Il castigo è arrivato
9 Marzo 2020Galilei, il grande scienziato che ignorava la logica
10 Marzo 2020La civiltà moderna sta agonizzando, distrutta dalle sue insanabili contraddizioni: consumata nella sua stessa hybris, nella sua stessa tracotanza, nella sua stessa mancanza di senso del limite. Aveva promesso la felicità come un diritto garantito a tutti quanti, ma non è stata capace di assicurare nemmeno una vita dignitosa alla maggioranza degli esseri umani, né sul piano materiale, né, tanto meno, su quello spirituale. Ha prodotto solo rovine e infelicità: una turba senza radici, senza legami, senza identità, senza amor proprio, senza rispetto di sé. Una turba confusa, disperata, che dopo tanto essersi arrabattata inseguendo quel miraggio di benessere che avrebbe dovuto preludere alla felicità completa e definitiva, si ritrova sprofondata in un abisso di angoscia che pare non aver mai fine. Si tratta, perciò, di recitare il de profundis su questa civiltà che ha fallito, e poi di rimboccarsi le maniche e ripartire: di sgombrare le macerie e gettare le fondamenta di un’altra città, di un’altra visione della vita. Ma da dove incominciare, su che cosa far leva, visto che la modernità ha distrutto anticipatamente ogni strada percorribile, ha stabilito il nichilismo universale e ha, per così dire, avvelenato i pozzi dietro a sé prima di lasciare il campo, in modo che le nuove generazioni non potessero trovare più nulla per vivere, neppure un goccio d’acqua per dissetarsi nella calura afosa di questo amaro crepuscolo? Con il nulla non si può costruire nulla. Il nostro problema più immediato, pertanto, è ricostruire innanzitutto un orizzonte di speranza. La prima cosa di cui v’è bisogno, perché l’abbiamo perduta, è la voglia di ricominciare, di tornare a vivere e non più solamente sopravvivere, di lasciare qualcosa di buono ai nostri figli e ai nostri nipoti. Qualcosa per cui valga la pena di lottare, di mettersi in gioco, spezzando il cerchio stregato della nostra apatia e del nostro scoraggiamento, entro il quale siamo come paralizzati, siamo come ipnotizzati da un senso di totale e irreparabile fallimento. In altre parole siamo passati bruscamente dalla tracotanza della hybris, dalla cieca fiducia nel progresso e nella scienza, dalla voluttà del benessere facile e a portata di tutti, alla depressione cronica, all’auto-disprezzo e al segreto desiderio di morte, il che mostra ad abundantiam quanto fossero fragili e precarie le basi del nostro precedente modo di vivere, di sentire e di pensare, e che noi credevamo tanto solide da pretendere che il mondo intero prendesse esempio da noi, che eravamo i migliori di tutti, i campioni dell’umanità futura, emancipata dalle fatiche e dalle pene della condizione pre-moderna.
Siamo convinti che il punto sul quale far leva per rialzarci in piedi sia lì, sotto i nostri occhi, per il semplice fatto che è sempre stato lì, solo che lo avevamo nascosto sotto spessi strati d’illusioni e di menzogne: e quel punto è Gesù Cristo. È stato il cristianesimo a fare di noi dei popoli civili, a dare alle nostre famiglie, nel corso delle generazioni, la giusta prospettiva per costruire qualcosa invece del nulla. Tutto ha incominciato ad andar male quando abbiamo voltato le spalle a quella inesauribile ricchezza e siamo andati dietro al pifferaio magico della modernità, che, ingannandoci, ci ha condotti fin oltre l’orlo del precipizio. Adesso dobbiamo risalire, il che è difficile sia materialmente che spiritualmente; ma non è impossibile: perché si tratta di riscoprire un tesoro dimenticato, ma che era già nostro: quello custodito tanto amorevolmente dai nostri avi, e grazie al quale i nostri popoli hanno creato una vera civiltà, splendida di opere d’arte e di pensiero, ma soprattutto ricca di fermenti spirituali, perché capace di porsi in un giusto equilibrio fra la vita di quaggiù e la nostra patria vera, che è di lassù. L’eccessivo attaccamento alla dimensione terrena porta al materialismo, al relativismo e al nichilismo; l’ossessione della nostra patria finale porta al disprezzo del presente e alla trascuratezza dei nostri doveri, qui e ora, verso noi stessi e verso le future generazioni. Noi dobbiamo reimparare a vivere, come i nostri nonni, con un giusto amore per le cose terrene, per gli affetti familiari, per la santità del lavoro, e la necessaria e benefica tensione verso la dimensione spirituale, che ci apre alla luce di Verità che, sola, ci può illuminare il cammino anche nei momenti più bui e nei tratti più impervi del nostro pellegrinaggio.
Ma come si fa a tornare al cristianesimo? Ci si può forse immergere due volte nella stessa acqua? E noi, che non siamo più quelli di allora; noi, che siamo così cambiati; noi che la modernità ha trasformato quasi in un nuovo tipo antropologico, foderato di scetticismo e d’incredulità, come faremo a ritrovare quella Verità che i nostri nonni sapevano accogliere in tutta umiltà e semplicità, e ciò valeva anche per le persone colte? Il problema del ritorno al cristianesimo diventa, a questo punto, e come bene aveva visto Kierkegaard già centottanta anni fa, il problema di come trasmettere, come annunciare, come comunicare il cristianesimo agli uomini moderni, vale a dire agli uomini infettati dal virus della modernità.
Ci sia consentito riportare quel che scrive Ettore Fagiuoli a proposito di questo aspetto del pensiero di Kierkegaard, che poi è, a ben guardare, l’aspetto centrale e decisivo (in: Guido Boffi e altri, Dal senso comune alla filosofia. Profili, Firenze, Sansoni, 2001, vol. 2, pp. 301-302):
In questa desolante situazione c’è bisogno per Kierkegaard di un risveglio cristiano. Egli pone a se stesso un’opera titanica e quasi irrealizzabile: reintrodurre il cristianesimo nella cristianità. Ma come esprimere questo compito? La via che a tutta prima sembra più semplice è la COMUNICAZIONE DIRETTA: comunicare direttamente la verità. La comunicazione diretta è "comunicazione di sapere", vale a dire presuppone un comunicante che sia in possesso di un determinato sapere che, come oggetto della comunicazione, viene comunicato a un ricevente. L’importante in questa comunicazione è l’oggetto — in questo caso la DOTTRINA cristiana. Il comunicante, il ricevente e la riflessione sulla comunicazione stessa passano in second’ordine. Tuttavia proprio questa è la situazione della cristianità e in genere del’età moderna, dove tutti sono impegnati nel comunicare di più, nell’arricchire a dismisura l’apparato di studi su un argomento.
Bisogna allora seguire un’altra strategia. Come Socrate che fingeva di non sapere nulla per costringere l’interlocutore a dare ragione delle proprie opinioni, e per farlo giungere da sé a una nuova consapevolezza, così Kierkegaard si propone di essere un nuovo Socrate. Un SOCRATE CRISTIANO che sia primitivo nel senso già detto e sia capace di ingannar per portare alla verità. Egli non comincerà col professarsi cristiano mediante la comunicazione diretta, dirà invece: io in sono cristiano, tu lo sei, dunque dimmi cos’è la realtà cristiana.
Questa è per Kierkegaard la comunicazione indiretta. In essa l’importante non è il sapere come nella comunicazione diretta, ma realizzare nell’esistenza ciò che si dice. Qui comunicare vuol dire esistere, esistere come singolo, "reduplicare" nell’esistenza la comunicazione. Dunque la riflessione si sposta dall’OGGETTO della comunicazione al COME della comunicazione, alla comunicazione in quanto tale. Si deve riflettere sul MODO di comunicare che possa meglio favorire l’azione. Questo tipo di comunicazione Kierkegaard la chiama comunicazione di potere, comunicazione indiretta, comunicazione d’esistenza. Nella comunicazione indiretta risiede la ragione profonda della pseudonimia. Grazie a essa è sempre un singolo a esprimersi, ossia una persona che dice io e che reduplica nella sua vita ciò che dice. Un esteta (il personaggio A nella prima parte di "Aut-Aut") parla di estetica, un uomo etico (il magistrato Wilhelm nella seconda parte di "Aut-Aut") parla di etica, un pensatore (Climacus nelle "Briciole di filosofiche" e nella "Postilla") di filosofia, un cristiano eminente (Anti-Climacus nella "Malattia per la morte" e nell’"Esercizio del cristianesimo") del cristianesimo. Inoltre spesso nella comunicazione indiretta degli pseudonimi non è dato sapere se quanto si afferma è, per esempio, scherzoso o serio, oppure un attacco o una difesa del cristianesimo; né l’enigma può essere sciolto ricorrendo alla persona dello pseudonimo, perché costui è una persona inesistente, un nessuno. Così sarà il lettore a dover scegliere in base al proprio animo. L’opera diventa uno SPECCHIO che riverbera l’immagine di chi legge.
Chi attua essenzialmente e fino in fondo la comunicazione indiretta è Cristo, in quanto è "segno di contraddizione" o "paradosso assoluto". Egli contiene infatti in sé una contraddizione, anzi la contraddizione suprema, quella di essere un uomo, un modesto e insignificante essere umano, e contemporaneamente di essere Dio. Cristo è Dio interno al tempo. Egli è un inconoscibile, perché nella sua essenza è Dio, mentre alla’apparenza riveste i panni di un uomo mortale. Un qualsiasi uomo che si presenta in incognito, si pensi per esempio a una spia, può sempre sciogliere l’incognito e rivelarsi in modo diretto. Cristo non lo può in alcun modo: egli diventa assolutamente prigioniero dell’incognito sotto il quale si presenta. Non c’è alcun modo diretto di sciogliere questa contraddizione, perché, per quanto egli affermi di essere Dio, resta sempre un uomo con il suo destino mortale. Egli è dunque un paradosso assoluto, un enigma incomprensibile, che si fa specchio per chi ascolta il suo insegnamento, così che ciascuno di fronte a Cristo vede s e stesso ed è costretto a rivelare se stesso. Ciascuno è posto di fronte all’alternativa: credere in lui o scandalizzarsi. Non ci sono ragioni oggettive che possono indurre a scegliere l’uomo-DioDi fronte alla ragione è e resterà uno scandalo, proprio quello scandalo che la cristianità vorrebbe abolire. Solo l’uomo-Dio è la verità, solo lui è il singolo per eccellenza, solo lui è dal principio alla fine comunicazione indiretta, visto che in lui non può esserci mai rivelazione diretta della divinità.
Kierkegaard, conscio del fatto che nessuno potrebbe fare ciò che nemmeno Cristo poteva (o voleva) fare, cioè annunciare Se stesso come singolo assoluto e auto-evidente, vero uomo e vero Dio; e conscio anche del fatto che voler comunicare il cristianesimo indirettamente implica la coerenza di viverlo sino in fondo nella propria vita, cosa che nessuno, tranne Cristo, può fare, si limita perciò ad essere il Socrate cristiano: ad aiutare ciascuno a ritrovarsi come singolo, spogliato dei veli della menzogna e dell’ipocrisia, e a riconoscersi, decidendosi in maniera assoluta per Cristo, oppure a scandalizzarsi di Lui. Solo Cristo ci mette di fronte alla nuda verità di noi stessi; chi vuole annunciare Cristo, come Kierkegaard si propone di fare, deve perciò limitarsi a fermare il lettore, l’uomo moderno che se ne va frettoloso per la sua via, e condurlo, col metodo socratico, a riconoscersi povero e indigente, più che mai bisognoso di Cristo. In altre parole, Kierkegaard vuole essere la luce che mostra la via da seguire, ma, al tempo stesso, la pietra d’inciampo nei bei progetti dell’uomo moderno, che parla di tutto e non sa mai fermarsi ad ascoltare la Parola di Verità. Tuttavia possiamo domandarci se sia proprio vero che, per annunciare Cristo agli uomini moderni, sia necessario seguire una strategia così indiretta, così sottile, perfino così ironica (fingere di non sapere cosa sia il vero cristianesimo per obbligare l’interlocutore a chiederselo lui stesso in prima persona), come se la modernità fosse una condizione culturale e psicologica che rende impossibile l’annuncio diretto, vale a dire l’annuncio della dottrina cristiana come una verità certa e oggettiva, alla maniera, poniamo, di un san Tommaso d’Aquino. L’uomo moderno, a giudizio di Kierkegaard, ha perso l’ingenuità del "primitivo", perché non sa più guardare al mondo con lo stupore originario di chi guarda le cose come se le vedesse per la prima volta: e questo è vero. Inoltre la filosofia moderna, sempre secondo il filosofo danese, è dominata dall’ipocrisia della chiacchiera: parole e parole per fare finta che i concetti siano chiari, ma nulla può essere chiaro quando si sono voltate le spalle alla verità; resta solo l’omologazione di un pensiero disonesto, tale cioè che si auto-inganna deliberatamente. E anche questo è vero. Però c’è un fatto: che Cristo è sempre stato e sempre sarà il segno della suprema contraddizione, e lo è per gli uomini moderni come lo era per i suoi contemporanei. Perciò, a nostro avviso, è un errore volersi adeguare, nella comunicazione del cristianesimo, alla mentalità dell’uomo moderno: è precisamente l’errore del Concilio Vaticano II e di tutta la teologia modernista o modernizzante., la quale, peraltro, ne siamo più che certi, disgusterebbe profondamente Kierkegaard. Ma tali essendo le premesse, in bisogna poi stupirsi di certi risultati. Il messaggio del cristianesimo è un messaggio assoluto, perché Cristo non è un annunciatore della verità come tanti, ma è Lui stesso la Verità. E dunque sia all’uomo moderno che all’uomo di mille anni fa non è possibile evitare il confronto con l’eterna domanda: E voi, chi dite che io sia? Dal punto di vista psicologico, questa è una domanda tremenda, perché porta alla massima tensione e alla massima contraddizione le facoltà naturali dell’uomo, fede e ragione, e gli chiede uno sforzo ulteriore, che lo obbliga a staccarsi dai suoi normali punti di riferimento. Al tempo stesso, ci sembra che sia un errore tralasciare, nella comunicazione del messaggio cristiano, la filosofia classica del cristianesimo, ossia il tomismo, che conduce l’intelligenza verso la Verità di Cristo, valorizzando la ragione e non mortificandola. Non c’è niente da fare: moderni o no, bisogna farsi umili davanti a Lui. Se non diverrete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18,3).
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