il cittadino distratto può perfino confonderli: è nei momenti drammatici che la loro differente statura emerge con chiarezza, perché quelli sono i momenti della verità, quando cadono i veli e le persone appaiono per ciò che sono realmente, senza poterlo nascondere. Ora, non c’è momento più drammatico, nella vita di un popolo, della guerra civile: è la sciagura suprema, perché in essa emergono gli istinti più bassi e si compiono i misfatti più barbarici, sentendosi legittimati a farli, anzi ammantandoli di nobili ideali. Perciò osservando le azioni degli uomini in tempo di guerra civile, e ancor più le parole di quelli che rievocano la guerra civile, ma a distanza di sicurezza, si può cogliere perfettamente la differenza che corre fra uomini grandi e uomini piccoli, come se fosse una differenza fisica, percepibile a occhio nudo. Ma per non procede in maniera astratta, facciamo due esempi concreti.

Carlo Silvestri (Milano, 8 luglio 1893-ivi, 4 febbraio 1955) fu un coraggioso giornalista socialista che condusse una durissima campagna di stampa contro Mussolini dopo il delitto Matteotti, fu picchiato e ridotto quasi in fin di vita, nonché condannato al confino. Tornato a casa, si riavvicinò parzialmente al regime, restando sempre socialista (ma anticomunista e filo-cattolico) e si adoperò a favore di Gramsci, affinché venisse trasferito in una clinica; e dopo l’8 settembre a favore di decine di antifascisti. Divenuto amico personale di Mussolini, cercò di convincerlo a cedere pacificamente il potere ai socialisti e ai repubblicani, in cambio di garanzie per le famiglie dei fascisti e della ritirata ordinata dei tedeschi. Sforzo che venne frustrato non dal rifiuto del Duce, che anzi era favorevole, ma dall’accanimento dei partigiani comunisti e dalla volontà di Churchill di evitare che egli venisse arrestato e processato, perché in tal caso avrebbe potuto difendesi esibendo documenti per lui compromettenti, fra i quali la dimostrazione che furono i governi britannico e francese a spingere l’Italia nelle braccia di Hitler e, nel caso della Francia, addirittura a sollecitare l’entrata in guerra italiana per non dover soggiacere totalmente alla brutale occupazione tedesca (altro che pugnalata alla schiena!). E così come nel 1943-45 si era prodigato per spegnere le fiamme della guerra civile, così a guerra finita si prodigò per spegnere le fiamme dell’odio e della sete di vendetta: ignorato da tutti e guardato con sospetto e ostilità da molti, quasi fosse stato un traditore, mentre fu uno dei pochissimi italiani che non perse mai di vista la cosa essenziale: l’amore per l’Italia e la passione per la sua salvezza, senza specificazioni ideologiche. Ebbene Carlo Silvestri fu un uomo veramente grande: anche se i suoi libri sono oggi pressoché dimenticati, da essi emerge il ritratto di un gigante, che spicca di quattro spanne sopra una folla di nani ringhianti e rancorosi.

Scriveva Carlo Silvestri nel suo bel libro, che avrebbe meritato di essere adottato nelle scuole medie quale testo di educazione civica, Contro la vendetta, in una pagina dal sapore addirittura profetico, se si pensa che fu scritta poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in un mondo ancora così diverso da quello odierno (Milano, Longanesi & C., 1948, pp. 25-27):

La faziosità che ci dilania e minaccia di dilaniarci vieppiù in un tempo assai prossimo se non troviamo la volontà di liberarcene, incomincia da questo nostro rifiuto di corresponsabilità [con il passato], da questo crederci con le mani pulite, che ci fa di casa con i farisei di tutti i tempi e di tutte le ideologie, i quali per difendere la loro granitica superiorità, devono prendersela con gli altri, inventare o ingrandire le colpe degli altri, caricarli di ogni peso per scaricare se stessi. "Guai a voi che mettete sulle spalle degli altri dei pesi che non vi provate nemmeno a toccare con un dito".

Le rimanenti tristi imprese che lo spirito fazioso fomenta, quali il chiudere la bocca degli avversari, il bastonarli, il bandirli, il farli fuori… sono la logica conseguenza di questo crederci perfettamente a posto, di non aver nulla da rimproverarci né di fronte a Dio né di fronte agli uomini, di avere in tasca la ricetta o il segreto della felicità, a breve o a lunga scadenza. Sono gli uomini che parlano di religione e di Dio, sono capaci di sentenziare che tali fedi "dureranno finché l’umanità avrà raggiunto un tale grado di perfezione e di sviluppo da sentire il bisogno di sostituire tale elemento spirituale con un altro più realistico e più conforme alla sua nuova struttura così mentale che fisica".

Pochi si accorgono che la faziosità rende perfino imbecilli e finirà per avvilire la coltura.

Fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo (come ci fu un antifascismo spregevole così c’è un anticomunismo idiota), sono momenti o aspetti dello spirito fazioso, che a fatica può essere rimosso e superato da chi non sente la salvezza sul piano della redenzione, ma dell’accusa, della condanna e della vendetta.

Il male, qualsiasi male, anche il male sociale non è fuori dell’uomo, e chi giudica e colpisce l’uomo senza pietà, invece di colpire le sorgenti del male, inaridisce le sorgenti del bene. "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra". "Non sono venuto per giudicare ma per salvare".

L’umanità non può vivere e respirare fuori di quest’aria che il socialismo italiano, alle origini, aveva fatta sua, comunicando direttamente col Vangelo (la propaganda di Camillo Prampolini non fu forse definita del "socialismo evangelico"?).

Oggi siamo nel clima arroventato dell’implacabilità, della spietatezza, dell’arsura. Il "forse" non è più pèarola d’uso, tutti sono sicuri , terribilmente sicuri, di ciò che pensano, di ciò che fanno,. Nessun dubbio li sfiora: sono categorici come i filosofi che hanno perduto il senso del mistero e del’adorazione: freddi e precisi come una macchina calcolatrice.

Se io sono a posto e gli altri no: se la causa di ogni male è il fascismo o l’antifascismo, il comunismo o l’anticomunismo, uno dei due deve sparire. Quando le teste hanno ricevuto tale quadratura, quando il nominalismo moralistico soppianta l’umanesimo cristiano, la "pietas" cristiana, la tolleranza è un delitto.

Troppi occhi si vergognano di piangere e di scorgere l’uomo qual è, di sentire battere il proprio cuore vicino al cuore dell’altro, questi nostri poveri cuori di carne, che hanno sete di compatimento, di perdono, di compassione, d’amore. Al posto dell’uomo moti non vedono che insegne, tessere, simboli, rivendicazioni, colpe che si giudicano indiscriminatamente e senza pietà.

Non è più l’uomo che si muove, cammina, canta, ma la classe, la massa che si muove, ondeggia, straripa, invade urla, schianta. Il dolore è un’ingiustizia sociale, una rivendicazione. In terra cristiana si diceva: "c’è chi espia e redime". In terra marxista: "qualcuno deve pagare". E quell’uno è già designato; "ed è bene che egli muoia perché tutto il popolo sia salvo".

L’epoca disumana è incominciata.

Franco Cuomo (Napoli, 22 aprile 1938-ivi, 23 luglio 2007) è stato un giornalista antifascista, benché il fascismo sia morto e sepolto quando ancora portava i pantaloni corti e quindi non abbia fatto un giorno di confino, come invece è toccato a Silvestri. Romanziere, saggista, autore teatrale, collaboratore della RAI, il suo nome è certo assai più conosciuto al pubblico di quello di Silvestri.

Ed ecco cosa scriveva Franco Cuomo nel suo libro I dieci. Chi erano gli scienziati che firmarono il "Manifesto della razza" (Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005, pp. 15-17 e 18-19):

Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari. Chi sono? Dieci nomi che sembrano non dire niente a nessuno, ma che sarebbe ingiusto seppellire sotto un velo di silenzio, come vorrebbe una certa tendenza all’oblio su alcuni dei più tragici e indimenticabili (nel senso lessicale del termine: da non potersi dimenticare) eventi del ventennio fascista. Perché sono i nomi dei dieci "studiosi" — medici, biologi, naturalisti docenti universitari — che sottoscrissero il "Manifesto della razza", noto anche come "Manifesto degli scienziati razzisti", preambolo e fondamento delle leggi razziali del 1938. Sono i nomi cioè di coloro che elaborarono d’intesa con il regime (o pedissequamente trascrissero, per propria convenienza) la sintesi dottrinaria del razzismo fascista. Sono i nomi dunque di coloro che legittimarono e favorirono la deportazione in Germania di ottomila ebrei italiani, oltre mille dei quali catturati nella sola retata effettuata a Roma il 16 ottobre 1943, motivando con argomentazioni pseudoscientifiche la persecuzione di una comunità di quarantatremila cittadini, sottoposti a una caccia spietata, nonché espropri e vessazioni d’ogni genere in quanto ebrei.

Duemila di questi ebrei costretti alla clandestinità, ferocemente braccati sul suolo italiano, entrarono nella Resistenza, contribuendo così all’abbattimento della dittatura che li voleva morti con le loro famiglie per null’altro che per un vano quanto aberrante pregiudizio. Cinque medaglie d’oro alla memoria testimoniano il loro contributo di sangue alla liberazione, valutabile in un centinaio di caduti, fra i quali Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, e lo scrittore Leone Ginzburg.

Viene da chiedersi come mai tanto dolore, tanto sangue non sia stato ripagato dopo la fine della dittatura e il ritorno alla democrazia con una giusta pena per coloro che ne erano stati la causa. Viene da chiedersi perché addirittura i perseguitati abbiano dovuto subire l’oltraggio di vedere i promotori della loro persecuzione reintegrati nelle cariche e nei privilegi di un tempo – non solo impuniti, ma celebrati in molti casi dalla toponomastica stradale delle città natali e altre onorifiche iniziative a loro nome.

Viene da chiedersi quali connivenze, quali legami, quali rapporti di correità possano aver favorito una simile omissione.

Forse la risposta è una solo. L’Italia non ha avuto un suo Wiesenthal. (…)

L’Italia non ha avuto un suo Simon Wiestenthal, non ha avuto qualcuno che con metodica determinazione si dedicasse all’identificazione e alla cattura di coloro che (autori diretti, complici o ispiratori) causarono morte, sofferenze e sterminio al popolo ebraico e a chiunque non rientrasse nei canoni prescritti dai loro deliranti codici selettivi. Così, a differenza dei criminali nazisti — medici inclusi, a cominciare dal terrificante dottor Mengele, autore di atroci esperimenti sui bambini per il "miglioramento della razza" — gli zelanti promotori delle leggi razziali italiane non dovettero nascondersi, non dovettero rifugiarsi nell’anonimato di una falsa identità, non dovettero emigrare in Sudamerica. No: conservarono i loro nomi, i privilegi e perfino le cariche fino allora ricoperte nelle università e negli istituiti di ricerca.

Franco Cuomo, dunque, deplora il fatto che l’Italia non abbia avuto il suo Wiesenthal: non una legittima autorità inquirente, che agisce a nome del popolo e per conto dello Stato, ma un soggetto privato che si auto-nomina pubblico ministero e giudice al tempo stesso. Equipara l’Italia fascista alla Germania nazista, come se non vi fosse alcuna differenza fra le due; tace intenzionalmente, o forse ignora bellamente, che l’Italia fascista, finché esistette, cioè fino al 25 luglio 1943, offrì generosamente rifugio a migliaia di ebrei francesi, iugoslavi, ungheresi, greci, così come, prima della guerra, aveva accolto migliaia di ebrei tedeschi, austriaci e cecoslovacchi, e che Mussolini approvò tale politica dei prefetti e delle autorità locali anche a costo di irritare profondamente il suo alleato Hitler. Gli sembra intollerabile che i firmatari del Manifesto della Razza non siano stati equiparati agli aguzzini di Auschwitz e arriva a lamentarsi che, a guerra finita, la vendetta, anzi, per carità, la giustizia, non abbia colpito gli infami con sufficiente durezza. Evidentemente, le decine di migliaia di persone assassinate dai partigiani a guerra ormai finita, in nome dell’antifascismo e della giustizia popolare, per lui non sono state abbastanza. Ma, si potrebbe obiettare, egli non parla di questo: si limita a puntare il dito contro quanti collaborarono alla persecuzione degli ebrei. A questa obiezione è facile rispondere che se egli non fa alcuna distinzione fra quanti, in Italia, sottoscrissero le leggi razziali e quanti, in Germania, materialmente si macchiarono di genocidio, non si vede perché noi dovremmo distinguere fra le sue intenzioni di giustizia sommaria e quelle dei "gloriosi" partigiani comunisti che ammazzarono uomini, donne e bambini (vedi il caso del seminarista Rolando Rivi o della povera Giuseppina Ghersi). Il fatto è che uomini come lui parlano di giustizia per coprire la loro sete di vendetta: si nascondono dietro il paravento di un dovere civico da compiere per dissimulare il loro giustizialismo giacobino che se la prende coi colpevoli, veri o presunti, materiali o morali, di una sola parte politica: quella che essi odiano. Tacciono, infatti, ad esempio, sulle foibe. E questa politica dell’odio ha fatto sì che ancora oggi l’A.N.P.I. riceva sostegno finanziario e riconoscimento giuridico dallo Stato, laddove, essendo ormai morti e sepolti tutti i protagonisti di quella stagione terribile che è stata la guerra civile del 1943.45, non può esservi altra ragione di ciò, se non fomentare odio all’infinito nelle nuove generazioni, strumentalizzandole senza scrupoli, sempre sotto la nobile bandiera dell’antifascismo. Gli uomini piccoli si riconoscono da questo: non solo hanno sempre bisogno di odiare qualcuno, ma non hanno neppure il fegato di dirlo apertamente e si fanno scudo del dovere di giustizia verso le vittime. Non si sa chi li abbia nominati giustizieri; si sono nominati tali da se stessi; ma non vogliono vendicare i torti di tutte le vittime, perché non è un vero amore di giustizia che li muove, bensì solamente di quelle che servono alla loro ideologia. La disonestà di tutto il libro di Cuomo traspare fin dalle prime righe, laddove egli scrive che i dieci legittimarono e favorirono la deportazione in Germania di ottomila ebrei italiani, per il solo fatto di aver firmato il Manifesto della razza. Ma quando il Manifesto fu redatto, nel 1938, la Seconda guerra mondiale non era ancora scoppiata; in Germania non era cominciato lo sterminio; anzi l’Italia non era ancora formalmente alleata con essa; senza contare che neppure in seguito il governo italiano aderì mai, né mai favorì, la politica di genocidio nazista. Tacere queste cose significa deformare completamente il quadro storico e adulterare la verità, mettendo in una luce falsa sia quegli uomini che le loro azioni. E se i nobili antifascisti non potevano immaginare, nel 1938, che sarebbe arrivato il tempo in cui stuprare e trucidare bambine sarebbe stato un giusto atto di guerra contro il fascismo, non è onesto far credere al lettore che gli intellettuali firmatari del Manifesto sapessero, o potessero minimamente immaginare, che una serie di tragici e imprevedibili eventi avrebbero portato l’esercito tedesco a occupare l’Italia e a venire in possesso delle liste degli ebrei redatte in seguito alle leggi razziali, e servirsene per il loro arresto e la loro deportazione in Germania. Ché, se proprio si vogliono cercare i responsabili di quella vicenda, bisognerebbe semmai portare l’attenzione sui prefetti e sui questori che accettarono di collaborare con le SS naziste dopo l’8 settembre del 1943, peraltro tenendo sempre presente, per onestà intellettuale e non per sminuire le responsabilità, che negare tale collaborazione li avrebbe esposti a subire a loro volta delle gravi conseguenze personali.

Dicevamo che i momenti drammatici nella storia di un popolo sono quelli che fanno emergere con plastica evidenza la differenza che corre fra uomini grandi e uomini piccoli, che in tempi normali sono in pochi a notare. Ebbene anche noi, ora, in questa primavera del 2020, stiamo vivendo un momento drammatico della nostra storia, il più drammatico dal 1945, vale a dire da tre generazioni a questa parte. Drammatico non solo e non tanto per l’epidemia di Codiv-19 quanto per la catastrofe che incombe sulla nostra economia, e quindi sul nostro futuro, e per la sospensione delle libertà democratiche, che potrebbe anche non essere temporanea: il tutto a causa degli oscuri maneggi dei Padroni Universali, i signori della grande finanza, ai quali non scarseggia mai la manodopera volonterosa, in questo caso per diffondere il panico fra la popolazione, visto che la paura è la migliore alleata di chi vuole ridurre le masse in schiavitù e preferisce servirsi dell’astuzia che della forza. Oggi più che mai, pertanto, abbiamo bisogno di uomini grandi. O meglio, abbiamo bisogno di prendere a modello gli uomini grandi, non gli uomini piccoli. Gli uomini di animo grande sono sempre stati pochi e sempre lo saranno: le utopie egualitarie non hanno mai tenuto conto di questo. L’importante è che la società li sappia riconoscere e apprezzare; che si ispiri alle loro parole e alle loro azioni, che sono parole e azioni di saggezza, di umana comprensione, di perdono, di leale collaborazione; e non a quelle degli uomini piccoli, che sono parole di rancore, di odio e di vendetta.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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