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Prigionieri dell’ipnosi collettiva

La vicenda che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, anzi, a causa di ciò che crediamo essere dovuto al Coronavirus, è emblematica di una nostra condizione assai più ampia: perciò faremo una breve riflessione sul primo aspetto, quello contingente, per poi allargare la prospettiva sul secondo, quello generale. Ci sarà chiaro, allora, che cadremo prigionieri di ogni virus, di ogni allarme sanitario o di qualunque ogni altro allarme – si badi, non di ogni pericolo: perché siamo sotto l’effetto di un allarme più che di un pericolo — chissà quante altre volte, con conseguenze catastrofiche sul piano pratico, politico, psicologico, ogni qualvolta il potere, per mezzo dei mass-media, griderà: Al lupo, al lupo!, finché non avremo capito che il potere ha una simile capacità di condizionarci solo perché noi gliela concediamo, abdicando alla nostra facoltà critica e razionale e lasciandoci dominare da stati d’animo puramente emotivi.

Partiamo dal Coronavirus. Non siano microbiologi né scienziati, eppure rivendichiamo il sacrosanto diritto di avere un’opinione in merito: e già questa è una trasgressione. Vorrebbero costringerci al silenzio sulle cose che ci toccano più da vicino, in none del diritto a parlare dei soli esperti: ciò significa che non siamo più in democrazia, ma in tecnocrazia; buono a sapersi. Quelli che non possiedono specifiche competenze tecniche devono rassegnarsi a tacere e obbedire: questa è la dittatura dei tecnici, vista e denunciata da Ernst Jünger; a suo tempo ne avevamo già parlato (cfr. Ernst Jünger, testimone inquieto del nostro tempo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 1/06/07 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 24/11/17; e Il soldato di Jünger è l’uomo-massa in rivolta contro la massificazione, cioè contro se stesso, rispettivamente l’01/03/11 e il 12/01/18). Ma in nome di che cosa possiamo rivendicare il diritto ad avere un’opinione su una questione che non è di nostra pertinenza, dal momento che non ne abbiamo una conoscenza adeguata? È semplice, e non si tratta di una presunzione irragionevole: ce lo permettiamo in virtù del fatto che l’aspetto tecnico è solo uno dei lati della questione che ci preme, e rispetto alla quale le autorità, e la società nel suo insieme (almeno finché siamo ancora in democrazia; altrimenti, ci dicano chiaro e tondo che la democrazia è sospesa fino a nuovo ordine) devono decidere quale linea d’azione adottare in vista del bene comune. Nel caso della diffusione di una malattia contagiosa, ma il ragionamento vale per qualunque altra situazione dagli effetti potenzialmente equivalenti, i lati di cui bisogna tener conto sono quello tecnico, quello organizzativo, quello economico e finanziario, quello sociale, quello psicologico, e infine, ma più importante di tutti, quello politico: nel senso nobile della parola, come arte del bene comune. È la politica, infatti, che deve operare la sintesi conclusiva fra le varie istanze, fra le diverse prospettive e le diverse ricette per affrontare un determinato problema; e poi passare alla fase operativa, con le decisioni da prendere e le cose da fare. La politica non può delegare questo ad alcun altro; se lo fa, si auto-squalifica irreparabilmente e dichiara in faccia al mondo non solo la sua irrilevanza, ma anche la sua inutilità. Tanto varrebbe, a quel punto, che i politici se ne andassero a casa, governo e parlamento compresi, e che tutto il potere rimanesse concentrato in una équipe di tecnici, di esperti di questioni specifiche. Inutile dire che a quel punto, sul medio e lungo periodo, non ci sarebbe più bisogno di consultazioni elettorali, perché se la politica non sa decidere da sé, a quale titolo i comuni cittadini potrebbero avanzare la pretesa di far valere la loro opinione e mandare al potere l’opinione della maggioranza? Niente affatto: il potere dovrebbe rimanere nelle mani dei tecnici, i soli che possiedono le conoscenze per saper riconoscere un determinato problema e per decidere quel che c’è da fare, o da evitare, riguardo alla maniera più idonea di affrontarlo.

Per fare un esempio: poniamo che i tecnici, in questo caso i biologi, dicano che siamo in presenza di una vera e propria pandemia (del che, sia detto per inciso, non tutti sono persuasi: ma questo, ora come ora, è meglio non dirlo ad alta voce, perché si rischia il linciaggio), cosa che renderebbe necessario vaccinare o – non potendo vaccinare, poiché manca il vaccino – sottoporre a un tampone l’intera popolazione e chiudere, per misura precauzionale, tutti i luoghi dove le persone stanno a contatto, comprese le fabbriche e ogni genere di servizi, tranne quelli assolutamente indispensabili: vale a dire chiudere in casa, senza eccezione, tutti i cittadini, organizzando un sistema di rifornimenti alimentari e medicinali che passino casa per casa, con tuta antibatterica e mascherina, e un sistema di pagamento computerizzato a domicilio. Facciamo anche notare, sempre di sfuggita, che nemmeno un approccio così radicale è immune da difficoltà e contraddizioni interne: anche in questi giorni abbiamo visto fior di specialisti disputare in maniera anche assai vivace fra di loro, a riprova del fatto che il parere della scienza non è mai univoco come sovente i divulgatori scientifici, che non sono scienziati ma che proprio per questo vogliono far vedere di essere più scientisti degli scienziati stessi, sono soliti raccontare. E si noti che il disaccordo fra tecnici non verte su questioni secondarie, ma anche su questioni centrali; e ciò apparirebbe in maniera ancor più clamorosa se fosse possibile un vero e libero confronto fra i microbiologi, perché nella scienza sta accadendo la stessa cosa che accade al di fuori di essa: nella società si tende ad imporre il punto di vista della scienza, ma all’interno della ricerca scientifica non c’è la piena libertà di espressione, perché esprimere valutazioni che si discostano troppo dal paradigma ufficiale significa rischiar l’espulsione dall’ordine medico, come è accaduto a quei medici che hanno espresso opinioni eterodosse riguardo all’obbligo dei vaccini. E tuttavia ammettiamo, per amore d’ipotesi, che vi sia unanimità, o almeno un larghissimo consenso fra i tecnici.

C’è poi il lato organizzativo: qui vengono avanti un altro tipo di tecnici, non gli scienziati ma gli amministratori pubblici, i funzionari della protezione civile, e soprattutto i sindaci e i presidenti delle regioni: a loro spetta dire se quei provvedimento siano opportuni, in primo luogo e dal loro punto di vista; poi, se siano materialmente attuabili. Bisogna tener conto del loro responso: altrimenti sarebbe come voler fare il pane senza disporre della farina necessaria. Quindi è la volta degli economisti e degli esperti di finanza: anch’essi dei tecnici, ma di un altro tipo ancora. Essi hanno non solo il diritto, ma il dovere di dire se quel genere di provvedimenti siano sostenibili, e prospettarne le prevedibili conseguenze. Siamo già al terzo giro di consultazioni. Poniamo che i biologi abbiano detto: è necessario fare così; e che anche gli amministratori si siano dichiarati favorevoli. Ma se gli economisti dicessero che quei provvedimenti sono insostenibili e che provocherebbero il crollo irreversibile dell’economia e il crack finanziario dello Stato, forse, a quel punto, sarebbe opportuno riflettere a lungo prima di prendere una decisione, e soppesare con la massima serietà anche questo lato della medaglia. Oltre tutto, se l’economia crolla e la finanza implode, la sanità verrebbe immediatamente abbandonata a se stessi: e allora chi si prenderebbe cura dei pazienti negli ospedali? Chi pagherebbe gli stipendi al personale sanitario? Da dove verrebbero i pasti per i ricoverati, l’elettricità per far funzionare le attrezzature terapeutiche, la benzina per le autoambulanze, eccetera? E già qui saremmo arrivati in un vicolo cieco. Quarto giro di consultazioni: l’aspetto sociale. Qui la parola passerebbe dai tecnici in senso stretto a quanti hanno la capacità di valutare l’impatto sociale di una decisione come quella di arrestare completamente le attività produttive e di commissariare o medicalizzare l’intera popolazione: non tanto i sociologi — la sociologia, comunque, non è una scienza, come non lo è neppure la psicologia — quanto, appunto, i politici, i quali finalmente tornerebbero ad aver voce in capitolo. E non si pensi ai politici, lo ripetiamo, nell’accezione comune della parola, che è immancabilmente connotata di una valenza negativa, stante il giudizio del cittadino medio nei confronti della classe politica del nostro Paese; ma ai politici nel senso etimologico della parola, coloro i quali si occupano della polis e quindi del bene comune. Nel formulare una valutazione, essi dovranno tener conto anche dei fattori legati alla tutela dell’ordine pubblico, e quindi dovranno sentire il parere dei prefetti, dei vertici delle forze dell’ordine, e avere anche un parere dei costituzionalisti, cioè della magistratura, perché non stiamo parlando di noccioline ma della sostenibilità di quelle misure dal punto di vista della tenuta della nazione, oltre che della loro legittimità dal punto di vista giuridico. Inoltre i politici dovranno tener conto dei fattori psicologici e perciò — quinto giro — consultare anche gli specialisti in materia, gli psicologi, ma sempre riservandosi di utilizzare i dati da essi offerti e non mettendosi al rimorchio. Potrebbe emergere, ad esempio, che mettere in quarantena, per un tempo illimitato, sessanta milioni di persone, rischierebbe di produrre effetti gravissimi sulla stabilità psichica di molte persone, cominciando ovviamente da quelle più fragili: ma chi di noi non si porta addosso una certa dose di fragilità psicologica ed emotiva, frutto del sistema di vita tipicamente moderno, che non favorisce la stabilità e l’equilibrio ma crea continuamente ansia e senso d’incertezza? Ora, ciò a cui stiamo assistendo, e non solo nel nostro Paese, ma un po’ in tutto il mondo, con l’eccezione dei governi dittatoriali, come la Cina, e di quelli che tengono in equilibrio democrazia e autorità, come la Russia (perché hanno capito che la democrazia liberale pura e semplice è il cavallo di Troia del potere finanziario mondiale) è che la politica si è ritirata, ha praticamente abdicato e si è rimessa al parere dei tecnici, precisamente degli scienziati, che sono i super-tecnici e che, in una situazione di paura, anzi di panico (in Germania le persone si prendono già a botte per accaparrarsi la carta igienica nei supermercati), si vedono riconosciuto da ogni parte il ruolo di quelli che devono pronunciare la parola salvifica e decisiva. Gli altri tecnici, gli amministratori, gli economisti, hanno assai meno voce in capitolo. Quelli però che ne hanno meno di tutti sono, paradossalmente, proprio quelli che dovrebbero governare, cioè quelli che sono stati eletti non per fare ciò che dice qualcun altro, per quanto tecnicamente preparato, ma ciò che giudicano essere il bene per la nazione, decidendo in maniera autonoma e rispettando il mandato ricevuto dagli elettori. Mandato che non include, evidentemente, la rinuncia alla democrazia, perché sarebbe contraddittorio e un tantino immorale (voi che ne dite?) adoperare il voto dei cittadini per espropriare "legalmente" i cittadini stessi del diritto di voto.

È tempo adesso di allargare lo sguardo e considerare queste problematiche in una prospettiva molto più ampia. La vicenda del Coronavirus è solo un caso particolare, e non è neanche il primo, di una problematica assai più vasta, che ruota attorno allo sfruttamento della paura da parte del potere. Non vogliamo qui discutere se il Coronavirus sia giunto a spandersi fra le popolazioni per via naturale o per via artificiale, ossia criminale, da parte di qualche agenzia militare legata ai servizi segreti (di chi, secondo noi, lo abbiamo già detto: della superpotenza statunitense, a sua volta manovrata da poteri ancor più occulti e innominabili); e neppure quali siano le reali caratteristiche di questo virus e quale la sua pericolosità oggettiva, cosa della quale abbiamo già parlato, sostenendo, fin dall’inizio, che tale pericolo è stato enormemente ingigantito dai politici e da tutto l’apparato mediatico, anche sotto la suggestione dell’ambiente medico e scientifico. Tale opinione si è formata in noi non sulla base di conoscenze specifiche, che non possediamo, ma mettendo a confronto alcuni interventi di diversi rappresentanti di quell’ambiente e confrontandoli con l’approccio di altri governi e di altre comunità mediche e scientifiche. Ciò su cui vogliamo richiamare l’attenzione, adesso, è un altro aspetto della questione: e cioè il fatto che non è necessario che esista davvero un pericolo molto grave, per ottenere gli stessi effetti che se ci fosse davvero, ossia il panico fra la popolazione e la sua spontanea accettazione che siano sospese le garanzie democratiche più elementari e che sia arrestata bruscamente l’intera attività produttiva e commerciale. In altre parole, chi controlla i mass-media controlla anche le emozioni della gente: e se la gente viene bombardata decine e centinaia di volta al giorno da notizie angosciose e allarmanti, mentre già il solo fatto di trovarsi praticamente agli arresti domiciliari a tempo indefinito, provoca, di per sé, una sensazione di frustrazione, sbigottimento e aggressività repressa, il risultato è che chi agita lo spauracchio del pericolo ha in mano, letteralmente, la vita o la morte dei popoli e delle nazioni, dai più piccoli ai più grandi. Ebbene, una semplice induzione permette di risalire al primo anello e, come avrebbero detto i filosofi classici, alla causa prima di una tale strategia. I mass-media sono di proprietà delle grandi banche, e le grandi banche sono anche le più dirette interessate alle politiche sanitarie dei governi, e agli affari che si possono fare con la malattia (vedi vaccinazioni obbligatorie), o con la paura di essa, grazie al controllo che esercitano sulle multinazionali farmaceutiche. Così, un passo dopo l’altro, siamo arrivati a individuare il probabile motore originario di uno scenario di terrore permanente a livello mondiale. Ieri è stato l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, oggi il Coronavirus in tutta Europa e anche negli altri continenti. Si direbbe che il raggio d’azione di una tale strategia si allarghi sempre più, mano a mano che l’esperienza va dimostrando la sua efficacia impressionante…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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