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Siamo capaci di abitare l’impero del silenzio?

Fra le molte possibilità che la presente emergenza sanitaria ci offre, per metterci alla prova, c’è quella di vedere se, e fino a che punto, siamo capaci di abitare l’impero del silenzio. Non per mera costrizione, obbligati controvoglia da una forza estranea, da una volontà che non è la nostra, e i cui veri scopi non ci sono neppure del tutto chiari; ma volontariamente, con entusiasmo, oltre che con autentico piacere e con profitto. Parliamo, naturalmente, di quelli che sono così fortunati da non avere serie preoccupazione economiche, almeno per l’immediato; di quelli che hanno uno stipendio o una pensione sicuri e perciò possono anche prendersi il lusso di vedere il lato filosofico di quel che ci sta capitando: perché per tutti gli altri il discorso è ben diverso. E non vorremmo che il primo effetto dell’emergenza fosse proprio questo: renderci insensibili al dramma che stanno vivendo, sotto i nostri occhi, milioni di nostri compatrioti; di accentuare la tendenza all’egoismo che già si è fatta strada in noi, da tempo, nel diabolico consumismo. Ora che ad essere in difficoltà non sono i lontani, i migranti, i "diversi", ma proprio i nostri fratelli, i nostri vicini di casa, i nostri amici, vedremo se lo stile di vita americano, egoista e amorale, in quanto dà maggiore importanza alle cose che alle persone, ci ha del tutto disumanizzati. Non dobbiamo seguire le orme del clero modernista e omoeretico: adesso che i bisognosi sono gli italiani e non gli africani, i cattolici – horribile dictu! – e non gli islamici, i "normali", padri e madri di famiglia, e non i diversi, i genitore 1 e genitore 2, ecco si sono squagliati come la neve al sole, con tutte le loro sciarpette arcobaleno e con tutti i loro barconi sul presbiterio e le loro statuine di Gesù negro e la Madonna meticcia, e con i loro baci al Corano e i loro abbracci ai cinesi probabili portatori di virus.

Dunque: riscoprire il valore del Silenzio. Non perché ci viene imposto e lo subiamo passivamente, mentre le città si fermano e ammutoliscono, stordite, trattenendo perfino il respiro, come in attesa di un bombardamento aereo; ma perché da una situazione di necessità riusciamo a trarre comunque il massimo del beneficio spirituale, senza scordarci mai che la crisi complessiva che stiamo vivendo nasce come crisi spirituale e poi diventa crisi ambientale, ecologica, finanziaria, sanitaria, eccetera. C’è stato un tempo in cui uomini di valore sceglievano la solitudine proprio per amore del silenzio: perché solo dove il silenzio è perfetto si ode distinta la Parola di Dio. E noi, come cristiani, dovremmo saperlo benissimo, perché quegli uomini erano gli anacoreti, i Padri del Deserto, le cui meditazioni piene di saggezza rischiarano ancor oggi, a millecinquecento anni di distanza, le nostre vite di poveri uomini moderni, alla deriva insieme alla modernità stessa. Certo che ce ne siamo dimenticati; e i nostri cattivi pastori hanno fatto del loro meglio, ossia del loro peggio, affinché ce ne scordassimo; o, non potendolo scordare — perché dopotutto non si cancellano le proprie radici così, con un tratto di penna — perché guardassimo a quel tipo di esperienza con pena e una punta di disprezzo. Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, dice un documento di questo immondo e falso magistero bergogliano, rivolto ai monaci e alle monache contemplativi di oggi (costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, n. 26). E infatti ci ha pensato Bergoglio a profanare il silenzio dei chiostri, recandosi a vistare le suore di clausura e raccontando loro barzellette, piegandosi in due dalle risate (lui che non può mai piegarsi per inginocchiarsi davanti al Santissimo Sacramento!) e facendole piegare anch’esse, in una scena disgustosa che i fotografi cortigiani si sono affrettati a immortalare e a diffondere in tutto il mondo. Perché il messaggio della falsa chiesa, della chiesa dell’oscurità, come la chiamava, profeticamente, la beata Caterina Emmerick, la quale la vide in spirito, così come vide i due papi e l’abominio della desolazione nel cuore della cristianità, è questo: abbasso la solitudine contemplativa, abbasso il silenzio che unisce l’uomo a Dio e che lo rende capace di ascoltare la sua Parola; evviva i rumori del mondo, il chiasso del mondo, facendo passare quella per una forma di alienazione e questa, invece, per la vera e giusta maniera di servire Iddio, servendo il prossimo.

E invece no. Di silenzio, c’è bisogno; e ce n’è tanto più bisogno nel mondo d’oggi, che è la civiltà del frastuono satanico, perché il diavolo non vuole che gli uomini ascoltino Dio, e quindi ha bisogno di stordirli, di agitarli, di confonderli, di turbarli, perché lì dove regnano l’agitazione e la confusione, lì lui riesce a intrufolarsi per tessere la sua immonda ragnatela di seduzione ai danni del mondo. La nostra anima lo sente istintivamente, così come il nostro corpo sente istintivamente quale sarebbe la vita sana, secondo natura, lontano dai vizi e dagli eccessi, dalle mollezze e dal disordine; la nostra anima sente che nel silenzio vi è la pace, e nella pace si trova Dio, e perciò tende naturalmente ad esso. Le città, allontanando gli uomini dalla terra, sono nate con la perfida malizia di voler distogliere gli uomini da Dio, di orientare le loro vite solo verso questo mondo. Si pensi a Babele e alla sua torre; si pensi alla vicenda di Sodoma e Gomorra; si pensi che Gesù Cristo nacque in un villaggio, visse in un piccolo paese della Galilea e poi passò la vita a predicare di villaggio in villaggio, fra la gente di campagna, pastori, contadini, pescatori del lago di Tiberiade, e che in città andò perché era necessario, ma sapendo che andava a morire, perché la città è il luogo del male. Si pensi al ruolo che hanno svolto le città europee nel processo di secolarizzazione. Si pensi a come Parigi ha distaccato un popolo cattolicissimo da Dio, avvelenandolo con la falsa religione dell’uomo, massonica e anticristiana. Si pensi a come tutte le grandi città hanno distrutto la spiritualità dei loro abitanti, e a come i contadini inurbati per effetto della Rivoluzione industriale sono passati, nel giro di neppure una generazione, dalla pratica di vita religiosa a una nuova morale atea, libertina, dove tutto è permesso perché tutto si gioca sul piano dell’immanenza, non c’è un’altra vita e bisogna godere finché si può, tanto lo sanno tutti che Dio è morto — e comunque, aggiunge l’antipapa Bergoglio, Dio non è nemmeno cattolico. E allora, di che darsi pensiero? Tutta la storia dell’Europa moderna riflette questo processo di distacco da Dio che procede di apri passo con la crescita delle città: tutte le letterature ne recano il segno, quasi tutti gli scrittori hanno visto e descritto il fenomeno, anche se la maggior aperte di loro, accecata dal mito del progresso, non ne ha colto il vero significato.

Nei Paesi che per ultimi hanno ricevuto l’urto della modernizzazione, questa consapevolezza è stata lucida e straziante Si prenda il caso della letteratura romena dalla fine del XIX secolo in poi; essa è tutta una variazione sul tema: il contadino che lascia la campagna e va a vivere in città perde la fede, perde le sue radici, perde i valori morali e al posto di essi non sorge alcuna civiltà nuova, c’è solo il vuoto che avanza a grandi passi e divora tutto, anche l’anima di un popolo. Ed è proprio nelle pagine di uno scrittore romeno il quale vide l’inizio di quella trasformazione, Ion Agirbiceanu, vissuto fra Otto e Novecento — come la videro il nostro Verga, coi Malavoglia, o il nostro Pavese, con La luna e i falò — che abbiamo trovato una meravigliosa descrizione dell’impero del silenzio e dei suoi benefici effetti spirituali; e quello scrittore, guarda caso, era anche un sacerdote, di rito greco-cattolico. Ma prima di introdurre la sua riflessione, ci sia consentito fare un passo indietro e spiegare come ci siamo incontrati con lui.

Quando il beato don Giacomo Alberione, nel 1915, ad Alba, fondò le Edizioni Paoline e le affidò al ramo femminile dell’Ordine da lui fondato, le Figlie di San Paolo, si aprì un capitolo veramente glorioso per la storia dell’editoria italiana. Non diciamo dell’editoria cattolica, perché le Edizioni Paoline, pur privilegiando, com’era logico e giusto, la pubblicazione delle opere di autori cattolici, a cominciare dai Padri della Chiesa e dai grandi teologi del passato, seppero dare spazio, con intelligenza e molto buon gusto, a quanto di meglio la filosofia e la letteratura di ogni tempo offrivano di valido e di non effimero alla riflessione, e anche al sano intrattenimento dei lettori. Pertanto nacquero una serie di collane, molte delle quali rivolte ai bambini e ai ragazzi, con autori italiani e stranieri, che ebbero il merito di far circolare fra un vasto pubblico dei libri ben curati, ma a prezzo estremamente contenuto, alcuni dei quali apparivano in Italia per la prima volta e che anche in seguito non sono più stati ripubblicati da nessun altro editore, il che ne fa dei "pezzi unici" che arricchiscono e onorano le migliori biblioteche pubbliche e private. Incomparabile è il servizio che queste brave suore hanno reso alla fede, alla cultura, alla spiritualità del popolo italiano; per merito loro la psicologia, la pedagogia, la narrativa, la filosofia classica e moderna, sono entrate letteralmente in tutte le case, e con una spesa modestissima ogni persona di buona volontà ha potuto abbeverarsi a quelle pure sorgenti, e al tempo stesso offrire ai bambini, ai propri figli, ai propri studenti, delle ore serene da trascorrere nella lettura entusiasmante o commovente di autori altamente formativi, ciascuno dei quali ha un messaggio spirituale, non sempre esplicito, ma sempre essenziale, perché la vera cultura è sempre tale da avvicinare a Dio e a rendere più pura l’anima del lettore, e mai lo allontana o lo rende più cattivo. In particolare, nella collana Filo d’erba, destinata specialmente ai ragazzi, negli anni ’60 del Novecento le Paoline pubblicarono decine di romanzi noti e meno noti delle diverse letterature europee, e, fra essi, una buona ventina di titoli romeni, alcuni dei quali mai tradotti prima in italiano, acquisendo così il merito di aver avvicinato un vasto pubblico a una delle letterature meno conosciute d’Europa, pur appartenendo a una lingua neolatina e che perciò, in teoria, avrebbe dovuto essere ben più nota, ad esempio, di quella ungherese, che appartiene al ceppo ugrofinnico e quindi a una lingua asiatica. Eppure, per ragioni politiche, negli anni ’30 la letteratura ungherese era stata oggetto di un formidabile interessamento da parte dell’editoria italiana, che aveva tradotto un gran numero di opere di autori magiari (il 17 marzo 1934 Mussolini si era fatto promotore di un patto a tre con l’Austria del cancelliere Dollfuss e con l’Ungheria del primo ministro Gömbös). Adesso, oltre ad autori più noti come Sadoveanu (con ben cinque titoli), Caragiale, Rebreanu e Zamfirescu, le Paoline avevano tradotto e pubblicato anche due romanzi di Ion Slavici, Il mulino della fortuna e La ragazza della foresta; una, mai tradotta prima, di Cézar Petrescu, Fram, l’orso polare (però in un’altra collana sempre rivolta ai più giovani, i Classici della gioventù) e infine un volume di racconti di un autore del tutto sconosciuto ai lettori italiani, il transilvano Ion Agirbiceanu (o Agârbiceanu: Cenade, presso Alba Iulia, 12 settembre 1882-Cluj-Napoca/Kolozsvár, 28 maggio 1963), e precisamente Due amori. Il titolo, che si riferisce al primo e il più lungo dei racconti, potrebbe far pensare a qualcuno che è diviso fra l’amore per due persone, oppure a qualcuno che ha amato due persone nel corso della sua vita; invece si tratta della storia di un giovane cui si apre una promettente carriera e che si fidanza con una nobile ragazza ungherese, ma che a un certo puto deve scegliere fra questo amore terreno e l’amore per la sua gente, che gli ungheresi disprezzano e opprimono nelle sue aspirazioni nazionali; e che infine sceglierà, sollecitato dalla malattia del padre che lo richiama a casa, seguendo il richiamo del sangue e rinunciando sia alla donna che alla carriera. Ma è sull’ultimo dei sette racconti contenuti nel volume, il più breve, intitolato L’impero del silenzio, che vogliamo portare l’attenzione del lettore, per il suo valore sia poetico che meditativo.

Ne riportiamo qui la parte più significativa (da: Ion Agirbiceanu, Due amori; titolo originale: Două iubiri, Vălenii de Munte, 1909; traduzione dal romeno di C. N., Francavilla, Chieti, Edizioni Paoline, 1966, pp. 150-154):

Vi siete ascoltati qualche volta nell’impero del silenzio? Avete fatto attenzione ai sussurri appena percettibili dell’anima vostra, ai dolci e santi turbamenti dell’intimo? Siete rimasti meravigliati di fronte alla potenza di comprendere e di sentire, che avete scoperta in voi? Siete agghiacciati di terrore, sentendo e riconoscendo voi stessi come tutti gli altri esseri immateriali che vagano in questo mondo? Quando siete arrivati a questa scoperta, non avete sentito subito partire da voi una enorme quantità di domande? Chi sei tu?

Sì, l’impero del silenzio è benedetto, è grande e santo.

È pieno di dolore? Non può essere, perché è l’esistenza stessa che ci mette di fronte all’impero del silenzio. L’esistenza è piena di dolore? È cattiva? La più vera realtà, la sola realtà è cattiva, è dolorosa? No! Ma a noi, che possiamo capire pochissimo, non può fare che l’impressione di una sfinge buia, le cui dimensioni si perdono nell’infinito.

Quando taci, quando intorno a te c’è la quiete, la tua vita non rassomiglia più a niente di quello che c’è sulla terra.

Perciò solo in una simile sera possiamo intendere perché i grandi pensatori dell’umanità hanno tanto lodato l’impero del silenzio. Non si sono accontentati di lodarlo: l’hanno amato.

Solo un una simile sera comprenderemo che non è stata una pazzia la vita degli anacoreti nei primi secoli del cristianesimo. Abbandonavano il mondo, gli averi, tutto insomma quello che possedevano, tutto quello che poteva offrir loro la vita, per ritirarsi nei luoghi deserti, nei "crepacci della terra", per gioire appieno del fascino del silenzio.

Non il terrore delle sofferenze, né il pericolo delle tentazioni, portate nella vita dal danaro e dalla donna, costringevano questi uomini singolari a fuggire nel deserto. Solo l’eterno rumore che fanno tutte le cose del mondo allontanava questi spiriti forti dagli esseri viventi.

Per questo essi si sceglievano, per quanto era loro possibile, i luoghi più quieti, più taciti: i silenzi. Non valli piene di erba alta, né boschi secolari: qui passano gli animali della terra, bisbigliano gli uccelli, soffiano i venti suscitando canti selvaggi. Qui non domina il silenzio. Ciò per cui fuggivano dal mondo era loro più vicino.

Si dice che molti di questi uomini, che la natura guardava ammirata, fossero degli anormali, dei malati. Avevamo ereditato delle malattie o le avevamo acquistate durante la loro vita di privazioni: così almeno affermano alcuni.

Non si quale uomo immerso profondamente nella meditazione in una notte serena, potrà dire di se stesso che è normale. Essere normale vuol dire vivere come gli altri, come la maggioranza degli uomini mediocri. Ma questa vita uniforme è possibile solo vicino al chiasso assordante della gente. Ma una volta che questa necessità scompare, ogni uomo si incammina in fretta per una strada diversa da quella del vicino, col quale ha portato fino allora lo stesso giogo. Non possiamo eppure immaginare quante sarebbero le strade per le quali s’incamminerebbe l’umanità, libera dalla vita materiale! Non possiamo immaginare quanti uomini sarebbero anormali! Potremmo dire: tutti!

L’impero del silenzio ha il privilegio di rende libero ognuno di noi, almeno per alcuni minuti. Il nostro pensiero ha la possibilità di volare più agile di un’aquila superba, il nostro cuore può sentire senza limiti. Chi terrà allora a freno la fantasia? Chi potrà regolare i battuti del proprio cuore su quelli del vicino?

Sì, nell’impero del silenzio tutti gli uomini sono anormali, proprio perché tutti sono, almeno per alcuni momenti, uomini. Ma nessun uomo è destinato ad andare per una via battuta da un altro, Ognuno può farsi la sua strada nella vita!

Immaginatevi una profonda e tacita sera di luglio. I tesori del cielo scintillano dolci nell’infinito, i prati dormono sotto la pioggia di luce che cade dalla luna. Pensate che in questa sera superba, dieci uomini contemplino da differenti parti del mondo, senza sapere uno dell’altro, questa bellezza; e dopo due ore si incontrino all’improvviso tutti e dieci,. Scambiandosi le proprie impressioni, vi saranno due che le avranno avute uguali? No, ognuno di quei dieci, ciascuno per la sua strada, sarà condotto dai suoi sentimenti e dalle sue tendenze. Altrimenti ogni uomo non sarebbe un mondo a sé, e conoscendone uno, si conoscerebbero tutti.

Può darsi però che le anime meno forti e agguerrite si ammalino nell’impero del silenzio, perché si spaventano, si abbattono e si annientano per il senso di solitudine che dà il silenzio pieno. Neppure l’anima più forte può rimanere eternamente in questo impero. Potrebbe rischiare di perdere il senso della realtà!

Perciò la vita, così reale, si incarica di tenere, più che può, lontano da noi la superba bellezza dell’impero del silenzio.

Davanti a questa bellissima riflessione preferiamo non aggiungere altro e seguire l’esortazione dell’Autore, rimanendo a nostra volta in silenzio.

Del resto, che ci sarebbe da dire, da aggiungere?

Il silenzio non può essere spiegato o magnificato: parla da solo.

Fatene la prova.

Vi troverete bene, e probabilmente, udrete la voce che conta più di tutte: quella di Dio.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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