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Cos’è la fede? Riflessione ai tempi del coronavirus

Quel che la vicenda del coronavirus ha messo pienamente in luce era ciò che già da tempo, da molto tempo, si sapeva, anche se mancava la sua manifestazione esplicita, che ora c’è stata: la fede è morta; i cattolici non credono più in Dio, ma nella scienza, e si rivolgono ad essa per uscire dal panico nel quale sono caduti, insieme al resto della popolazione, anche per l’opera nefasta svolta dai mass-media e per il ruolo indegno svolto dai politici e dagli uomini di governo. Prescindendo, in questa sede, dalla realtà o meno del pericolo rappresentato da quel virus — le statistiche ci dicono, nella fredda lingua dei numeri, che ogni anni la comune influenza si porta via migliaia e migliaia di persone, quasi tutti anziani affetti già da altre patologie — resta il fatto inequivocabile che i cattolici, sentendosi minacciati da una malattia potenzialmente mortale, non hanno battuto ciglio mentre le ordinanze prefettizie in un primo tempo, e governative poi, hanno deciso la chiusura delle chiese e la sospensione della santa Messa per i fedeli. Non c’è bisogno di ricordare che la fede suggerisce spontaneamente un comportamento ben diverso in simili casi. quello tenuto dai nostri avi ogni volta che sono stati colpiti o minacciati da pubbliche calamità, terremoti, pestilenze, guerre: la preghiera, la preghiera personale ma anche quella comunitaria, la celebrazione della Santa Messa, la recita del Rosario, la frequenza all’Adorazione Eucaristica, la penitenza, il digiuno, le processioni devozionali in onore dei Santi e della Vergine Santissima affinché intercedessero per loro presso il Padre onnipotente.

I pastori del gregge, invece, questa volta non hanno trovato nulla da dire se non che le autorità civili avevano tutte le ragioni d’imporre la chiusura delle chiese e la soppressione della santa Messa; non pochi vescovi hanno spinto il loro zelo laicista perfino più in là delle ordinanze del prefetto e del decreto del governo, e molti sacerdoti progressisti e buonisti, migrazionisti e omosessualisti, per mostrare a tutti di che pasta son fatti, al posto dell’acqua benedetta hanno messo nell’acquasantiera svuotata, una bottiglietta di disinfettante; altri si sono profusi in lodi e rassicurazioni di lealtà canina nei confronti delle disposizioni vigenti, tutti protesi a mostrarsi più realisti del re, probabilmente per farsi perdonare l’orribile colpa di essere ancora, almeno stando all’abito (che indossano sempre più raramente), anche se non quanto alla sostanza, dei sacerdoti cattolici. Frattanto, però, sono sparite le loro vezzose sciarpe e sciarpette arcobaleno. I vescovi ristoratori e i cardinali pizzaioli sono spariti dalla circolazione, da un giorno all’altro, come al tocco di una bacchetta magica; il signor Bergoglio ha tenuto la sua udienza "generale"di metà settimana attorniato da una decina di porporati, fatti sedere a distanza di due o tre metri l’uno dall’altro, e di almeno cinque da lui; molte mense per i poveri sono state chiuse, e nessuno, a quanto pare, si è chiesto che ne sarà di quei poveracci per i quali esse rappresentavano la sola possibilità di rimediare almeno un piatto caldo nella giornata. Come ha osservato Antonio Socci, la chiesa in uscita si è liquefatta come neve al sole; la chiesa che voleva solamente abbattere muri e gettare ponti, si è arroccata in se stessa; e quella stessa chiesa che, stando alle parole di Bergoglio, avrebbe dovuto trasformarsi in un ospedale da campo per medicare le ferite della gente, al momento del bisogno si è volatilizzata. Altro che immergersi nell’odore di pecora, come avrebbero dovuto fare i pastori del gregge di Cristo, stando alle enfatiche e teatrali parole di Bergoglio, il quale per dar loro maggior peso non si era vergognato di buffoneggiare, facendosi immortalare dai fotografi, tutto sorridente, mentre portava un agnellino sulle spalle! Gli alti papaveri della cerchia bergogliana, seguendo l’esempio del loro capo, che per oltre una settimana è pressoché sparito dalla circolazione, e che si guarda bene dall’immergersi in quei bagni di folla che gli erano tanto cari, e dal fare tutte le carezze e le moine che servivano a promuovere la sua immagine di papa santo e misericordioso, compreso il baciare i piedi ai suoi interlocutori (anche se a volte la sua natura collerica e cattiva emergeva d’improvviso, come quando ha preso a schiaffi sulla mano una cattolica cinese che cercava di richiamare la sua attenzione) tutt’a un tratto hanno scoperto che i muri, dopotutto, non sono niente male per proteggere chi è, o ritiene di essere, in pericolo, e che perfino le odiate frontiere dell’Italia, simbolo del sovranismo e della xenofobia, in fin dei conti, a qualcosa possono pur servire, se si tratta di allentare almeno un poco la stretta angosciosa che li ha afferrati al cuore all’idea di potersi ammalare e morire. Un’idea, questa del morire, che evidentemente non è molto di casa nei cervelli di questi bravi vescovi e preti bergogliani, di questi bravissimi teologi modernisti e ultraliberali: tant’è vero che da anni hanno sostituito la formula liturgica del Mercoledì delle Ceneri: Ricordati, uomo, che polvere sei ed in polvere ritornerai, con quella, assai più neutra e meno impegnativa: Converti e credi al Vangelo, che stravolge completamente il senso di quella cerimonia.

Di questi tempi, dunque, più che mai, c’è bisogno di fede. Ma che cos’è la fede? I cattolici sono sicuri di saperlo? O è una di quella parole che utilizzano da sempre, in modo quasi meccanico, senza mai essersi posti seriamente la domanda circa il suo autentico significato?

Spicca per cristallina chiarezza la definizione di san Tommaso d’Aquino nel suo Compendio di Teologia, Parte Prima, 2, 3 (in: Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere scelte, a cura di Armando Massarenti, Bari, Laterza, 1999, e Il Sole 24 Ore, 2006, p. 299):

La Fede è in qualche modo la pregustazione di quella conoscenza che ci farà beati nella vita futura, per cui dice l’Apostolo: "La fede è sostanza delle cose da sperare" ("Ebr.", 11, 1), quasi che essa comici a far sussistere in noi delle cose che dobbiamo sperare, vale a dire la futura beatitudine.

Ora, il Signore ci ha insegnato che quella conoscenza beatificante consiste nella conoscenza di due realtà: la Divinità della Trinità e l’Umanità di Cristo. Parlando infatti al Padre il Signore disse: "Questa è la vita eterna: che conoscano Te, vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Giov., XVII, 3). Tutta la conoscenza della Fede si concentra dunque su queste due verità: la Divinità della Trinità e l’Umanità di Cristo; né ciò deve meravigliare, perché l’Umanità di Gesù è la Via per la quale si giunge alla Divinità. È necessario quindi, mentre siamo viatori, conoscere la Via per la quale giungere al fine ultimo; e giunti nella patria non potremmo ringraziare sufficientemente Dio se non avessimo la conoscenza della Via attraverso la quale siamo stati salvati. Ecco perché il Signore disse ai suoi discepoli: "Del luogo dove io vado voi conoscete la via" (Giov. XIV, 4).

Circa la Divinità è opportuno sapere tre cose: in primo luogo l’Unità dell’essenza divina; in secondo luogo la Trinità delle Persone; infine le opere della Divinità.

La fede, quindi, è l’adesione preliminare alla Verità: quella Verità al cui godimento intero consiste la beatitudine del Paradiso. Le anime beate sono tali perché finalmente sanno: ossia, come scrive Dante nella Divina Commedia, perché vedono Dio. Dio è la Verità, come ha detto Gesù Cristo di Se stesso: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6); e ancora: Chi ha visto me, ha visto il Padre (id., 9). Tale beatitudine, in questa vita, non è possibile, se non nelle estasi dei Santi: perciò la fede non è possesso, ma pregustazione della conoscenza definitiva. E al cuore della conoscenza definitiva ci sono due misteri per la ragione umana: l’Unità e Trinità di Dio e l’Incarnazione del Verbo. Tutto il resto, nel cristianesimo, è razionalmente spiegabile: queste due cose no, vanno credute per fede.; dal che si deduce come la fede sia qualcosa di più e non qualcosa di meno della ragione, perché concerne la suprema Verità che, essendo una cosa sola con Dio, oltrepassa incommensurabilmente le possibilità di comprensione della natura creata, senza l’aiuto di Dio stesso. Pertanto, i misteri della fede sono comprensibili, ma solo con l’aiuto di Dio; e poiché oltrepassano lo statuto ontologico della creatura, ciò non si realizza interamente se non nella dimensione dell’eterno, quando le anime beate, slegate dai lacci del corpo mortale, diventano suscettibili di vere e di capire ciò che, nella dimensione terrena, non possono vedere, né capire.

E padre Cornelio Fabro, grande mente filosofica che, se le cose andassero come dovrebbero andare, sarebbe oggi ricordato come uno dei massimi campioni della fede nel XX secolo, nell’esaustiva voce Fede della Enciclopedia Cattolica, un’opera particolarmente bella e preziosa perché costituisce l’estremo monumento della intelligenza e della cultura cattolica alla vigilia della dissoluzione innescata dal Concilio Vaticano II, scrive (Città del Vaticano, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, 1950, vol. V, col. 1076-77):

In senso tecnico è l’adesione dell’intelletto, sotto l’influsso della Grazia, a una Verità rivelata da Dio, non per ragione d’intrinseca evidenza, ma per l’autorità di colui che la rivela. (…)

La Chiesa nei suoi concili, particolarmente in quello Vaticano (Denz-U, 1811) definì la fede "una virtù soprannaturale, con la quale, prevenuti e aiutati dalla Grazia di Dio, noi crediamo vere le cose rivelateci da Lui, non a causa della loro verità intrinseca, percepita col lume naturale della ragione, ma a causa dell’autorità di Dio rivelante, il quale non può essere ingannato né ingannarci". La fede infatti, secondo l’Apostolo, è "la realtà delle cose che speriamo, la prova delle cose che non vediamo" (Hebr, 11, 1). Per conseguenza la fede soprannaturale o infusa è specificamente differente dalla conoscenza naturale di Dio e delle cose morali. Come dice s. Paolo (Eph, 2,8): "la fede è un domo di Dio". Normalmente è unita alla carità o amor di Dio sopra ogni cosa, e si chiama allora "fede viva", ma esiste anche senza la carità in molti cristiani che sono in stato di peccato mortale; permane come principio di un atto salutare, ma non meritorio, in virtù del quale, sotto l’influenza di una grazia attuale, essi credono liberamente a quello che Dio ha rivelato (Denz-U, 1791 1814).

La fede, pertanto, è adesione razionale a una verità soprannaturale, che può essere presentita, ma non gustata pienamente, in questa vita; e tuttavia razionale perché, pur non essendo intrinsecamente evidente la veridicità del suo contenuto, esso è tuttavia "garantito" dal fatto di essere Parola di Dio, che è in Se stesso la Verità e quindi non può ingannare (né, meno ancora, ingannarsi). E tuttavia, poiché si tratta di un’adesione a ciò che, nella condizione terrena, è invisibile, per giungere a essa è necessario l’aiuto divino, e quindi la fede consiste nell’unione di due elementi: la volontà umana e la Grazia divina. Come dire che, nella fede, l’uomo incontra già Dio, ne fa esperienza, lo conosce nella misura che è umanamente possibile, e già questo solo fatto lo innalza, e non di poco, al di sopra della condizione terrena ordinaria.

Ebbene, ora che abbiamo rinfrescato la memoria della corretta nozione di fede, possiamo e dobbiamo interrogarci su quale ruolo essa svolga nella nostra vita, specie in questo particolare momento, nel quale più che mai si dovrebbe percepire la differenza di atteggiamenti fra colui che ha la fede e colui che non l’ha e non vuole neanche sentirne parlare. C’è una domanda posta da Gesù stesso, nel Vangelo, che dovrebbe farci riflettere (Luca, 18,8): Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? Se è lecito giudicare dai comportamenti, ci sembra proprio di no. E il primo a mostrare la propria mancanza di fede è stato il clero. Salvo rare eccezioni, come il parroco di Bibione (diocesi di Concordia-Pordenone) che va per le strade del suo paese con la statua della Madonna, pregando e benedicendo la gente, o quello di Castello d’Agogna (diocesi di Pavia) che è stato denunciato per aver commesso il "crimine" di non espellere i fedeli dalla santa Messa, il clero ha tenuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato: si è lavato le mani; mentre Bergoglio, dopo un silenzio di molti giorni, nell’omelia del 12 marzo ha detto che i governi prendono quel tipo di decisioni per il nostro bene, anche se — ha aggiunto ipocritamente – non ci piacciono. Ecco la fede ridotta a opinione soggettiva e meramente umana: come se avesse per oggetto ciò che piace o che non piace. Nossignore: la fede ha per oggetto la Verità: è adesione razionale alla Verità rivelata, resa possibile dal dono della Grazia divina. Ma nelle parole di questo clero indegno non vi è traccia né della Verità, né della Grazia: si direbbe che la fede riguardi i gusti personali di questo e di quello, non diversamente, nella sostanza, dalle opinioni politiche e filosofiche, o, perché no, dai gusti estetici o dal tifo sportivo. E dopo il clero, che porta la responsabilità più grande, non solo per l’ora presente, ma anche per i decenni seguiti al Vaticano II, i fedeli laici: dov’è la loro fede? In che cosa si manifesta? In che cosa li si distingue dalla massa dei non credenti? Si dovrebbe notare in loro un certo coraggio: perché la fede rende più forti e aiuta a non lasciarsi spaventare dalle circostanze. Eppure qualcuno si è accorto che i cattolici sono uomini e donne di fede, al tempo del coronavirus?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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