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Gustavo Camerini, un eroe del nostro tempo

Un eroe del nostro tempo è il titolo di un intenso, straziante romanzo dello scrittore romantico russo Michail Jur’evic Lermontov dl 1839: storia di un’anima persa che, inizialmente buona e ingenua, finisce per inasprirsi e incattivirsi sotto i colpi della vita e per albergare in sé una cieca sete di vendetta contro il mondo (quando si capisce cos’è la vita, si sogna la vendetta, pare che abbia parafrasato, mezzo secolo dopo, il pittore francese Paul Gauguin, che, da parte sua, si vendicò lasciando per sempre il suo mondo e andando a "perdersi" nei paradisi esotici). È anche il titolo di un assai più modesto romanzo di Vasco Pratolini, cantore della Firenze popolana e proletaria e scrittore quanto mai sopravvalutato, come tutti i suoi consimili, ad esempio Italo Calvino, a motivo della ricostruzione faziosa e manichea della recente storia italiana, senza nemmeno l’ombra di quel necrologio onesto del fascismo che auspicava uno scrittore, quello sì grande (e perciò sottovalutato) come Giuseppe Prezzolini. Anche in Un eroe del nostro tempo, come ne Lo scialo o nelle Cronache di poveri amanti (oppure, nel campo del cinema, come nel tanto osannato Novecento di Bernardo Bertolucci) il bene e il male sono nettamente divisi: il male è il fascismo, il bene è l’antifascismo. Tale è la sottocultura che ci è stata rifilata per settant’anni e che tuttora i signorini della sinistra color fucsia, divenuti amici del capitalismo e dei poteri forti internazionali, vogliono seguitare a rifilarci, imperterriti e inossidabili, anche attraverso programmi televisivi come Che tempo che fa di Fabio Fazio. Ignorando il fatto storico che i fascisti, a Firenze, dopo che i tedeschi si erano ritirati, ritardarono di due settimane l’avanzata angloamericana nell’agosto del 1944, lottando strenuamente e guadagnandosi la stima del generale Alexander (gli italiani che preferisco sono quelli di Firenze, perché ci hanno accolti sparandoci addosso), fatto che la vulgata resistenziale si guarda bene dal ricordare agli studenti, perché attesta che i fascisti non erano quei quattro gatti vigliacchi e disperati che si vuol far credere ancor oggi, la Firenze rievocata da Pratolini è tutta libertà e antifascismo e perciò tutta bene e niente male, tranne poche mele marce. In un romanzo di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, si era affacciata, a un certo punto, la scomoda domanda se esiste realmente una differenza morale tra fascisti e partigiani, visto che anche questi sono capaci di macchiarsi di azioni esecrabili, proprio come i loro nemici; e la risposta, rassicurante e super politicamente corretta, era stata pronta e certa: la differenza c’è, e a indicarla è il corso della storia. Là dove va la storia, lì c’è anche il bene; e pertanto le azioni malvagie compiute in none del bene sono comunque giustificate; quelle compiute da chi va contro la storia, no. È la classica spiegazione hegeliana e marxiana, che altro non è se non la traduzione volgare di un famoso aforisma di Napoleone: Dio sta dalla parte dei grossi battaglioni. Con parole ancor più chiare, ma politicamente non troppo corrette, potremmo a nostra volta precisare: la storia viene scritta dai vincitori, dunque chi vince stabilisce chi è stato buono e chi cattivo.

In Un eroe del nostro tempo, dunque, Pratolini delinea la figura di Sandrino, un sedicenne figlio di fascisti, che dopo la guerra prende naturalmente la strada della delinquenza e della cieca violenza, proprio perché in lui c’è un DNA fascista, e il fascismo conduce fatalmente al male, anzi è l’espressione, la quintessenza del male, così come l’antifascismo è espressione e quintessenza del bene. Povero Lermontov e povero Grigorij Alexandrovic Pečorin, il protagonista del suo romanzo: davanti a tanta stupidità, si saranno rivoltati entrambi nella tomba. Di vero, nell’espressione un eroe del nostro tempo, c’è questo: che ogni epoca ha una sua idea dell’eroismo, e quindi ogni epoca coltiva la memoria dei suoi eroi, delle figure ideali, cioè, che le si addicono e che più le rappresentano. Stiamo però attenti a non cadere in un vieto relativismo. Ogni epoca ha i suoi eroi, ma le epoche non sono tutte uguali: perciò un’epoca mediocre, o ipocrita, o vuota, innalza al rango di eroi quei personaggi che le si addicono. Ciò non significa che l’eroismo sia un concetto meramente soggettivo, ma che soggettivo può essere il giudizio su di esso; e lo è tanto più nelle società fragili e decadenti, dove le certezze sono solo apparenti, perché costruite su fondamenta di sabbia. In un mondo di pazzi, il più folle di tutti diverrà un eroe, mentre i pochi ancora savi saranno considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, se non di veri e propri delinquenti che attentano all’ordine stabilito.

Questa premessa era necessaria per passare all’argomento di cui vogliamo parlare, e vorremmo farlo sine ira et studio, ma oggettivamente e, per quanto possibile, spassionatamente. Per puro caso ci siamo imbattuti nella figura di un avvocato antifascista, Gustavo Camerini (Alessandria d’Egitto, 1° settembre 1907-Varese, 26 settembre 2001), la cui memoria gode di un certo nome — l’ignoranza era tutta nostra — nella storia della lotta contro il fascismo, essendosi prodigato in tal senso su parecchi fronti e su ben tre continenti, dalla Spagna al Nord Africa, e dal Medio Oriente alla stessa Italia. Ci siamo imbattuti in lui leggendo l’interessante saggio di Sandro Rinauro Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, che, fra le altre cose, ricostruisce con dovizia di dati come le autorità golliste fin dal 1940, e poi il governo francese, fino agli anni ’50 inoltrati, hanno attinto largamente alla massa degli italiani più poveri per rastrellarli e servirsene sia come lavoratori clandestini, dei quali aveva bisogno la loro economia, e soprattutto la loro agricoltura, sia come soldati nella Legione Straniera, dei quali avevano assoluta necessità per rimpolpare le loro esigue forze armate nelle ultime fasi della Seconda guerra mondiale e, poi, nelle disgraziatissime campagne coloniali in Indocina e in Algeria. Quante persone di media cultura sanno che a Dien Bien Phu combatterono, e caddero, numerosi italiani inquadrati nella Legione, fra i quali c’erano ignari emigrati clandestini che credevano di trovare un posto di lavoro, e anche non pochi ex fascisti che avevano scelto quella via per sottrarsi a un pericoloso rientro in Italia e a un problematico reinserimento nella società civile, divenuta rigorosamente democratica e antifascista? Ebbene, ecco cosa abbiamo trovato a un certo punto (op. cit., Torino, Einaudi, p. 368):

L’esilio antifascista, la sconfitta dei fuorusciti alla guerra di Spagna e l’arruolamento più o meno volontario in Legione di circa 15.000 immigrati italiani allo scoppio della Seconda guerra mondiale aumentarono ulteriormente la presenza italiana nel corpo militare transalpino, anche grazie al decreto del 12 aprile 1939 che impose agli stranieri che godevano del diritto d’asilo l’obbligo del servizio militare nell’esercito francese. Di alcuni degli emigranti o esuli italiani che si arruolarono in Legione tra le due guerre mondiali restano testimonianze e memorie significative, come quella di Giovanni Mezzadri, classe 1913, che, emigrato in Francia negli anni Trenta sia per ragioni economiche sia per la sua militanza comunista, si arruolò in Legione Straniera nel 1939, rimpatriò nel ’42, combatté nell’esercito italiano e prese infine parte alla Resistenza, o come quella dell’avvocato antifascista Gustavo Camerini che, espatriato in Francia, si arruolò anch’egli allo scoppio della guerra, nel 1940 si unì a Londra ai volontari di De Gaulle e nei ranghi della Legione Straniera combatté contro l’Asse in Norvegia, in Siria, a El Alamein e nella campagna d’Italia, per congedarsi infine nel 1945 insignito dell’Ordre de la Libération, del titolo di capitano della Legion d’Honneur, di Compagnon de la Libération, della Croix de guerre 1939-45 e di alcune decorazioni norvegesi.

Come, come? Arrivati a questo punto, siano tornati indietro per rileggere le ultime righe: credevamo di aver visto male. No, c’è scritto proprio così: combatté a El Alamein. Ma la battaglia di El Alamein non è quella che vide il massimo sforzo militare italiano, le pagine di eroismo più sublimi (uomini a piedi armati di bottiglie incendiarie contro i giganteschi carri armati britannici) e il massimo tributo in termini di caduti e prigionieri? Non è quella che segnò la nostra decisiva, anche se immeritata, sconfitta in Africa settentrionale e che aprì la strada all’invasione della nostra Patria, preceduta dai devastanti bombardamento aerei, che partivano appunti dalle basi della sponda sud del Mediterraneo? E aver combattuto a El Alamein contro l’Italia, contro l’esercito italiano, contro quanti diedero la vita per tener lontana la suprema sciagura dalle frontiere della Patria, oltretutto indossando un’uniforme straniera, costituirebbe per caso un motivo di vanto e un segno di eroismo (eccoci arrivati al tema dell’eroismo)? Secondo la vulgata antifascista imperante in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, sì: perché lo sbarco degli eserciti alleati in Italia non fu un’invasione, ma una liberazione. Eppure, se le date non sono un’opinione, il fascismo è caduto il 25 luglio del 1943, e fino all’8 settembre l’Italia era regolarmente in guerra contro gli Alleati e al fianco della Germania: questa è storia, non un’opinione personale. Lo sbarco in Sicilia ebbe inizio il 9 luglio, cioè prima della caduta del fascismo e prima dell’armistizio di Badoglio; e la battaglia di El Alamein si era combattuta dal 23 ottobre al 5 novembre 1942. Pertanto, aver preso le armi contro l’Italia mesi prima della caduta del fascismo e prima dell’armistizio con gli Alleati equivale, se non andiamo errati, a un atto di alto tradimento più che di eroismo. Ed è proprio per "sanare" situazioni di questo genere che gli Alleati, alla firma del Trattato di pace di Parigi, nel 1947, imposero all’Italia vinta l’infame articolo 16 che impegnava il nostro Paese a non perseguire quanti avevano combattuto contro di esso fin dal 10 giugno del 1940, cioè dal principio della guerra. E va bene. Ma di quei a farne degli eroi… Saranno stati degli eroi per le nazioni alleate, in questo caso per la Francia, che appuntò sul petto di Gustavo Camerini, come si è visto, un bel po’ di medaglie. Certo non furono eroi per quelle migliaia di donne italiane che vennero violentate dai soldati marocchini portati dal corpo di spedizione francese durante la campagna d’Italia. E lo stesso dicasi per quegli alti ufficiali e quegli ammiragli italiani che hanno ricevuto medaglie e prestigiosi riconoscimenti dalle forze armate britanniche e statunitensi: saranno stati degni di tali onori dal punto di vista di questi ultimi, ad esempio per la resa ingloriosa della flotta italiana a Malta, non certo dal nostro punto di vista. Stesso discorso per quei militanti comunisti che si addestrarono all’estero e poi si infiltrarono in Etiopia per agevolare l’invasione nemica e la sconfitta del nostro esercito coloniale (ne abbiamo già parlato negli articoli Fino a che punto tradire il proprio Paese può essere considerato una forma di Resistenza?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/05/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17; e Si può tradire la patria in guerra per amor di libertà?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 14 luglio 2019). E a maggior ragione ci si può chiedere che valore abbiamo i riconoscimenti del maresciallo Tito ai partigiani comunisti italiani della divisione Garibaldi i quali si misero alle dipendenze del IX Korpus sloveno e accettarono di andare a combattere contro i tedeschi nell’interno della Jugoslavia, lasciando ai titini campo libero per invadere la Venezia Giulia, occupare Trieste e Gorizia ed infoibare migliaia di civili italiani.

Ma torniamo al caso Camerini. Leggiamo su Wikipedia che

Di religione ebraica, nel 1938 emigrò in Francia per sfuggire alle leggi razziali e nel settembre 1939, a Parigi, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, si arruolò nella Legione straniera.

Il 1º marzo del 1940 fu promosso sottotenente e distaccato alla 13ª Demi Brigade della legione straniera (13ª DBLE) con la quale combatté, a partire dal 4 maggio, durante la campagna di Norvegia. All’atto dell’evacuazione del corpo di spedizione alleato (Operazione Alphabet) rientrò in Francia, sbarcando a Brest il 10 giugno. Poco prima della firma dell’armistizio rispose al proclama lanciato dal generale Charles de Gaulle e il 18 giugno si trasferì in Gran Bretagna entrando a far parte delle Forze francesi libere, la Francia libera, con lo pseudonimo di Clarence.

Nel settembre 1940 partecipò alla spedizione a Dakar, venendo promosso tenente il 25 febbraio 1941. Prese poi parte alla fase finale delle operazioni in Africa Orientale Italiana distinguendosi in Eritrea, dove rimase ferito durante l’occupazione di Massaua l’8 aprile 1941. Partecipò poi alle operazioni militari per l’occupazione della Siria e del Libano (Operazione Exporter), e a partire dal mese di giugno a quelle in Africa settentrionale. Si distinse nella battaglia di Bir Hakeim (maggio-giugno 1942), nella battaglia di El Alamein e nella campagna di Tunisia.

Durante la campagna d’Italia fu ferito l’8 maggio 1944 a Pontecorvo e a Radicofani. Promosso capitano per merito di guerra, fu distaccato presso l’ambasciata francese a Roma, ma il 12 ottobre 1945, a Parigi, fu congedato. Ritornato in Italia riprese l’attività di avvocato di diritto internazionale presso la Corte d’appello di Milano e poi presso la Suprema Corte di Cassazione di Roma. Fu anche membro del consiglio del Consolato di Francia di Milano.

Fu tra le 1.038 personalità insignite della prestigiosa onorificenza dell’Ordine della Liberazione, istituita nel 1940 a Brazzaville da Charles De Gaulle. Inoltre è stato decorato di Commendatore della Legion d’onore, Compagno della Liberazione, Croce di guerra 1939-1945 (Francia), Medaglia coloniale, Medaglia dei feriti, Medaglia del levante, Ordine di Sant’Olaf (Norvegia) e Croce di guerra (Norvegia). 

Dunque egli non prese le armi contro l’esercito italiano solo ad El Alamein ma anche a Bir Hakeim, nel maggio-giugno 1942, e prima ancora in Africa Orientale, partecipando all’espugnazione di Massaua: e ciò mentre 12.500 soldati italiani e ascari si sacrificavano eroicamente disputando al nemico il passo di Cheren, in Eritrea. Si era al principio del 1941 e mancavano ancora due anni e mezzo alla caduta di Mussolini e all’armistizio dell’8 settembre 1943. Come si può allora sostenere che egli, indossando una uniforme straniera e combattendo contro i nostri soldati, abbia ben meritato dalla Patria? Quale Patria? La Patria francese, senza dubbio; ma quella italiana? Durante la campagna d’Italia combatté valorosamente e venne ferito: benissimo. Ma qui non stiamo parlando del coraggio fisico personale: il coraggio è una cosa, la causa per cui ci si batte è un’altra cosa. Coraggiosi sul piano fisico, senza dubbio, furono anche i comunisti Giuseppe Di Vittorio e Ilio Barontini, i quali, con l’aiuto dei servizi segreti francesi e britannici, penetrarono in Etiopia e vi predisposero il terreno per l’offensiva nemica che sarebbe culminata nella resa del viceré Amedeo d’Aosta sull’Amba Alagi. Ma qui non stiamo parlando del coraggio, stiamo parlando della lealtà verso la Patria. E tuttavia, si dice, Camerini, essendo ebreo, era espatriato in Francia per non dover sottostare alle leggi razziali del 1938. Benissimo. Ma di qui ad arruolarsi in un esercito straniero per combattere contro la propria patria, il passo è lungo. La storiografia ufficiale, quella dei vincitori, lo fa sembrare corto, cortissimo, argomentando che combattere contro il fascismo equivaleva a combattere per la libertà e dunque per il bene dell’Italia. Ma questo lo pensano e lo dicono, appunto, i vincitori. In qualsiasi altro Paese al mondo, combattere contro la propria patria, qualunque sia il governo esistente, è alto tradimento e merita la fucilazione nella schiena, non le medaglie e la stima generale. Camerini era figlio di un banchiere, dunque veniva da una famiglia molto ricca e aveva fatto ottimi studi: possibile che non avesse imparato questa elementare verità: che nessun eventuale torto subito autorizza a prendere le armi contro la propria Patria? Si tratta di uno dei fondamenti della civiltà europea e lo troviamo vigorosamente attestato già nella cultura greca antica. Si pensi al mito di Eteocle e Polinice, i due figli di Edipo che si uccisero a vicenda, combattendo sotto le mura di Tebe: indipendentemente dalle ragioni e dai torti soggettivi, al cadavere di Eteocle, che aveva difeso la patria, vennero tributati gli onori solenni, mentre quello di Polinice, che aveva preso le armi contro di essa, fu lasciato insepolto, per ordine del re Creonte…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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