La voce dei profeti ci aveva messi in guardia
18 Marzo 2020Non è vero ciò che è reale, ma ciò che dicono i media
20 Marzo 2020Max Scheler (Monaco di Baviera, 22 agosto 1874-Francoforte sul Meno, 19 maggio 1928), formatisi sul pensiero di Dilthey, di Simmel, di Nietzsche e soprattutto di Franz Brentano, è il pensatore che ha applicato la fenomenologia di Edmund Husserl all’ambito dell’etica, e ha cercato d’individuare delle vie percorribili dopo il fallimento delle maggiori filosofie della modernità nel dare una risposta ai problemi morali dell’uomo. Il suo è un esistenzialismo personalistico, che fa cioè della persona il centro di tutta la problematica esistenziale: un progetto apprezzabile di superamento della modernità, e tuttavia, a nostro avviso, intrinsecamente contraddittorio, perché ogni personalismo è essenzialmente un umanismo, mentre l’esistenzialismo è un caso specifico del vitalismo, per cui la sua prospettiva ondeggia fra due poli distinti che però non vengono riconosciuti come tali, col risultato che la prospettiva ora sembra essere quella della persona, ora quella dell’esistenza, senza una chiara differenziazione, anche se la prevalenza sembra essere accordata comunque alla persona (cfr. il nostro saggio Non si dà, per l’etica di Max Scheler, amore del bene, ma solo amore della persona, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 05/906/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 15/11/17).
Scheler ritiene che la differenza fondamentale fra l’uomo e l’animale stia nella relazione con il mondo. L’animale è totalmente immerso nel mondo, "accetta" la realtà del mondo così come essa è, mentre l’uomo reagisce al mondo perché vede che le cose del mondo offrono una "resistenza" alla loro comprensione integrale, cioè si accorge che per coglierne l’essenza è necessario fare astrazione dalla realtà così come essa appare. Il compito della filosofia è pertanto quello di cogliere l’idea originaria delle cose, come voleva Platone; o, se si preferisce, di trascenderle, secondo l’insegnamento del buddhismo, mediante un atto della volontà: il contrario di ciò che pensava Schopenhauer, secondo il quale è proprio la volontà che deve essere abbandonata, perché essa genera attaccamento e dolore, e quindi è il "male". Invece per Scheler ciò che va spento non è l’impulso della volontà, ma il potere che la rappresentazione del mondo esercita sulla coscienza, e che tende a nascondere il vero carattere della realtà. Le cose, infatti, sono "male" perché esercitano una pressione, una costrizione sull’uomo, già solo per il fatto che, esistendo, lo limitano e quindi gli si oppongono, addirittura lo opprimono. La dialettica uomo-mondo, per lui, si risolve in una vittoria dello "spirito", che è libertà, contro la resistenza delle cose, che è pesantezza e nascondimento. Scheler è persuaso, come Husserl, della piena intenzionalità della coscienza: non si dà coscienza astratta di sé, ma solo coscienza di qualche cosa. L’originalità del pensiero di Scheler è che in esso la libertà dell’uomo di andare oltre l’ambiente che lo circonda e del dato immediato così come gli appare, per cogliere la realtà intima delle cose, non equivale a un neoidealismo, ma a un essenzialismo che riconosce la realtà vera in un nucleo che si trova al di là dei fenomeni. A ben guardare, si tratta proprio di quel Noumeno che Kant aveva dichiarato inconoscibile, per cui la teoria della conoscenza di Scheler, dalla quale egli trae i fondamenti della sua concezione etica, è una delle forme che assume la rivolta contro il criticismo kantiano: se è vero, come è vero, che Kant è uno dei maggiori esponenti del paradigma della modernità. Solo che poi Scheler, da personalista, e sempre sulla base dell’intenzionalità degli atti della coscienza, trae la conclusione che il principio etico fondamentale non è la ricerca e l’attuazione del Bene, ma l’amore della persona, cosa che riporta la coscienza a "volare basso", perché non si può amare rettamente una persona, cioè non la si può amare in maniera assoluta e oggettiva, se non nella verità, e la verità dell’etica è il Bene, non il bene soggettivo delle singole persone.
Ma vediamo più da vicino, e con le sue stesse parole, l’approccio di Scheler al problema del rapporto fra l’uomo e il mondo. Scrive ne La posizione dell’uomo nel cosmo (titolo originale: Die Stellung des Menschen im Kosmos, 1928; Milano, Fabbri Editori, 1970; cit. in: A.A.V.V., Il testo filosofico, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 1993, vol. 3, 2, pp. 228-29, 230-31):
Se (…) vogliamo penetrare nell’essenza dell’uomo, dobbiamo mettere in evidenza la STRUTTURA DI QUEI SINGIOLI ATTI CHE CONDUCONO all’atto stesso dell’ideazione. Qui l’uomo segue, più o meno, una tecnica che consiste nel sopprimere a titolo di esperimento il CARATTERE DI REALTÀ delle cose e del mondo. In questo tentativo, in questa tecnica per virtù della quale si colgono le essenze, il logos delle essenze stesse si spoglia del mondo concreto e sensibile, in quanto "oggetto". Come abbiamo visto, l’animale vive immerso nella realtà concreta, alla quale è di volta in volta connesso un punto nello spazio o nel tempo, un "hic et nunc", e inoltre un modo di essere contingente, dovuto a quell’"aspetto", di volta in volta, assunto dalla percezione sensibile.
Esser uomini significa preferire, nei confronti di questo tipo di realtà, un energico "no". Buddha intuiva tutto questo, quando diceva: "È meraviglioso contemplare ogni cosa, ma è terribile esser le cose", mettendo in atto una tecnica di de realizzazione del mondo e dell’io. E lo sapeva anche Platone, quando faceva dipendere la visione delle Idee dal distacco dell’anima dal contenuto sensibile delle cose e dal ritorno in se stessa, per ritrovarvi le cose "originarie". E questo pure intende Edmund Husserl, quando collega la conoscenza delle idee a una "riduzione fenomenologica", vale a dire a una "neutralizzazione" o a una "messa tra parentesi" dei coefficienti esistenziali contingenti delle cose del mondo, al fine di cogliere la loro "essentia". (…)
Che cosa dunque vuole significare quel "no", di cui ho parlato? Che cosa significa "de-realizzare" o "ideificare" ("ideieren") il mondo? NON significa come vuole Husserl, sospendere il GIUDIZIO di esistenza (che è alla base di ogni percezione naturale); il giudizio: "A è reale" esige, con il suo stesso predicato, un contenuto VISSUTO INTERIORMENTE, se non si vuole che "reale" si riduca a una parola vuota. Significa piuttosto ABOLIRE, annullare (quanto a noi), a titolo di prova, lo stesso MOMENTO DELLA REALTÀ, con il suo correlato affettivo; significa eliminare "l’angoscia di quanto è terreno", che, come dice Schiller, "si dissolve" solo in quelle regioni abitate dalle "pure forme". Ogni realtà infatti, solo in quanto realtà e indipendentemente da ciò che essa è, esercita su ogni essere vivente anzitutto una pressione che limita e opprime, e che ha come suo correlato la paura "pura" (priva di qualsiasi oggetto). Se è vero che l’esistenza è "resistenza", quest’ATTO fondamentale ASCETICO di de realizzazione può consistere solo nell’abolite e neutralizzare, appunto, quell’IMPULSO vitale in rapporto al quale il mondo appare anzitutto come resistenza; quell’impulso che è altresì la condizione per percepire sensibilmente quell’essere "ora-qui-così" della realtà contingente. E poiché le tendenze e i sensi vanno insieme, filosofare, come dice Platone, è un "eterno spegnersi": e perciò ogni forma espressa di razionalismo è fondata, in ultima analisi, su un "ideale ascetico". Questo atto di derealizzazione può essere compiuto solo da quell’essere che chiamiamo "spirito". Solo lo spirito, nella sua forma di "volere" puro, può impedire con un atto di volontà, e cioè con un ATTO DI INIBIZIONE, l’attualizzarsi di quel centro dell’impulso affettivo, nel quale abbiamo riconosciuto la via d’accesso alla realtà effettiva come tale.
L’uomo è perciò l’essere vivente che, in virtù del suo spirito, è in grado di comportarsi in maniera essenzialmente ASCETICA nei confronti della sua vita, che lo soggioga con la violenza dell’angoscia; può soffocare e reprimere i propri impulsi tendenziali, vale a dire RIFIUTARE loro il nutrimento delle rappresentazioni percettive e delle immagini. Paragonato all’animale che dice sempre "sì" alla realtà effettiva — anche quando l’aborrisce e la fugge — L’UOMO È "COLUI CHE SA DIR DI NO", l’"ASCETA DELLA VITA", l’eterno protestatore contro quanto è soltanto realtà. Tutto ciò è affatto indipendente dall’intuizione e dal problema cosmologico; sia che si cerchi (come nel caso di Buddha, che comunque ha dato a questo problema una risposta quanto mai profonda) un librarsi dello spirito verso le sfere irreali delle essenze, per attingere l’indifferenza, dato che si considera la realtà stessa come un male "omne ens est malum"); sia che, come sembra giusto, si cerchi di ritornare dalla sfera delle essenze alla realtà, all’esser "ora-qui-così", per rendere tale realtà migliore (considerando anzitutto l’esistenza indipendentemente dal bene e dal male); si viene così a identificare la vera vita e il vero DESTINO DELL’UOMO con questo ritmo eterno di idee-realtà, spirito-impulso: nel COMPROMESSO della loro costante tensione.
Mediante l’esercizio della volontà, dunque, l’uomo, creatura spirituale (e razionale) può emanciparsi dalla schiavitù della pressione che il mondo esercita su di lui. Tale pressione è in primo luogo di tipo psicologico: l’uomo si sente oppresso dalle cose perché vede che sono multiformi, elusive, indecifrabili, e a causa di ciò egli sente di non poterle controllare, di non poterle prevedere, di non poterle uniformare ai suoi bisogni e desideri, cosa che genera in lui un senso di angoscia. Per liberarsi dall’angoscia esistenziale l’uomo deve quindi manifestarsi come libertà e come spirito: deve, in un ceto senso, sospendere il suo giudizio sulle cose così come esse appaiono, e privarle così del loro potere di suggestionarlo e impressionarlo, ciò che è possibile solo a condizione di assumere un atteggiamento di tipo ascetico verso il mondo. L’asceta è colui che rifiuta di farsi condizionare dalle cose del mondo, annullando il potere che esse esercitano su di lui; e così deve essere ogni uomo che voglia conservare e affermare la propria libertà nel mondo: un asceta in cammino entro un mondo di cose che non sono quello che sembrano, sono diverse da come appaiono, hanno una essenza che si rivela solo a chi si sbarazza della soggezione alla loro coseità. E come, per Platone, la bellezza sensibile è una scala che conduce, passo dopo passo, verso la Bellezza assoluta, che è l’Idea del Bello in sé, così per Max Scheler bisogna comprendere che è un errore fermarsi al dato immediato delle cose, al fenomeno, perché in tal modo se ne subisce il potere, fatto di aspettative buone e cattive, di speranze e di timori, mentre la libertà della coscienza si esercita nello sciogliere quel potere, affermando lo spirito.
La differenza fra Husserl e Scheler è che il primo (il cui principale interesse non è etico, come per Scheler, ma gnoseologico), per giungere all’essenza delle cose, pretende di sospendere il giudizio di realtà su di esse, ciò che per lui equivale a "mettere fra parentesi" la loro ovvietà nell’atto della epoché, cosa peraltro impossibile perché la realtà delle cose ci si impone con l’evidenza della percezione sensibile; mentre il secondo vuole abolire il momento della realtà con tutto il suo portato affettivo, generatore di angoscia. L’obiettivo è solo in apparenza meno ambizioso e più realistico; di fatto, abolire il momento della realtà è altrettanto impossibile che abolire il giudizio di realtà delle cose. E ciò proprio a causa di ciò che, per Scheler, è il male da combattere, cioè la dimensione affettiva che ci lega alle cose. Di fatto, ciascuno di noi, nella vita ordinaria, non consoce le cose in maniera perfettamente obiettiva, come si sforza di fare lo scienziato in laboratorio, o il matematico alle prese con le sue formule; le consoce per via sensoriale immediata, cioè anche per via affettiva. Le cose ci appaiono per quello che sono in base al nostro stato d’animo, alla nostra sensibilità, al nostro retroterra spirituale, culturale, psicologico. Così le vede il bambino, per il quale una cosa è grande o piccola non in base alle dimensioni oggettive, ma in base alla sua risonanza affettiva; e lo stesso si dica per ciò che è vicino o lontano, bello o brutto, desiderabile o temibile, e così via. L’adulto vede le cose in maniera relativamente più oggettiva, ma senza mai spogliarle del tutto di quell’alone affettivo per cui la risonanza che provocano in noi influisce a sua volta sul giudizio che diamo di esse. Un tipico esempio di ciò è la durata del tempo. Anche per l’adulto, specie se si trova in circostanze nelle quali la sua sensibilità viene acuita, lo scorrere del tempo appare lento o veloce in maniera totalmente soggettiva, perché totalmente emozionale. Questo esempio ci fa capire come la nostra percezione delle cose e il giudizio che diamo di esse sono inseparabili dalla dimensione affettiva entro la quale ci si manifestano. Se si manifestassero come oggetti di laboratorio, come microbi o batteri sul vetrino del microscopio, e noi potessimo valutarle freddamente, asetticamente, come fa lo scienziato, allora potremmo separare la nostra percezione del mondo dalla dimensione affettiva; ma nella vita reale questo è impossibile. Prendiamo, ancora, il caso di un bambino che abbia trascorso una bellissima giornata con la sua famiglia, in un prato pieno di mughetti: l’odore di mughetto resterà associato, per lui, a quella giornata felice e lo accompagnerà per tutta la vita, sotto una connotazione estremamente positiva. Il mondo, per noi, è il mondo della nostra percezione, ed essa è inseparabile dalla sfera affettiva. Pertanto, come si può sospendere il momento di realtà, con tutti i suoi affetti? Per riuscirci, dovremmo essere delle macchine, non più uomini; ovvero delle creature post-umane…
Resta il fatto che c’è qualcosa di simpatico nel tentativo di Scheler di guidare gli uomini moderni fuori dalla palude di un realismo crudamente materialista, nel suo volerli indirizzare verso una visione più ampia e comprensiva del reale, fatta di spirito più che di apparenze fenomeniche. È difficile non simpatizzare con un filosofo che, come scrive Michele Federico Sciacca (La filosofia oggi, vol. 1, Marzorati, Milano, 1958, p. 229)
nella patria del trascendentalismo rappresenta la più energica ed efficace protesta contro il trascendentalismo, una delle voci più robuste e più vive in favore dell’essenza della persona, della trascendenza e personalità del divino; nella patria del vitalismo, ha difeso energicamente la distinzione fra vita biologica e vita spirituale, fra valori vitali e valori spirituali e religiosi ed il primato di questi ultimi; nella patria negatrice del vero spirito del cristianesimo e della sua etica (Nietzsche) ha posto il valore del Sacro al culmine della gerarchia dei valori; nella patria di Hegel (che ammazza l’uomo nell’Idea e l’idea nel dialettismo storicista) e di Marx (che ammazza l’uomo nell’«economico»), rappresenta il più efficace ritorno all’uomo e all’umano, tanto caratteristico del nostro tempo, pur così inumano.
Tutto giusto e condivisibile. Ma si può davvero ritornare all’umano, se non si esce dalla prospettiva fenomenologica, esistenzialista e personalista, che è pur sempre parte, e parte notevolissima, dell’orizzonte teoretico e pratico della modernità? Se la malattia dell’uomo è la modernità, non si esce dalla malattia senza tornare alla metafisica e quindi all’Essere; senza tornare, con umiltà e contrizione, a quella Verità che è stata tralasciata e disprezzata proprio in nome di quel ora-qui-così che per Scheler è un ritorno all’esistenza, indipendentemente dal bene e dal male — e questa è la lezione di Nietzsche; mentre, dal nostro punto di vista, non è che un altro nome di quell’hinc et nunc puramente fattuale, puramente fenomenico, dal quale, in teoria, ci si vorrebbe emancipare per riscoprire la pura essenza del reale.
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