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La vera fragilità è non accettare l’idea della morte

È arrivato il coronavirus e ci siamo scoperti straordinariamente fragili, a tutti i livelli. Fragile la politica, fragile l’economia, fragile la scienza, fragile la comunicazione, fragile la sanità, fragile perfino Chiesa. Fragili le nostre certezze, le nostre sicurezze, tutti i nostri punti di riferimento. Abbiamo scoperto di essere nudi, quando ci credevamo ben vestiti e perfettamente equipaggiati; di essere quasi ciechi, quando credevamo di vederci benissimo; di essere forti, mentre siamo debolissimi; di essere preparati, mentre siamo impreparati; di essere avveduti, mentre siamo inconsistenti; di saper guardare al futuro, mentre non riusciamo a capire neanche il presente più immediato. Abbiamo fatto tutta una serie di scoperte amare e sconcertanti, e un giorno dovremo farne un bilancio e agire regolandoci di conseguenza. Abbiamo scoperto quel che valgono i trattati, le alleanze, i pezzi di carta, e chi sono i nostri veri nemici, benché formalmente fossero e siano amici; e anche il fatto che praticamente non abbiamo dei veri amici, neppure uno, anzi il mondo è pieno di quelli che si rallegrano per le nostre disgrazie. Abbiamo scoperto che è meglio, molto meglio far da sé, beninteso purché gli altri non ci facciano lo sgambetto: come è accaduto per quelle 750.000 mascherine acquistate in Cina da un’azienda di Sondrio e trattenute in Germania, dopo essere sbarcate nel porto di Rotterdam, perché il governo tedesco pensa che debbano servire a loro, ai superuomini germanici e non andare ai sotto-uomini latini, che pure le avevano già acquistate per conto proprio. Abbiamo pure scoperto che l’uscita della neopresidente della BCE, Christine Lagarde, che ci è costata un crollo di borsa del 17% dei titoli azionari, e una perdita secca dai 70 ai 100 miliardi di euro (sì, avete letto bene: miliardi, non milioni) non è stata per niente una gaffe, ma una mossa freddamente decisa in anticipo per affossare la nostra borsa, e resa ancor più semplice dal fatto che i nostri governanti, traditori, l’avevano lasciata aperta, in modo che il danno, per noi, fosse il più grande possibile. E abbiamo preso buona nota del fatto che il papa argentino, di origini piemontesi, non ha avuto una parola buona per il nostro popolo, non ha rivolto una benedizione all’Italia, né una preghiera, o una invocazione a Dio, ma ha seguitato a rintronarci gli orecchi con la sua inossidabile filastrocca sui migranti perfino nei giorni più bui, quando eravamo chiusi in casa e incerti del nostro destino.

La cosa più sorprendente, però, a nostro parere, è stata scoprire che eravamo impreparati sul piano morale e spirituale, per non dire di quello religioso. Scoprire che la sanità italiana dispone di appena tre posti letto ogni mille abitati, contro gli otto della Germania, è stato scioccante, ma pur sempre legato a ragioni contingenti, di tipo puramente organizzativo; ma la cosa più scioccante è stato scoprire che non riuscivamo a farci una ragione di un fatto semplicissimo e di portata universale: che si può morire in qualsiasi momento. Nessuno ci ha promesso che camperemo almeno fino a novant’anni. Sì, le statistiche dicono questo, più o meno; l’enfasi della cultura scientista ci ha messo poi molto di suo, nel suggerirci l’idea folle, completamente folle, che alla morte non vale la pena di pensare, perché è un evento molto lontano, molto incerto e molto improbabile, mentre è vero l’esatto contrario: che il solo evento assolutamente certo che si staglia sul nostro orizzonte fin dal momento in cui apriamo gli occhi al mondo. La Chiesa, che era la custode dei più alti valori spirituali del nostro popolo, per la semplice ragione che era stata lei ad insegnarglieli, custodiva anche questo senso della finitudine, della fragilità e della transitorietà dell’esperienza terrena: il Mercoledì delle Ceneri, secondo la vecchia liturgia, il sacerdote poneva un pugno di cenere sul capo dei fedeli e diceva loro: Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris: ricordarti, uomo, che sei polvere ed in polvere ritornerai. Poi c’è stata la riforma liturgica (massonica: grazie tante, arcivescovo Bugnini; grazie tante, "santità" Paolo VI), via il latino e via anche la formula di rito: adesso il sacerdote dice soltanto: Convertiti e credi al Vangelo, che è, sì, una frase evangelica, ma che in quel contesto, in quel momento del calendario liturgico, non solo non ha senso, ma si direbbe proprio che sia stata pensata e voluta precisamente per togliere il vero significato di quella ricorrenza: per far dimenticare all’uomo la sua mortalità. E così come la cultura moderna ha rimosso, un poco alla volta, il senso delle proprie radici, dell’appartenenza, dell’identità, e quindi la memoria e la prospettiva storica delle cose, tutto in nome di un eterno presente che è, guarda caso, il tempo ed il tempio dell’eterno consumismo, dell’eterno paese di Bengodi, dell’eterno Carnevale dei pazzi, così ha allontanato all’infinito la prospettiva della morte, suggerendoci, fra le righe, che il rimedio alla morte prima o poi verrà trovato. Abituati come siamo a ragionare (o a credere di ragionare) in termini sempre più quantitativi, e non qualitativi, abbiamo pensato, o creduto di pensare, che così come la scienza è stata capace di allungare i tempi della vita media, così, di allungamento in allungamento, un pezzettino alla volta, essa riuscirà anche a strappare alla morte il suo pungiglione e a regalarci la vita eterna, non di là, nell’incertissima dimensione del soprannaturale, ma quaggiù, nella concreta dimensione della natura. Diverremo immortali per merito nostro, con le nostre forze e a dispetto di Dio, che di ciò sarà terribilmente geloso: esattamente il peccato di Adamo ed Eva, sedotti dalla promessa del serpente che i loro occhi si sarebbero aperti alla conoscenza del bene e del male, e che essi sarebbero divenuti come Dio, senza più conoscere la morte.

I nostri nonni non avevano questa mentalità. Per loro, morire bisogna: non ne erano particolarmente desiderosi, ma neppure terrorizzati. Forse perché vivevano con maggiore profondità, con maggiore serietà, con maggiore spirito di sacrificio e perfino con un sia pur minimo sforzo di santificazione: pensavano, cioè, che la vita ci è data per migliorarci, per progredire, per divenire, in prospettiva, santi. Non pensavano, in genere, di diventarlo: però sta di fatto che da quelle famiglie, numerose, cresciute nella fede cattolica, una fede vissuta, uscivano numerosi preti e suore, numerose anime sante, non poche delle quali hanno realmente realizzato l’ideale della santità, magari come missionari e missionarie in qualche lontana plaga dell’Africa o dell’Asia, prodigandosi — non a chiacchiere, come è di moda oggi — per gli ultimi, per i più bisognosi, anche per i lebbrosi o i colerosi o gli appestati, e non di radio sacrificando la loro vita per amore di Cristo e di quei poveri fratelli dimenticati da tutti. In ogni caso, i nostri nonni non si ritenevano eterni; non si ritenevano permanenti; non vedevano la vita terrena come la vita vera e definitiva, ma solo come un transito, una tappa del nostro pellegrinaggio. La devozione, la frequenza alla santa Mesa e ai Sacramenti, la penitenza, il digiuno, la recita quotidiana del Rosario, anche più volte al giorno, l’elemosina ai poveri, spesso togliendosi quasi il necessario, l’assistenza ai malati, a cominciare dai genitori, dai parenti, dai vicini, e da ultimo, ma non per ultimo, le visite al cimitero ai loro cari defunti, portandosi se possibile anche i figli e i nipotini, tutte queste cose facevano sì che l’idea della morte, la prospettiva della morte, la certezza della morte, fossero sempre presenti davanti a loro. E quel che si notava è che tale idea non li immalinconiva, semmai li rendeva più maturi, più consapevoli. Il nonno che abbracciava i suoi nipotini, che raccontava loro delle storie, che costruiva per loro dei semplici giocattoli fatti in casa, col cartone lo spago, insegnando loro a sognare, a vedere con gli occhi della fantasia, sapeva di essere fortunato, o meglio sapeva di aver ricevuto una grazia da Dio: quella di vivere abbastanza da vederli crescere, almeno per qualche anno, cosa che non era scontata, né per se stessi, né per i bambini. La morte poteva bussare alla porta a qualsiasi età: era una presenza tutt’altro che insolita. Con tale abito mentale, con tale stato d’animo, si predisponevano anche all’ultimo viaggio: non con angoscia, né con disperazione, tanto meno con rabbia e con rancore. Avevano vissuto, tanto o poco, ma avevano vissuto; avevano fatto, nella vita, quel che c’è da fare: avevano lavorato onestamente, avevano messo su una casa (spesso con immensi sacrifici, dopo dieci o venti anni di lavoro all’estero) e una famiglia, cresciuto dei figli, benedetto i nipotini, e avevano cercato di non deviare dalla retta via, di non macchiarsi di colpe o di vergogne, di mantenersi puri davanti agli uomini e davanti a Dio. Dopo di che, erano pronti, o quanto meno erano preparati. Se Dio li lasciava al mondo ancora per qualche anno, bene; ma se li chiamava a sé, non per ciò si sarebbero strappati i capelli, specialmente se la loro moglie o il loro marito erano già morti, se erano già morti i loro genitori e i loro zii, e qualche volta anche alcuni figli: allora l’idea della morte non solo non li atterriva, ma appariva loro sotto una luce perfino amabile, perché avrebbe consentito loro di ricongiungersi con tutte le persone care, delle quali nutrivamo un’acuta nostalgia. Mano a mano che la cultura profana, inquinata dal consumismo e dagli stili di vita americaneggianti, si è discostata da questa visione del mondo, anche la società, la stampa, il cinema, la televisione, quando essa è arrivata, si son messi a diffondere un nuovo tipo di cultura, un nuovo atteggiamento verso la morte: un atteggiamento di rifiuto e di negazione. Oggi i bambini quasi non la vedono; in cimitero si va poco, e ci si va con spirito profano, scherzando e chiacchierando, senza ascoltare in rispettoso silenzio la voce dei morti; perfino i vedovi e le vedove di età avanzata fanno di tutto per non pensare mai alla morte, ma solamente a vivere, a vivere ancora, a ringiovanire, a levarsi i capricci che non si sono tolti prima, quand’erano giovani. Ed ecco le signore di settant’anni, fresche di vedovanza, cambiar pettinatura, tingersi i capelli di un altro colore, cambiare abbigliamento, indossare le magliette, i pantaloni e gli stivaletti, o magari le gonne corte, come non avevano mai fatto in vita loro, sottoporsi alle lampade, abbondare coi profumi, col rossetto sulle labbra e l’ombretto sugli occhi, partire in crociera, cercarsi un nuovo compagno di vita. Per carità: cose legittime, non c’è alcuna legge che le vieti. Ma è questo il modo di prepararsi alla morte? Con questo tardivo e ostinato attaccamento alla vita, protratto sino all’ultimo istante, quasi a sfidarla, quasi a scimmiottare la gioventù ormai trascorsa, ci si troverà poi sempre meno preparati, quando infine verrà l’ora.

Restava la Chiesa cattolica a custodire la visione della vita come di una cosa preziosa, sì, ma non irrinunciabile, e soprattutto non fine a se stessa. Non un valore assoluto, da difendere a tutti i costi, magari con ogni tipo di accanimento terapeutico, ma uno strumento per fare il bene, per cercare il vero e per diventare amici del Signore e operai nella sua vigna. Ma col Concilio Vaticano II anche quest’ultimo caposaldo è stato travolto: la mentalità secolarizzata è entrata a torrenti nella cultura cattolica, e ha cominciato a prevalere anche nella stampa cattolica, nei libri cattolici, compresi quelli di teologia, anzi, soprattutto quelli di teologia; e, quel che più conta, nella pastorale, nelle omelie domenicali, nell’insegnamento del Catechismo. E così è venuta su una nuova generazione di "cattolici": persone che, esattamente come chiunque altro, cercano di non pensare alla morte, si rifiutano di fare i conti con essa, preferiscono concentrarsi sulla cosmesi, sulla cura del corpo, sulla palestra, sull’abbronzatura, sulla chirurgia estetica, sui tatuaggi, sull’acconciatura dei capelli, sull’abbigliamento sexy e giovanile (anche a sessanta e a settant’anni), insomma su tutte le cose materiali ed esteriori, e mai, mai, mai, sulla dimensione spirituale e sulla doverosa riflessione sulla propria mortalità. Nei discorsi, nelle omelie, negli scritti del clero postconciliare non si sente più parlare della morte, se non in termini retorici, per dovere d’ufficio, quando proprio lo richiede il calendario liturgico e non se ne può fare a meno, giusto per salvare le apparenze. Ma anche il clero, come gli uomini e le donne del mondo, alla morte preferisce non pensare. Meglio, molto meglio preoccuparsi delle cose di quaggiù: dei problemi sociali, ambientali, perfino climatici; ma le cose di lassù? Eh no, quelle sono una forma di alienazione; quella sarebbe una fuga di fronte all’impegno e alle responsabilità concrete; ma, soprattutto, sarebbe un pieno riconoscimento della nostra fragilità, della transitorietà del nostro corpo, coi suoi istinti e i suoi appetiti, con le sue brame e le sue passioni: anche di tipo ideologico e politico, per quanto debitamente mascherate (ma sempre meno: il prete che canta Bella ciao in chiesa e il cardinale della C.E.I. che invita a non votare per i partiti sovranisti, ma per quelli migrazionisti, hanno gettato alle ortiche anche l’ultimo straccio di pudore). E chi si attacca alle passioni del mondo non è pronto per morire: per morire in grazia di Dio, ben s’intende, perché, come sapevano i nostri nonni che avevano fatto sì e no la quinta elementare, mentre noi ce ne siamo scordati, con tutte le nostre lauree e i nostri master, morire si deve, guarda un po’ che strano destino. E se anche i preti, i vescovi e il papa si scordano l’idea della morte e si adoperano per farcela scordare, allora vuol dire che siamo giunti proprio al capolinea: che questa civiltà è morta e putrefatta, e non resta che seppellirla in fretta, prima che il fetore ammorbi l’aria per noi e per quelli che verranno. Siamo giunti alla fine: un ciclo si è chiuso e nulla sarà più come prima; non potremo ricominciare come se nulla fosse stato. Dobbiamo ripartire, resi più saggi dalle scioccanti esperienze che abbiamo fatto e stiamo facendo, sia come singoli, sia come comunità nazionale. Coraggio, possiamo riuscirci: ma solo se avremo abbastanza umiltà da ritornare a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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