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Finché i piedi ci portano

Ciascuno di noi possiede nel bagaglio dei ricordi alcune cose – persone, cose o situazioni – che sente come particolarmente importanti; meglio: alcune cose che hanno fatto di lui quel che effettivamente è diventato. Non ricordi, dunque, ma carne e sangue del proprio essere; qualcosa che è inseparabile dal proprio modo di sentire, di pensare e di vedere il mondo e se stessi. I libri, per chi è un lettore appassionato, occupano un posto importante in questa ideale scuola di formazione e apprendistato alla vita. Le esperienze determinanti sono quelle dell’infanzia, ma nell’infanzia non si sa ancora leggere e dopo aver imparato, non si comincia subito a leggere libri: quelli di scuola bastano e avanzano. Di fatto, le prime prove di lettura si fanno quando gli adulti iniziano a regalare dei libri ai bambini, per le feste o per il compleanno o in occasione di qualche evento solenne, come la Prima Comunione o la Cresima (che ai nostri tempi si facevano molto ravvicinate, verso la terza elementare). Le prime letture restano fortemente impresse proprio perché sono le prime: tutte le cose nuove lasciano un segno incancellabile perché hanno il profumo inconfondibile della scoperta, della rivelazione di un mondo del tutto nuovo e ancor vergine. Una delle nostre prime letture, passata l’infanzia ma non ancora la prima adolescenza, è stata il libro di Josef Martin Bauer Finché i piedi ci portano, tradotto in Italia da Longanesi nel 1967 (in Germania era uscito nel 1955). Ci colpì subito la copertina, con la foto di un giovanissimo soldato tedesco che avanza a mani alzate in segno di resa sullo sfondo d’un paesaggio desolato e il titolo alquanto suggestivo: vederlo attraverso la vetrina e desiderare di averlo e leggerlo fu una cosa sola. Eravamo a spasso con la mamma: entrammo nel negozio, un’edicola tabaccheria posta quasi di fronte alla Porta Torriani, in un angolo suggestivo della città vecchia, e lei lo acquistò per farcene dono. Tornati a casa, ci sprofondammo nella lettura, che fu ininterrotta dalla prima all’ultima pagina. Era la storia di un reduce della Wehrmacht che torna a casa dopo un viaggio a piedi di 14.000 chilometri dopo esser stato fatto prigioniero dai sovietici e inviato in una miniera della Siberia Orientale, da dove riesce fortunosamente a scappare. Non è un romanzo, ma una storia vera: il protagonista è il tenente delle truppe alpine bavaresi Clemens Forell, nome di fantasia dietro cui si cela una persona reale, il tirolese Cornelius Rost, tornato in patria nel 1952, dopo una fuga durata tre anni nelle immensità dell’Asia settentrionale e centrale, fino all’Iran. All’epoca non sapevamo nulla né dell’autore, né del protagonista. Non sapevamo, in particolare, che Josef Martin Bauer (nato a Taufkirchen, Vils, in Alta Baviera, l’11 marzo 1901 e morto a Dorfen, nello stesso land, il 15 marzo 1970) venne sottoposto a inchieste umilianti per appurare il suo coinvolgimento nel regime hitleriano, negli anni della "denazificazione", dal momento che era già un affermato romanziere, specie per ragazzi, nel filone sangue e suolo che presenta elementi di convergenza con l’ideologia nazista (un criterio in base al quale il novanta per cento degli scrittori italiani del Ventennio avrebbero dovuto essere epurati per contiguità ideologica con il fascismo). E neppur sapevamo che un’inchiesta giornalistica avrebbe provato, ma la cosa è tuttora dubbia, che Rost non era ufficiale ma soldato semplice, e che non tornò in patria alla vigilia di Natale del 1952, ma già nel 1947. E se pure l’avessimo saputo, che differenza avrebbe fatto? Soldato semplice o tenente, a chi importa, se non alla stampa di sinistra che da sempre si affanna a minimizzare gli orrori del comunismo, con lo stesso zelo con cui ingigantisce quelli del fascismo; e che, nella fattispecie, vorrebbe far scordare che molti prigionieri dell’Asse non sono mai più tornati dall’Unione Sovietica, o sono tornati solo dopo molti anni, rovinati nel fisico e nel morale, quando già le autorità li avevamo dati per dispersi e loro famiglie li piangevano per morti? Si veda ad esempio il bel libro di Enrico Reginato (Treviso, 5 febbraio 1913-Padova, 16 aprile 1990), ufficiale medico degli alpini e medaglia doro al valor militare, rientrato a casa dalla prigionia sovietica solo nel 1954, libro oggi significativamente dimenticato: 12 anni di prigionia nell’Urss, edito da Garzanti nel 1955.

La lettura del libro di Josef Martin Bauer è stata per noi così importante non solo per l’ambientazione esotica e avventurosa, anche perché in esso non c’è nulla di avventuroso nel senso classico della parola, nulla che richiami le pagine di Jack London o Rudyard Kipling, semmai una pesante atmosfera di sacrificio e nostalgia che fa passare in secondo piano anche lo sfondo esotico, le immense foreste di abeti e le pianure gelate che si perdono all’orizzonte, verso il Deserto del Gobi (allora, nell’età della scuola media, la nostra grande passione era la geografia fisica); bensì per il richiamo costante, profondissimo, invincibile, esercitato dalla libertà e dalla patria, anche se solo molti anni dopo avremmo capito che non c’è differenza fra le due cose. Quel piccolo uomo smarrito nell’immensità della taiga, con le vesti a brandelli, solo, affamato, sporco, tremante di freddo, aveva trovato un’indomabile energia che gli aveva moltiplicato le forze, che lo aveva sostenuto oltre l’immaginabile, camminando sempre avanti, coi piedi sanguinanti nelle scarpe rotte, per migliaia e migliaia di chilometri, come guidato da una bussola interna, da un oscuro magnetismo, senza mai arrendersi, senza mai darsi per vinto, anche nelle situazioni più drammatiche e quasi disperate. Tanto potente era in lui il richiamo degli affetti, il richiamo delle proprie radici: quasi una versione moderna della decennale avventura di Ulisse che non perde mai la speranza, che non cessa mai di lottare per rimettersi sulla rotta di Itaca, sostenuto dall’ardente desiderio di rivedere il vecchio padre Laerte, la moglie Penelope e il figlio Telemaco. Non un uomo moderno, cinico e sradicato, moralmente apolide e culturalmente indifferente; non un Leoplod Bloom senza scopo e senza serietà di vita, ma un uomo antico, antico nell’anima e nei sentimenti, così come antica è la vena autentica di qualsiasi essere umano, quando le certezze della vita quotidiana crollano e si disperdono, e resta solo la nuda realtà dell’essenziale. L’anabasi di questo oscuro soldato tedesco, fatto prigioniero e non rassegnato alla definitiva separazione dal suo mondo, che calpesta l’erba e la sabbia di foreste e di deserti, sempre avanti, sostenuto da una forza fisica e morale che ha del prodigioso, e che certo non gli viene solo dalle sue personali risorse, ma dall’alto, da una fonte assai superiore all’umano (solo moltissimi anni dopo avremmo scoperto che Bauer, da giovane, aveva fatto studi di teologia, il che spiega un certo alone religioso, peraltro sempre implicito, che si coglie nelle pagine del suo libro) è una metafora della condizione umana, dell’eterna ricerca di quella patria perduta che si agita in fondo al cuore degli uomini, anche se la maggior parte di essi, finché la vita procede in condizioni normali, quando non imperversano né guerre, né epidemie, sembra averla scordata.

Poiché il libro era appena uscito, doveva essere il 1967 o al massimo il 1968 e il mondo occidentale, Italia in testa, stava per entrare nel clima di follia della contestazione giovanile e della rivoluzione sessuale, cui sarebbe seguita, in un volger di tempo incredibilmente breve, la lunga e sanguinosa stagione del terrorismo: come scordare quella sera del 12 dicembre 1969, quando il telegiornale annunciò la strage di Piazza Fontana, che segnava l’ingresso della nostra Patria nel tunnel pauroso degli anni di piombo? Abitando in una città non molto grande e geograficamente marginale, i furori più esasperati della stagione sessantottina li abbiano uditi in lontananza, più che visti; tuttavia il clima era quello e lo si respirava ovunque, dalle famiglie alla scuola e alla Chiesa stessa. Anzi, era stato proprio il clero a suonare la squilla a tutti i rivoluzionari o sedicenti tali (figlioli miei, marxisti immaginari, avrebbe ironizzato qualche anno dopo, nel 1975, Vittoria Ronchey), col preteso rinnovamento del Concilio Vaticano II e con l’ancor più dubbio "spirito" che avrebbe dovuto prolungarne e moltiplicarne i "benefici" effetti nella Chiesa e nel mondo. Anche i cantanti e i gruppi musicali, conformisti e petulanti come solo loro sanno essere, e come lo sono tuttora, sotto ben altri cieli e con bel altre prospettive, pescavano a casaccio e rilanciavano disordinatamente gli slogan e le ridicole semplificazioni dei sessantottini; e non c’era adolescente che non tenesse il poster del comandante Ernesto Che Guevara in camera, sopra il capezzale, così come i loro genitori e i loro nonni avevano sempre avuto il Cristo, o la Madonna, e il ramo d’ulivo benedetto infilato sopra la cornice. La fortuna di avere i genitori con la testa sulle spalle, il papà professore ed ex militare di carriera, la mamma maestra elementare, ci ha aiutati a non esser trascinati da quei cattivi venti, a conservare lucidità e spirito critico, a non allontanarci dal solco della buona educazione ricevuta e dai sani valori civili e religiosi: la famosa triade, allora tanto disprezzata e vituperata, Dio, Patria e Famiglia, cui si aggiungeva un grande amore e un grande rispetto per tutto ciò che è sapere, cultura, ricerca, verità, bellezza, arte, scienza, pensiero. Ed ecco che il libro di Josef Martin Bauer, in quel crogiolo che è la vita di un bambino alle soglie dell’adolescenza, veniva a dare il suo contributo di fede in quei valori, e l’esempio del coraggio necessario a viverli nella realtà: senza cedere a compromessi vergognosi, senza mai perdere il rispetto di se stessi, né calpestare o disprezzare l’insegnamento e il modello ricevuto dalla propria famiglia. E il messaggio di quelle pagine commoventi, che allora coglievamo solo in parte e solo più tardi ci sarebbe apparso in maniera completa, è che la libertà è il bene primario dell’uomo, ciò che lo rende veramente tale e lo distingue dai bruti; ma che non c’è vera libertà se non compiendo il proprio dovere: e il proprio dovere consiste nel vivere cercando sempre la verità. Per un figlio della civiltà europea, quindi della civiltà cristiana (la modernità è solo un orribile, gigantesco errore), la strada di casa è, materialmente e metaforicamente, la strada della verità. Il reduce Clemens Forell, un cattolico bavarese sperduto nelle immensità dell’Asia, che macina distanze immense sostenuto sempre dalla sua fede nella dignità della vita e dalla coscienza del dovere di viverla secondo verità e giustizia (e non di viverla intensamente, a caccia di emozioni, come berciano oggi le sirene di uno stolto edonismo consumista), diviene allora un compendio vivente di ciò che l’uomo deve essere, e un simbolo di quella condizione di viator, di viandante, di pellegrino, che, sola, consente di vedere le cose nella giusta prospettiva: anche e soprattutto in tempi di calamità e di emergenza, come son quelli che stiamo ora vivendo, in questa allucinata primavera del 2020, chiusi in casa tutti quanti per il terrore di un virus misterioso e inafferrabile.

Il fatto è che ci eravamo scordati, tutti quanti, della serietà implicita nella nostra condizione di homo viator: invece di camminare verso la meta, ci eravamo comodamente seduti, anzi sdraiati, chi qua, chi là, secondo i nostri capricci e l’estro del momento. Ma non funziona così. Seriamo che la severa lezione che la vita ci sta impartendo serva almeno a qualcosa; che ci faccia rinsavire. Alcuni aspetti della attuale emergenza meritano una risposta sul piano dell’azione esterna: ci sono molti conti che dovremo fare, quando sarà giunto il momento opportuno; conti da regolare coi nostri nemici e con i tanti, troppi falsi amici, dentro e fuori il nostro bello e sfortunato Paese. Bisognerà armarsi di scopa e far pulizia, senza pietà: ci sono troppe immondizie che ingombrano la nostra vita sociale e che ammorbano l’aria. La cosa è durata fin troppo e se siamo arrivati fino a questo punto, se siamo scesi tanto in basso, è proprio perché non abbiamo voluto guardare in faccia la realtà e trarre le doverose conclusioni da ciò che pure sarebbe apparso evidente, se solo avessimo avuto l’onestà di vederlo. E tuttavia, questa dovrà essere solo una parte delle pulizie di casa che bisognerà fare. Ci sono altri conti in sospeso da regolare, e quelli li abbiamo con noi stessi. Avevamo smesso di prenderci cura della nostra anima, di nutrirla di cose buone e di proteggerla dalle cose cattive; avevamo preso la pessima abitudine di vivere alla giornata, superficialmente, banalmente, irresponsabilmente, come ragazzi ormai cresciuti i quali non vogliono, però, assumersi le loro responsabilità di persone adulte. Troppo comodo: e ora la vita ci presenta il conto. Ogni conto aperto è un debito da pagare: e noi abbiamo accumulato il debito dell’incoscienza e dell’inconsistenza. La vita non usa riguardi a chi è troppo molle o troppo sciocco o troppo egoista per assumersi i suoi impegni e per fare ciò che è giusto, non ciò che è piacevole e divertente. Oggi, forse, non ci sono più uomini come il soldato Forell, disposti a rischiare la vita e ad affrontare sacrifici immensi pur di tornare a casa, da uomini liberi; oggi forse preferiremmo tutti rassegnarci al nostro destino di prigionieri e seguitare a scavar minerale, a capo chino, come animali da lavoro, in qualche gulag dimenticato. Di fatto, è quello che stiamo facendo. Siamo gli animali da soma della globalizzazione e siamo rassegnati alla nostra prigionia come una turba di schiavi: solo perché le catene non si vedono e abbiamo perfino scordato com’è il mondo fuori della caverna, com’è bello lo scintillio del cielo azzurro e quanto è inebriante il profumo della vita vera, lontano da questi miasmi.

Sapremo cogliere questa estrema opportunità che la vita ci sta offrendo per rinsavire, per tornare in noi stessi, per rimetterci sulla strada di casa? Una cosa è certa: da soli non ne siamo più capaci. Abbiamo bisogno d’aiuto. E chi può aiutarci se siamo tutti, più o meno, nelle stesse miserevoli condizioni? Uno solo può farlo, Colui che disse: Venite a me voi tutti, che siete affaticati e stanchi

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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