La vera fragilità è non accettare l’idea della morte
16 Marzo 2020Prigionieri dell’ipnosi collettiva
18 Marzo 2020Cani, volete vivere in eterno? (Hunde, wollt ihr ewig leben, Wien, Paul Zsolnay Verlag, 1958) è il titolo di un romanzo autobiografico dello scrittore austriaco Fritz Wöss (pseudonimo di Friedrich Weiss; Vienna, 19 febbraio 1920-ivi, 3 febbraio 2004), tradotto in italiano e pubblicato dalla casa editrice Baldini & Castoldi nel 1960, nel quale egli narra le proprie esperienze sul fronte orientale durante la Seconda guerra mondiale, dopo che, per effetto dell’Anschluss, si era trovato a prestare servizio nella Wehrmacht tedesca, fino a quando cadde prigioniero dei sovietici durante la battaglia di Stalingrado. Il titolo è una ripresa, in chiave ancor più cruda, di una celebre frase pronunciata da Federico II di Prussia alla battaglia di Kolin del 18 giugno 1757, durante la Guerra dei Sette anni, non lontano da Praga. Vedendo che i soldati del 3° Reggimento di fanteria esitavano ad avanzare sotto il fuoco nemico, il re afferrò la loro bandiera e si mise personalmente alla loro testa, rincuorandoli con l’esempio, ma anche sferzandoli con queste sprezzanti parole: Furfanti, volete vivere in eterno? Per la cronaca, né la frase né il gesto furono sufficienti a strappare la vittoria, poiché la battaglia si chiuse con la vittoria degli austriaci del conte Leopold Joseph Daun, nettamente superiori di numero. Certo, una frase di quel genere è difficilmente immaginabile al di fuori dell’ambiente militare e di un contesto bellico; al giorno d’oggi non sono molti gli eserciti nei quali un comandante, per quanto coraggioso e amato dai soldati, potrebbe rivolgersi a loro in simili termini. Ciò accade perché nel corso della modernità la cultura dei diritti, di matrice liberal-democratica, cioè massonica, è penetrata così a fondo, che perfino un soldato in guerra tende a considerare la morte come un’indesiderabile estranea e pur contemplando, ovviamente, la possibilità di fare il fatale incontro con essa, si augura nondimeno che ciò non avvenga mai e ritiene legittima la speranza di riportare la pelle a casa. Al tempo dei valori cavallereschi, il guerriero che andava in guerra non era accompagnato da un simile stato d’animo; pensava, al contrario, che la sola maniera onorevole di tornare a casa fosse quella che passa per la via sanguinosa della battaglia e della vittoria. Questa mentalità, che era propria degli eroi greci, dei consoli e dei centurioni romani del periodo repubblicano e, poi, dei nobili medievali, specialmente in un contesto religioso, come le Crociate o le campagne contro i turchi ottomani che avevano invaso l’Europa, è poi gradualmente sbiadita nelle coscienze ed è stata sostituita dall’idea, tutta moderna, che la vita sia un diritto garantito per legge e che solo in casi estremamente eccezionali l’autorità statale, per quanto legittima, possa chiedere al cittadino di esporla ad un rischio, sia pure per la difesa della Patria, dei suoi valori e dei suoi interessi vitali. L’ultimo esercito moderno nel quale si è conservato lo spirito cavalleresco, impregnato di spirito di sacrificio e senso dell’onore, è stato quello giapponese, i cui soldati, marinai e aviatori, ancora nel 1945, quando tutto era ormai perduto, continuavano a battersi con ostinazione incrollabile, a effettuare cariche di fanteria e attacchi aeronavali suicidi, a darsi la morte piuttosto di arrendersi, e a nascondersi nella foresta per non cadere in mano al nemico, perfino dopo anni che la guerra era finita, fondendo il codice guerriero dei samurai e lo spirito di abnegazione dello scintoismo.
Al di fuori dell’ambiente militare, comunque, nella società civile e anche nell’ambito della comunità religiosa, l’idea che si possa sacrificare la vita per la difesa della Patria o per testimoniare la propria fede ha perso terreno già da molto tempo e ormai sono ben pochi ad averla conservata. Il pacifismo come orizzonte ideologico e l’abolizione della pena di morte sul piano giuridico hanno rafforzato la convinzione che quello alla vita sia un diritto incondizionato (ma senza la proprietà transitiva: vedi l’aborto e l’eutanasia) e che non solo sia illecito e immorale che qualcuno ne richieda il sacrificio, ma che la natura sia una ladra allorché la morte si presenta a riscuotere il suo tributo prima del tempo, vale a dire prima della legittima aspettativa di vita, che le persone ricavano dalle statistiche relative alla sua durata media, la quale subito diviene, appunto, nell’immaginario collettivo, un vero e proprio diritto, anche se implicito.
L’epidemia di coronavirus ci ha messo bruscamente di fronte a una questione che la stragrande maggioranza di noi aveva semplicemente rimosso: la questione della morte. La gente ha paura e si chiude in casa: ha paura di restare contagiata e di morire, anche se le statistiche dei malati e dei deceduti dicono chiaramente che la mortalità dovuta a questo virus non è superiore a quella di una comune influenza, allorché si aggiunge ad altre patologie in soggetti di età decisamente avanzata. Sia come sia, e a dispetto di ogni ragionevolezza, pare che l’intera popolazione italiana sia stata schiaffeggiata in pieno viso da un terrore ancestrale, quello di morire a causa di un morbo contagioso come ai tempi dei Promessi Sposi, o magari del Decameron di Boccaccio; i più colti pensano pure alla peste di Atene del 430 a. C., potentemente descritta da Tucidide nella sua Storia della guerra del Peoloponneso.
Eppure, è sorprendente: morire si deve, è la sola certezza che abbiamo sin dal momento in cui veniamo al mondo. Si direbbe invece che noi non siamo affatto preparati; che non lo accettiamo; che la sola idea ci provochi squilibri, agitazione, panico.
Lucio Anneo Seneca, nelle Lettere a Lucilio, scriveva con chiarezza cristallina (IV, 30, 10-11):
Vivere noluit qui mori non vult; vita enim cum exceptione mortis data est; ad hanc itur. Quam ideo timere dementis est quia certa exspectantur, dubia metuuntur. Mors necessitatem habet aequam et invictam: quis queri potest in ea condicione se esse in qua nemo non est? Prima autem pars est aequitatis aequalitas. Sed nunc supervacuum est naturae causam agere, quae non aliam voluit legem nostram esse quam suam: quid quid composuit resolvit, et quidquid resolvit componit iterum. Iam vero si cui contigit ut illum senectus leviter emitteret, non repente avulsum vitae sed minutatim subductum, o ne ille agere gratias diis omnibus debet quod satiatus ad requiem homini necessariam, lasso gratam perductus est. Vides quosdam optantes mortem, et quidem magis quam rogari solet vita. Nescio utros existimem maiorem nobis animum dare, qui deposcunt mortem an qui hilares eam quietique opperiuntur, quoniam illud ex rabie interdum ac repentina indignatione fit, haec ex iudicio certo tranquillitas est. Venit aliquis ad mortem iratus: mortem venientem nemo hilaris excepit nisi qui se ad illam diu composuerat.
Che possiamo rendere così (la traduzione, piuttosto libera, è nostra):
Chi non vuole morire, è come se neppure volesse vivere; la vita ci è stata data a patto di morire: andiamo verso di essa. Per questo è folle averne paura: infatti le cose incerte sono da temere, mentre quelle certe semplicemente si aspettano. La morte reca in sé una necessità equanime ed invincibile: chi potrebbe lamentarsi di una situazione alla quale nessuno può sottrarsi? La cosa essenziale della giustizia è l’uguaglianza. Del resto è superfluo voler difendere la natura per aver posto a noi la stessa legge che vale per lei: ciò che essa ha composto lo dissolve, e ciò che ha dissolto lo ricompone incessantemente.
Tale era la saggezza di un filosofo pagano vissuto ai tempi di Nerone, dunque vissuto ai tempi di san Paolo (qualcuno ha anche ipotizzato che i due si siano conosciuti, magari indirettamente, al tempo in cui l’Apostolo delle genti venne a Roma, dopo essersi appellato all’imperatore, per affrontare il processo intentatogli dai sacerdoti del Sinedrio di Gerusalemme; ma non ne abbiamo le prove). Tale era anche, senza bisogno di scomodare i filosofi e la filosofia, la saggezza di vita dei nostri nonni e, per non pochi di noi, dei nostri stessi genitori: sapevano che la vita ha un termine, e che quel termine è per noi avvolto nel mistero; sapevano perciò che la morte non è un’oscura e imprevedibile nemica, ma l’esito naturale del nostro esistere. Non si sarebbero mai sognati di puntare il dito contro la morte, accusandola di essere un’intrusa e una ladra, perché intuitivamente capivano che non si può accettare la vita se non si accetta la morte; che non si dovrebbe neppure vivere, se si rifiuta l’idea di dover morire. E l’avevano compreso, anzi lo sentivano, senza aver letto Seneca o qualsiasi altro libro di filosofia: solo con la loro terza o quinta elementare, nel caso dei nonni: o col loro modesto diploma professionale, raramente la laurea, nel caso dei nostri genitori. Possibile che nel giro di una o due generazioni sia cambiata fino a tal punto la percezione della morte? Possibile che in un tempo così breve, da trenta a cinquant’anni circa, la nostra società abbia smarrito la coscienza della mortalità umana, e si ribelli all’idea che la vita debba avere un termine, prima o dopo, in un modo o nell’altro, in un letto d’ospedale o in qualche altra circostanza, che nessuno può prevedere? Un essere umano che non accetti pienamente l’idea di morire è qualcosa di meno di un bambino: perché il bambino non sa che dovrà morire, l’adulto non lo vuole sapere, e come lo struzzo nasconde la testa sotto la sabbia, per non vedere ciò che gli procura spavento e angoscia. Da questo punto di vista, la società odierna è simile a un grande asilo infantile: popolata da una moltitudine di bambocci viziati, di adulti immaturi che non vogliono affrontare la realtà e impegnarsi nel mestiere di diventare uomini; come aveva visto, fra gli altri, lo scrittore Witold Gombrowicz (1904-1969), del quale ci siamo già occupati in un paio di precedenti articoli. Eppure, non si tratta di una questione secondaria: la maturità di un individuo, come pure quella di un popolo e di una civiltà, si possono giudicare principalmente da come si pongono di fronte alla morte. Il guerriero greco non teme la morte, ma il disonore: se avessero temuto la morte, i trecento spartani di Leonida non sarebbero rimasti a farsi massacrare fino all’ultimo dall’esercito persiano al passo delle Termopili: e forse, con ciò, la civiltà occidentale si sarebbe spenta sul nascere.
I moderni hanno completamente perduto l’idea della mortalità, e in questo sono stati suggestionati dalla cultura dei diritti, che pone il diritto alla vita in cima alla lista. Il presunto diritto alla vita (presunto, perché la natura non riconosce alcun diritto alle creature viventi, dal momento in cui vengono al mondo fino all’ultimo istante che precede la morte) è stato poi assolutizzato ed è divenuto un dogma indiscutibile; tanto è vero che il signor Bergoglio, con un atto unilaterale e perciò canonicamente illegittimo, ha cambiato il § 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, dichiarando inammissibile in qualsiasi caso la pena di morte, e smentendo fior di teologi come san Tommaso d’Aquino, per non dire di Gesù stesso e degli Apostoli, i quali mai, come risulta dai Vangeli e dagli Atti, nonché dalle epistole paoline e dalle altre lettere cattoliche, se la sono presa con la liceità della pena di morte in quanto tale. Dobbiamo anzi ricordare che proprio Gesù Cristo ne ha rispettato la piena legittimità, quando ha detto (Mt 18,6): Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. A noi non sembrano le parole di chi non ritiene mai legittima, in alcun caso, la pena di morte; ma evidentemente il signor Bergoglio ritiene di essere più buono e misericordioso del nostro Signore (il che non è una novità). Non stiamo affermando, si badi, che la pena di morte è una bella cosa; stiamo dicendo che, in alcuni casi estremi, può essere giustificabile; e, più in generale, che non è uno scandalo giudicare la vita non un valore assoluto, ma relativo, che può quindi essere sacrificata in vista di un bene più grande. Così pensavano e sentivano i martiri della fede: se avessero opinato il contrario, i martiri di Nagasaki del 1597 non avrebbero affrontato la crocifissione; e sotto le mura di Vienna, nel 1683, il re polacco Sobieski avrebbe intavolato trattative di pace con l’armata ottomana, senza venire allo scontro. E oggi probabilmente la cattedrale di Santo Stefano sarebbe una moschea (il che, lo ammettiamo, non sarebbe meno scandaloso che vederla trasformata in una sala per concerti omosessualisti, col beneplacito e la benedizione del suo cardinale arcivescovo, come oggi avviene senza che alcuno ci trovi nulla di strano). Ma per i soldato americani che fronteggiavano le cariche banzai degli ultimi difensori di Okinawa, o gli attacchi in picchiata dei piloti kamikaze, quel cercare la morte sicura era il segno di una cultura barbarica, assai arretrata rispetto alla nostra. Questa idea della morte è, per l’Occidente, figlia di un malinteso: dopo aver rinnegato le proprie radici cristiane, esso conserva le verità cristiane — come notava G. K. Chesterton — sotto forma di schegge impazzite. Il cristianesimo non ha mai insegnato che la vita è intangibile o che la morte volontaria è un tabù. Rileggiamo le Parole stesse di Gesù Cristo, rivolte ai suoi discepoli al termine dell’ultima cena (Gv 15,12-13): Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. A noi sembrano chiarissime; e a voi?
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