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La rimozione del passato, dogma centrale del Potere

La natura del potere è in se stessa malvagia: questo pensava Jakob Burckhardt e lo esprimeva con un aforisma bruciante: Die Macht im Sicht ist Böse. Parliamo del potere, una categoria che di per sé rimanda all’idea della sopraffazione di qualcuno ai danni di qualcun altro; non stiamo parlando dell’autorità, concetto che esprime una realtà necessaria alla vita degli uomini civili. Il potere è malvagio perché ha come scopo e come fine se stesso, cioè quello di auto-riprodursi, a dispetto di tutto e calpestando qualsiasi altra cosa. La prima vittima del potere è la verità: esso è relativista per natura, per convenienza e per necessità, nel senso che deve, per mantenersi, adattare continuamente la realtà a ciò che è disposto a riconoscere di essa, e rimuovere quella parte che contrasta coi suoi fini e i suoi interessi. La prima verità da rimuovere è il passato, cioè la verità di quel che siamo stati, di quel che hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni, di quel che ha significato la nostra civiltà e la nostra tradizione. Ignorare il passato equivale a ignorare se stessi, cioè a ignorare chi si è e che cosa si sta fare al mondo. Quanto più un potere è oligarchico (l’autocrazia perfetta non esiste), tanto più ha bisogno di manipolare il passato, vale a dire la narrazione del passato: di adattarlo alle sue esigenze e di piegarlo ai suoi interessi. Quando il potere afferma se stesso tramite una rottura con il potere precedente, allora diviene necessario rimuovere radicalmente il passato: adoperarsi affinché le persone lo ignorino del tutto. Sappiamo che quando i sacerdoti di Amon ripresero il controllo dell’antico Egitto con l’avvento al trono del faraone Tutankhamon, essi decretarono che bisognava cancellare perfino il ricordo di suo padre, Akhenaton, reo di aver tentato una rivoluzione religiosa mirante a sostituire l’antico Pantheon con il monoteismo solare, per cui il suo nome venne raschiato via tanto dai papiri quanto dai monumenti in pietra e praticamente cancellato dalla storia, per secoli e secoli. Allora non esisteva altro mezzo per tramandare il passato se non la parola scritta (e naturalmente quella orale, che però richiede uno speciale allenamento mnemonico, tipico dei popoli senza scrittura), per cui la cosa era relativamente semplice. Oggi, nell’era della stampa e del computer, la cosa è alquanto più complesso; tuttavia non impossibile, se si pensa che i libri possono essere ritirati dal mercato e materialmente distrutti (vedi Fahrenheit 451, di Ray Bradbury) e che i siti e i canali internet possono esser chiusi e i programmi informatici resettati, eliminati o modificati a piacere. Resta, sul breve periodo, la memoria umana: troppo complicato sottoporre l’intera popolazione a delle tecniche mentali per la rimozione dei ricordi personali, almeno fino a quando il potere non troverà il modo — e pare che non manchi più molto — di inserire obbligatoriamente un microchip sottocutaneo in ogni persona e agire per mezzo di esso mediante impulsi elettromagnetici opportunamente mirati e programmati. Fino a quel momento, bisogna avere la pazienza di attendere che i diretti testimoni del passato più recente abbiano la compiacenza di morire di vecchiaia, portandosi nella tomba i loro inutili ricordi; solo dopo aver fatto il funerale all’ultimo di essi si potrà tirare un rigo sopra ciò che è stato, e procedere esattamente come se non fosse mai stato. Il potere, però, non brilla per la qualità della pazienza: sa, per millenaria esperienza, che deve sempre giocare d’anticipo, se non vuol correre il rischio di essere sorpassato dagli eventi — il che, per esso, sarebbe il principio della fine, specialmente se si tratta di un potere progressista, la cui essenza consiste nel guidare sempre gli uomini avanti, e non lasciarsi superare mai da qualcuno o da qualcosa.

Scriveva George Orwell nel suo celebre romanzo distopico 1984 (titolo originale: Nineteen Eighty-Four, London, Airstrip One, Oceania, 1949; traduzione di Gabriele Baldini, Milano, Mondadori, 1950, 1983, pp. 239-240):

La mutabilità del passato è il dogma centrale del Socing. Si ritiene infatti che gli avvenimenti del passato non abbiano alcuna realtà obbiettiva ma che sopravvivano solamente in documenti scritti ovvero nella memoria degli uomini Il passato è tutto ciò sul quale da un lato i documenti e dall’altro la memoria sono d’accordo. E dal momento che il Partito ha il controllo totale di tutti i documenti, così come quello, del pari totale, delle menti dei suoi membri, ne consegue che il passato è quello che il Partito decide che sia. Ne consegue inoltre che, sebbene il passato sia mutevole, esso non è mai stato mutato in un caso specifico. Poiché, non appena è stato ricreato in quella forma che si è resa necessaria in un determinato momento, da allora questa nuova versione È il passato, e non può essere mai esistito alcun passato in contrasto con essa. Ciò vale anche quando, come succede spesso, lo stesso avvenimento viene trasformato più e più volte, fimo a diventare del tutto irriconoscibile, pur nel corso di un solo anno. In ogni momento il Partito è in possesso della verità assoluta, ed è chiaro che l’assoluto non può mai essere stato diverso da ciò che è al momento presente. Si vedrà che il controllo del passati dipende soprattutto da una sorta di educazione della memoria. Verificare che tutti i documenti scritti concordino con l’ortodossia del momento non costituisce che un atto automatico dell’intelligenza. Ma è anche necessario, nello stesso tempo, RICORDARE che i fatti avvennero in quella determinata maniera. E se è necessario rimettere a posto la propria memoria, e raggiustarla con documenti scritti, è necessario che poi ci si DIMENTICHI di averlo fatto. Il procedimento per arrivare a ciò può essere appreso allo stesso modo in cui si apprende qualsiasi altro tipo di tecnica mentale. Esso È appreso dalla maggioranza dei membri del Partito, e certamente da tutti coloro che sono, insieme, intelligenti e ortodossi. In archelingua tale procedimento si chiamava, con frase onesta, "controllo della realtà". In neolingua si chiama ‘bipensiero’; sebbene il concetto di "bipensiero" comprenda un’infinità di altre cose. "Bipensiero" sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinioni palesemente contraddittorie e di accettarle entrambe. L’intellettuale di Partito sa in quale direzione i suoi ricordi debbono essere alterati: sa quindi perfettamente che sottopone la realtà a un processo di aggiustamento; ma mediante l’esercizio del "bipensiero" riesce nel contempo a persuadere se stesso che la realtà non è violata. Il procedimento ha da essere CONSCIO, altrimenti non riuscirebbe a essere condotto a termine con sufficiente PRECISIONE, ma deve anche essere INCONSCIO poiché altrimenti non saprebbe andar disgiunto da un senso VAGO di menzogna e quindi di COLPA. Il "bipensiero" giace proprio nel cuore del sistema cosiddetto Socing, dal momento che l’atto essenziale del Partito consiste nell’usare un inganno cosciente e nello stesso tempo mantenere una fermezza di proposito che s’allinea con una perfetta onestà. Spacciare deliberate menzogne e credervi con purità di cuore, dimenticare ogni avvenimento che è divenuto sconveniente, e quindi, allorché ridiventa necessario, trarlo dall’oblio per tutto quel tempo che abbisogna, negare l’esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trar vantaggio dalla realtà che viene negata… tutto ciò è indispensabile, in modo assoluto. Persino nell’usare la parola stessa "bi pensiero" occorre mettere in opera il "bipensiero" stesso, poiché usando la parola si ammette implicitamente che si sta adattando una realtà; con un primo, ingenuo atto di "bipensiero" tale ammissione viene soppressa, e così all’infinito, con una menzogna che si preoccupa d’arrivar sempre prima della verità. Insomma, è proprio mediante il "bipensiero" che il Partito è stato capace (e può continuare ad esserlo, per quanto ne sappiamo, per migliaia d’anni) di arrestare il corso della storia. Tutte le passate oligarchie hanno dovuto rinunziare al potere o perché si sono irrigidite, o perché si sono addolcite. Sia che divenissero, insomma, tropo sciocche o troppo arroganti, non furono capaci di adattar se stesse alle circostanze, e vennero rovesciate; se invece diventarono liberali per debolezza allorché avrebbero, invece, dovuto usare la forza, furono rovesciate anche allora. Vale a dire che esse caddero sia per la consapevolezza della propria natura sia per la NON consapevolezza di essa. È appunto opera del Partito l’aver prodotto un sistema filosofico nel quale entrambe le condizioni possono esistere simultaneamente. Ed infatti non si può pensare ad altro fondamento sul quale il dominio del Partito avrebbe potuto raggiungere appunto quel suo carattere di permanenza. Se si vuol comandare e persistere nell’azione di comando, bisogna anche essere capaci di manovrare e dirigere il senso della realtà. Poiché il segreto del comando consiste, per l’appunto, nel combinare, fra loro, da un lato la fede nella propria infallibilità e dall’altro la capacità di apprendere da passati errori.

Vi è una tremenda attualità nelle intuizioni di Orwell, solo parzialmente attinte dalla realtà dei regimi totalitari della prima metà del XX secolo, e per il resto frutto di autentica antiveggenza, unita a una notevole capacità di penetrazione psicologica. Si pensi a questa affermazione, riferita ai detentori del potere e a tutti i suoi servitori: Spacciare deliberate menzogne e credervi con purità di cuore. In questi giorni di drammatica emergenza scatenata dal Coronavirus, o meglio dal terrorismo psicologico deliberatamente attuato per diffondere il panico nella popolazione, le parole di Orwell acquistano un amaro sapore d’immediatezza. Abbiamo udito tutti, coi nostri orecchi, fior di giornalisti dire in televisione che i dati reali sula mortalità da Coronavirus non devono essere diffusi, perché in tal caso la popolazione non capirebbe la ragione di aver bloccato l’economia, costretto i cittadini agli arresti domiciliari e sospeso di fatto le libertà democratiche: non i dati reali bisogna diffondere (e cioè tre morti accertarti per Coronavirus, dato ufficiale dell’Istituto Superiore della Sanità), ma quelli truccati, cioè le decine e centinaia di persone morte con il Coronavirus, ma non di esso, bensì per la somma di svariate e gravi patologie preesistenti, sommate agli effetti debilitanti dell’età avanzata. Ebbene: allorché diffondono tali menzogne, i giornalisti sono consapevoli di essere venuti meno all’ABC dei loro doveri deontologici e dell’etica professionale? Probabilmente no, perché una parte di loro, quella chiamata coscienza, ha deciso di credere con assoluta purezza di cuore – e soprattutto d’intenzioni, si capisce! — che quelle spacciate al pubblico non solo menzogne, ovvero una trasmissione parziale e tendenziosa dei dati reali, ma la pura verità, o, il che ai loro occhi è la stessa cosa, la verità necessaria in questo momento di emergenza. E qui stiamo parlando di occultamento e falsificazione del presente; la menzogna verso il passato è sotto molti aspetti più facile ma la psicologia è la stessa: una sorta di autocensura e di auto-giustificazione preventiva, facendo appello a un presunto stato di necessità per scusare il venir meno al proprio dovere, morale e professionale. È la stessa psicologia che adottano quasi tutti gli uomini i politici, i quali non si vergognano di dire oggi l’esatto contrario di quel che proclamavamo solennemente appena ieri, e tuttavia non ritengono di aver nulla di cui giustificarsi, perché il loro movente era ed è sempre il bene comune, perciò qualsiasi cosa facciano ha comunque una giustificazione intrinseca. È il bi-pensiero di Orwell, tale e quale.

Un esempio molto chiaro che si può fare per la rimozione di un passato recente è la linea adottata dalla gerarchia cattolica e dalla stragrande maggioranza del clero dopo il Concilio, sul piano liturgico, pastorale e perfino dottrinale. Lo stravolgimento della vera Chiesa è stato tale da aver dato luogo a una nuova religione, che non è più quella cattolica, ma quella modernista, già solennemente condannata da san Pio X più di cent’anni fa, anzi, in forme ancor più palesemente eretiche di quelle del primo modernismo; e di una "dottrina" che non è nemmeno più di tipo religioso, ma tutta umana e per giunta massonica, nonostante sulla massoneria gravi ancora la scomunica del 1738, in seguito più volte rinnovata. Tuttavia, per una persona nata dopo il Concilio, non è affatto facile rendersi conto del gigantesco inganno: il cattolicesimo per lui è quello post-conciliare, nel quale è cresciuto, e del quale ha sempre sentito cantare le lodi da tutti; di quel che fosse il cattolicesimo prima del Concilio non sa nulla e comunque gli viene detto e ripetuto che non vi è stata alcuna rottura, ma un benefico rinnovamento nell’ambito della stessa fede e dello stesso Magistero. Chi ha visto cos’era la Chiesa e cos’era la fede cattolica prima del Concilio, ormai si è portato il ricordo nella tomba; restano quelli che all’epoca erano bambini, e perciò oggi hanno dai sessant’anni in su. Se la loro memoria è buona e le impressioni della dottrina di allora, della Prima Comunione e di tutto il resto, sono rimaste vive, costui sa che ci sono stati un tradimento e una truffa colossali, per la semplice ragione che ha visto l’una e l’altra epoca e può fare un confronto spontaneo, eventualmente confermato dallo studio. La cosa è evidente, ma solo per chi la vuol vedere: basta consultare un qualsiasi manuale di teologia di prima e dopo il 1965, ad esempio alle voci ecumenismo o libertà religiosa; e qualsiasi amante di storia dell’arte, entrando in una chiesa e osservando l’altar maggiore, la collocazione del Santissimo, la disposizione dei banchi, coglie di primo acchito la differenza col cattolicesimo preconciliare; per non parlare della musica sacra. Allora il coro cantava per Dio, oggi canta per essere ammirato; allora le note solenni dell’organo creavano un’atmosfera mistica, oggi quelle della chitarra immergono i fedeli nella dimensione mondana. Rimozione del passato, appunto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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