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Dove sono sparite le guide morali?

Sull’emergenza del coronavirus, che sta colpendo con particolare intensità proprio il nostro Paese, sono ben poche le certezze, dato che si sente dire tutto e il contrario di tutto. È pericolosissimo, no, è una comune influenza; è di origine naturale, no è un’arma batteriologica appositamente coltivata; colpisce quasi tutti, no, dipende da come si leggono i dati dei malati e dei decessi e perfino da come si fanno (o non si fanno) i tamponi; e così via. A essere in contraddizione reciproca e a trovarsi in imbarazzo sono gli stessi esperti: i microbiologi, i virologi, i medici. A paragone delle incertezze, le certezze sono pochissime. Eppure quelle che emergono, ed emergono con terribile chiarezza, ci dicono che mentre alcune categorie si sono prodigate e si stanno prodigando, in particolare tutto il personale delle strutture ospedaliere, al di là di ogni elogio, altre sono venute completamente meno ai loro doveri verso la comunità, o, peggio ancora, si sono prestate ad aggravare enormemente la situazione, sia che l’abbiano fatto in buona fede, cioè per stupidità e incompetenza, sia che l’abbiano fatto in mala fede, cioè seguendo una precisa strategia antinazionale, in cambio di vantaggi personali, economici o di carriera.

La prima categoria che non ha fatto bene, anzi ha fatto malissimo, il suo lavoro, è stata quella dei giornalisti. Quelli almeno delle grandi testate e delle maggiori reti nazionali si sono prestati tutti, dal primo all’ultimo, al progetto di seminare ansia e mantenere in uno stato di panico permanente la popolazione, la quale, costretta dalle disposizioni governative a rinchiudersi in casa, spesso non aveva e non ha altro conforto, altra distrazione, che accendere il pulsante del televisore o sfogliare le pagine dei giornali. E dagli uni e dagli altri viene investita, incessantemente, ossessivamente, da messaggi inquietanti, da allarmi ultimativi, da ammonimenti colpevolizzanti e carichi d’angoscia: ogni nuovo decesso viene enfatizzato con una sorta di perversa soddisfazione (in senso giornalistico appunto), ogni volta che un ospedale si trova a corto di apparati respiratori le parole angosciate dei suoi medici vengono riprese e ripetute una, dici, cento volte; e intanto sono stati ingaggiati noti uomini e donne di spettacolo per lanciare avvertimenti e raccomandazione a stare in casa, a non tossire, a non toccarsi le vie respiratorie, a lavarsi spesso le mani con il disinfettante, a usare la mascherina o le salviette monouso ad ogni starnuto, a stare ad almeno un metro di distanza dal prossimo (anche moglie e marito? e anche sotto le lenzuola?), a mostrarsi responsabili, a non sottovalutare l’emergenza, ecc., perché la situazione è decisamente grave, il pericolo è molto serio, ecc., anche se i dati clinici — questo è il punto — non giustificano affatto un simile allarmismo, e nel freddo linguaggio delle cifre ci dicono che le misure cautelative assunte, a cominciare dalla chiusura delle scuole, sono illogiche e irrazionali. Per far solo un esempio: i bambini raramente si ammalano e mai si ammalano in modo grave; obbligarli a restare a casa significa far sì che i genitori, impegnati col lavoro, li portino dai nonni; e allora sì che si crea una situazione pericolosa, perché i bambini possono essere portatori sani del virus e quest’ultimo aggredisce con particolare virulenza le persone anziane, o affette da altre patologie. In questo virus non c’è niente che sia sostanzialmente diverso da una qualsiasi influenza del tipo più comune, tranne la rapidità del contagio: le complicazioni polmonari, tanto enfatizzati e ingigantite allo scopo di generare il terrore, sono tipiche di qualunque influenza, perché qualunque influenza, in un soggetto anziano e debilitato, può degenerare in polmonite, o peggio. E con ciò? Siamo sempre all’interno di un quadro clinico di non particolare gravità, e che non giustifica in alcun modo né la chiusura delle scuole, né quella dei negozi, e meno che meno gli arresti domiciliari per sessanta milioni di persone, o giù di lì. I giornalisti portano una responsabilità gravissima, in tutto questo: vuoi per ignoranza, vuoi per motivi assai meno nobili, si sono prestati interamente alle consegne dei proprietario dei giornali, cioè le grandi banche, dalle quali appunto parte il disegno di destabilizzare, fiaccare e poi, in una seconda fase, spogliare economicamente il nostro Paese mediante la speculazione e il crollo delle imprese. Nessuno ha fatto eccezione, salvo i soliti pochi e già noti coraggiosi; tutti gli altri si sono messi d’impegno, e con il massimo zelo, a ripetere la filastrocca della pandemia irresistibile, apocalittica, e ad amplificare quanto più potevano i segnali di pericolo e gli elementi di preoccupazione. Tutto questo mentre la BCE mostrava definitivamente il suo vero volto, con l’uscita della signora Lagarde che ci ha fatto perdere il 17% in borsa in un colpo solo, vale a dire qualcosa come 70 miliardi di euro, cifra destinata salire a più di 100 nei prossimi giorni (e c’è ancora qualche anima bella che parla di una gaffe e non di una coltellata nella schiena inferta in piena consapevolezza e intenzionalità).

La seconda categoria che ha dato un pessima prova di sé è quella dei politici. Sarebbe stato difficile immaginare che un qualsiasi Paese, trovandosi alle prese con un problema di queste dimensioni, si trovasse abbandonato nelle mani di gente altrettanto misera e inetta, se non peggio, vale a dire sospettabile di essere al servizio d’interessi antinazionali. Sul breve periodo qualcuno dovrebbe chiedere conto al PD, per esempio, per quali ragioni abbia votato la nomina della signora Lagarde quale presidente della BCE; sul medio periodo, qualcuno dovrebbe chiedere conto ai governi italiani, di destra e di sinistra, degli ultimi 20 anni, perché abbiano tagliato la spesa sanitaria di circa quattro volte, lasciandoci "scoperti", nell’attuale frangente, con una capacità di soli 3 posti letto ogni 1.000 abitanti (contro gli 8 della Germania e i 6,5 della Svizzera); sul lungo periodo, poi, qualcuno dovrà pur chiedere cosa sia successo sul Britannia nel 1992 e perché lo Stato italiano abbia allora deciso di privatizzare, cioè di mettere sul mercato, praticamente regalandole alle banche e alle multinazionali straniere, le migliori industrie nazionali, anche quelle dei settori strategici. Sul contegno dei governatori delle regioni e di altri amministratori locali, passati in un batter di ciglia dalla negazione che vi fosse, nel loro ambito, alcun sintomo preoccupante e alcun bisogno di varare misure d’emergenza, al sostegno e all’incitamento al governo affinché adottasse politiche di prevenzione sanitaria addirittura draconiane, sguinzagliando la polizia locale e le forze dell’ordine a sorvegliare ed irrogare multe ai cittadini che si permettono di andare in due a far la spesa, o di non tenere il prescritto metro di distanza fra loro, meglio stendere un velo pietoso. D’accordo, non stiamo parlando di esperti di malattie infettive e, inoltre, di persone che si sono trovate, come noi tutti, alle prese con un problema inatteso e dalle dimensioni sconcertanti; ma proprio per questo avrebbero dovuto assumere un atteggiamento prudente, parlare pochissimo e, possibilmente, in maniera non contraddittoria, fornendo alla popolazione, con calma e sangue freddo, delle indicazioni chiare, ma anche ragionevoli, su come comportarsi, evitando di oscillare da un estremo all’atro e lasciando da parte ogni considerazione relativa alla popolarità e al facile consenso: perché il loro compito non è quello di assecondare e magari cavalcare gli umori volubili delle masse emotive e disinformate, ma di conservare ben salda la testa sul collo e indicare la via da seguire con ponderatezza e senso di responsabilità.

La categoria che più di tutte, però, ha deluso e, possiamo anche dire, ha tradito, è quella di coloro che hanno, per statuto o per fama, il ruolo di coscienza morale della società; insomma quelli che, specie in momenti difficili, dovrebbero trovare le parole giuste per consigliare, confortare, rassicurare, rasserenare, mostrare un sano equilibrio fra il dovere civico della prudenza e della responsabilità, e l’abito mentale di chi accetta la volontà superiore e si rimette ai disegni misteriosi della Provvidenza. In questa categoria, il ruolo centrale spetta, o meglio spetterebbe, al clero cattolico; ma è proprio esso che, nel complesso, si è mostrato totalmente assente, totalmente latitante, totalmente incapace di indicare la strada, di fare da guida, di mostrare una qualsiasi autorevolezza. Ora che non è tempo di vescovi rock e di preti arcobaleno, e nemmeno di cappellani volanti a bordo delle navi delle o.n.g.; ora che il tema dominante non sono i migranti che fuggono dalle guerre e dalla fame (strano, però: adesso che in Italia c’è il coronavirus, e gli italiani hanno altro a cui pensare che sorvegliare i porti e le coste, non sbarcano più; vuoi vedere che non sono mai scappati, almeno al 95%, né dalle guerre, né dalla fame, tanto è vero che pagano da 3 a 5.000 euro per fare il "viaggio della speranza"?), e neppure la Madre Terra, la Pachamama, con il mistico rispetto per l’ambiente, per le culture tribali, per i modi di vita indigeni e per le stregonerie amazzoniche neopagane e ogni altra stramberia ed eresia ecumensita e interreligiosa; ora che il tema all’ordine del giorno è la reclusione in casa di sessanta milioni d’italiani questo clero chiacchierone, disinibito, non di rado ciarlatanesco, non ha più niente da dire. Mute le chitarre, muti i microfoni, stop ai pranzi e alle pizzate dentro le chiese e le basiliche, stop alle facezie dell’inquilino di Casa Santa Marta, ai suoi sproloqui narcisisti e a quelli dei suoi grandi e piccoli imitatori; stop alle note di Bella ciao alla santa Messa, nonché ai cartelli che intimano ai razzisti di starsene fuori, anche perché non c’è più Messa, e se qualche prete si ostina a celebrarla ecco arrivare le forze dell’ordine e interromperla di brutto, com’è accaduto a Cerveteri; stop alla chiesa in uscita, alla chiesa ospedale da campo, proprio ora che tutta l’Italia è stata trasformata in un solo ospedale, e scarseggiano le attrezzature e perfino mascherine (mentre il Vaticano ne aveva donate 700.000 alla Cina, ma non risulta che ne abbia donata una sola al nostro Paese). Dov’è il san Luigi Gonzaga che chiede e ottiene di andare a curare i malati di un’epidemia, si prende il contagio e affronta la morte sul campo, per restar vicino ai bisognosi? Dov’è il padre Damiamo che si dona interamente ai lebbrosi, si prende la lebbra e si fa mangiare da essa il suo corpo, per restar fedele alla promessa fatta al Signore, di prendersi cura delle ultime fra le sue pecorelle? I cardinali che si fanno fotografare insieme agli stilisti dell’alta moda, quelli sì li abbiamo visti; e abbiamo visto anche i cardinali che si fanno ristrutturare, a suon di milioni di euro, superattici favolosi, sempre predicando, si capisce, la chiesa dei poveri, la chiesa al servizio degli ultimi: ma adesso che è arrivato il momento della verità, non abbiamo visto più nessuno. In compenso possono tirare un respiro di sollievo i preti infedeli, quelli che non fanno recitare il Credo ai loro parrocchiani, perché tanto loro non ci credono; quelli che li privano, a proprio arbitrio, della santa Messa, perfino il giorno di Natale, per solidarietà verso i migranti: possono star tranquilli perché, con ogni probabilità, le chiese resteranno chiuse, per volontà dello Stato ma pure per decisione del (sedicente) papa, anche nella ricorrenza più solenne dell’anno liturgico, quella della santa Pasqua.

Tuttavia non sono solo i vescovi e i preti ad aver rivelato una totale mancanza di autorevolezza e una clamorosa incapacità di leggere i sentimenti dei fedeli e di tutta la popolazione, la quale si aspettava una parola buona e non l’ha udita; una benedizione solenne, e non l’ha ricevuta; una luce di speranza e non l’ha vista. Altrettanto muti, altrettanto inadeguati, altrettanto incapaci o insensibili o inaffidabili si sono rivelati tutti gli altri dai quali era lecito attendersi quelle parole e quegli atti di ragionevolezza, di calma, di buon senso, di conforto, che sarebbero caduti come la pioggia in un campo riarso dalla siccità. Intendiamo dire gli intellettuali, gli scrittori, i pensatori, tutte quelle persone le quali, a torto o a ragione, si sono ritagliate un certo nome, una certa fama, una certa autorità; persone ben pagate per sedere nei salotti televisivi, per dare giudizi su questo e su quello, sempre pronte a raccogliere l’applauso dell’establishment mediatico e culturale quando pubblicano un libro, quanto girano un film, quando allestiscono uno spettacolo teatrale o musicale, quando firmano un’opera architettonica o un progetto urbanistico e sfruttano il vantaggio di essere assurti alla gloria di archistar o comunque di artisti e urbanisti di gran moda, i cui pareri sono ascoltati con religioso rispetto e le cui elucubrazioni, che spesso vanno assai oltre l’ambito della loro professione e delle loro competenze, sono divenute ormai lo sfogo d’una logorrea compulsiva, d’una personalità narcisista che non sa mai tacere, non è più capace di trattenere la spinta irresistibile del proprio ego. Dove sono spariti, tutti costoro? La crisi attuale ci ha rivelato, se mai ce ne fosse stato bisogno, il deserto culturale, intellettuale e spirituale nel quale ci siano ridotti a vivere, e la profonda miseria dei nostri sedicenti maestri. Abbiamo capito, da quel silenzio, di aver messo sul piedistallo dei personaggi mediocri, dei mercenari venali, degli eroi di cartapesta. Nessuno di loro ha trovato il modo di regalare alla comunità una di quelle parole che scaldano il cuore e ravvivano le energie languenti quando si è prostrati da ansie e preoccupazioni. Nessuno di loro ha mostrato di aver ben meritato il ricco stipendio e gli altissimi compensi che ottengono ogni volta che fanno una puntata in televisione o si degnano di presiedere una giuria letteraria o rilasciare un’intervista a un giornale. Abbiamo scoperto, insomma, che il re è completamente, ignobilmente nudo, e che noi avevamo applaudito, per anni, il suo vestito nuovo fatto di niente. Abbiamo perciò imparato anche qualcosa su noi stessi: sulla nostra frivolezza e sul nostro inguaribile conformismo. Ora dovremo ricominciare tutto da capo, imparando a far da soli e affidandoci a guide morali di ben altra levatura.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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