Il problema è sempre quello: come tornare a Cristo?
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12 Marzo 2020Quando una élite rivoluzionaria, sia essa politica o culturale, riesce a imporre alla società una svolta ideologica e a creare così un nuovo paradigma, la prima cosa che essa mette in campo, per potersi stabilire saldamente sulle rovine del vecchio paradigma, condannato alla distruzione totale (perché due paradigmi culturali non possono mai convivere pacificamente, anche se i nuovi si dichiarano sempre più aperti, più tolleranti e pluralisti dei vecchi) è la creazione di una mitologia; e ogni mitologia che si rispetti ha bisogno di figure eroiche che ne rappresentino i valori in forma meta-storica, vale a dire messi anticipatamente al riparo da ogni eventuale critica portata sul terreno storico. Il terreno storico è quello dei fatti, il terreno mitologico è quello, appunto, dei miti: nessun fatto, per quanto vero, potrà mai mettere in crisi il mito, fino a quando il mito troverà alimento nel sentire profondo degli uomini e in particolare nel loro immaginario collettivo. La modernità aveva bisogno di un padre nobile, di un eroe fondatore, così come ne hanno bisogno tutte le mitologie che si rispettino; la scelta di questa figura mitica ed eroica è caduta su Galilei per una serie di ragioni contingenti, ma avrebbe potuto cadere anche su altri, ad esempio Cartesio, o Francis Bacon, e la cosa non avrebbe fatto una gran differenza. Quel che conta non è la persona in se stessa, con i suoi veri meriti e con la sua vera statura intellettuale, ma il ruolo altamente simbolico che avrebbe dovuto incarnare a livello ideologico, ossia quale compendio del paradigma moderno: meccanicista, scientista, riduzionista, razionalista e, tendenzialmente, materialista. Solo così i seguaci del nuovo paradigma avrebbero potuto raggrupparsi sotto un ombrello ideologico sufficientemente ampio e robusto, per formare una squadra efficiente e conscia del ruolo che avrebbe dovuto svolgere, ossia, per dirla con lo stesso Galilei, quello di rifare i cervelli, come del resto è nei sogni, o piuttosto negli incubi, di tutte le élite rivoluzionarie di questo mondo.
Personalmente, riteniamo che Galilei sia stato scelto a preferenza di altri per incarnare il ruolo di eroe fondatore, come Enea fondatore della stirpe romana, soprattutto per via della vicenda processuale che lo ha opposto alla Curia romana e che, pur essendo stata originata dalle gravi insufficienze logiche e metodologiche del suo modello cosmologico, e in seconda battuta dai riflessi del nuovo metodo d’indagine sulla teologia (non del modello cosmologico in se stesso), oltre che dal particolare approccio personale di Galilei a una così delicata questione scientifica, nel quale egli ha mostrato deliberatamente l’equilibrio e il senso della misura di un elefante impazzito che faccia irruzione in una fabbrica di cristalli, ha offerto ai costruttori del nuovo paradigma scientifico l’elemento patetico e ideologico di cui avevano bisogno per colpire al massimo l’immaginario collettivo. In altre parole, Galilei si prestava più di chiunque altro, nella cerchia dei "papabili", per impersonare, agli occhi della gente, la figura del nobile scienziato moderno che ha compreso, lui solo, la verità, contro i retrogradi scienziati aristotelici, notoriamente oscurantisti, e soprattutto contro i preti, tradizionalmente nemici del vero, della ragione e della scienza. Due piccioni con una fava. Si accreditava così, per sempre, l’idea che Galilei fosse un cavaliere senza macchia e senza paura e che la Chiesa cattolica, da sempre, sia stata il nemico più fiero e il maggiore ostacolo al progresso intellettuale della società europea. E pazienza se sia l’una che l’altra idea sono totalmente fantasiose: perché Galilei era il contrario di un eroe senza macchia e senza paura, era un vecchio egoista, narcisista, opportunista, vanesio, geloso e invidioso di chiunque potesse gettare ombra sulla sua gloria, collerico, astioso, maldicente, acido, arrogante, e impegnatissimo a costruire il proprio mito, fino al punto di paragonarsi a un angelo del cielo venuto a portare agli uomini ignoranti la luce della verità (vedi il nostro articolo: Parabola del secolarismo: dal Nuntius Sidereus di Betlemme al Sidereus Nuncius di Galilei, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 28/202/18), salvo poi alzare immediatamente bandiera bianca quando si trovò a dover pagare un prezzo alla propria coerenza intellettuale; mentre la Chiesa ha sempre promosso la cultura, l’intelligenza, il sapere, la ricerca scientifica e la produzione artistica, al punto che non si potrebbe neanche immaginare la splendida fioritura della civiltà europea in tutti questi ambiti senza il suo contributo, diretto o indiretto, che va dalla fondazione di università e istituti di ricerca fino al mecenatismo verso artisti, scienziati e studiosi dei più vari ambiti.
Ma veniamo ai meriti squisitamente intellettuali di Galilei. Egli pretendeva di essere non solo un filosofo naturale, cioè uno scienziato, ma un filosofo nel senso proprio del termine, cioè un metafisico (ci avrebbe pensato Kant, due secoli dopo, a tagliar via la metafisica come un ramo secco, insieme alla "cosa in sé" o Noumeno, riducendo la filosofia alle misere proporzioni e alle anguste prospettive entro le quali da allora si è mossa). Ora, da che mondo è mondo, un filosofo deve essere innanzitutto un logico: la logica è la necessaria premessa della filosofia; niente logica, nessuna filosofia. Ma Galilei, in fatto di logica, ci capiva meno del più sprovveduto scolaro alle primissime armi; e il bello è che pretendeva di essere creduto ciecamente dagli altri scienziati, quando pretendeva d’imporre il modello copernicano al posto di quello tolemaico, sulla base di un grossolano errore di ordine logico.
Ecco cosa scrive in proposito Franco Agostini nel suo libro Le stravaganze della logica (Milano, Mondadori, 1992, pp. 289-290):
La vicenda umana e culturale di Galileo Galilei (1564-1642) è troppo nota nella storia del pensiero scientifico perché la si debba rievocare anche solo sommariamente. Ma il fatto che venne perseguitato non può esimerci dal considerare con occhio obiettivo e critico eventuali limiti, speculazioni, ritardi.
Galileo difendeva il sistema di Copernico, basandosi soprattutto su osservazioni telescopiche che gli altri non avevano fatto. Fra i motivi per cui gli intellettuali del tempo stentavano ad accettare le nuove concezioni astronomiche di Galileo vi erano veri e propri errori di logica.
UN RAGIONAMENTO ERRATO. Nella difesa del sistema eliocentrico, così chiamato perché, in contrapposizione al sistema geocentrico, o tolemaico, postulava che la Terra girasse attorno al Sole, Galileo aveva usato un ragionamento più o meno di questa forma:
1. Se il sistema planetario è eliocentrico, allora Venere presenta delle fasi come la Luna.
2. È vero che Venere presenta delle fasi.
3. Perciò il sistema planetario è eliocentrico,
Dove si annida l’errore logico? Apparentemente il ragionamento sembra filare, ma un’analisi più approfondita, svolta con i concetti fin qui sviluppati, mette in luce il motivo per cui il ragionamento di Galileo è logicamente inaccettabile.
Ogni ragionamento si compone di una serie (necessariamente finita) di premesse (nel caso in questione le affermazioni 1 e 2) e di una conclusione (l’affermazione 3). L’enunciato 1 è un’implicazione, con il suo antecedente ("il sistema planetario è eliocentrico") e il suo conseguente ("Venere presenta delle fasi come la Luna"). La seconda affermazione dice che Venere in effetti presenta delle fasi; asserisce la verità del conseguente. Si può per questo concludere che anche l’antecedente è vero?
È sufficiente un richiamo alla tabella di verità dell’implicazione [da pagg. 247 del testo] per accorgersi che non si può trarre tale implicazione. Com’è noto infatti, se il conseguente è vero, allora l’intera implicazione è vera, a prescindere dal fatto che l’antecedente sia falso oppure vero: dalla verità del conseguente non si può dedurre la verità dell’antecedente! [cfr. p. 250 del testo, dove è riporta tata anche la tabella di verità dell’implicazione: "Un’implicazione è falsa quando il suo antecedente è vero mentre il conseguente è falso; è vera in tutti gli altri casi. L’implicazione non gode della proprietà commutativa (se vale A→B, non è detto che valga B→A), gode invece della proprietà transitiva ecc.]
UN QUESITO FINALE. Quale forma doveva assumere il ragionamento di Galileo per essere logicamente valido?
Un’adeguata risposta richiede un’analisi dei valori di verità nella tabella dell’implicazione: se è vero il conseguente, non è detto che perciò si possa trarre come conclusione anche la verità dell’antecedente(nella terza riga, infatti, a conseguente vero corrisponde antecedente falso); se invece si afferma la verità dell’antecedente, l’unica conclusione "valida" (più avanti questo termine assumerà un significato preciso) è la verità del conseguente (nella prima riga, in cui antecedente e conseguente sono veri). Pertanto il ragionamento di Galileo, per essere valido, doveva assumere questa forma:
1. Se il sistema planetario è eliocentrico, allora Venere presenta delle fasi.
2. Il sistema planetario è eliocentrico.
3. Perciò Venere presenta delle fasi.
Oppure anche questa forma:
1. Se Venere presenta delle fasi come la Luna, allora il sistema planetario è eliocentrico;
2. È vero che Venere presenta delle fasi;
3. Perciò il sistema planetario è eliocentrico.
Ragionando più in generale, emerge qui un limite tipico del pensiero scientifico, a cominciare da quello matematico: se le premesse sono giuste o se non lo sono, una volta stabilita la relazione fra le premesse e l’enunciato, le conclusioni possono essere impeccabili quanto a rigore logico, ma totalmente erronee quanto alla verità di fatto. Errori di fatto, Galilei ne ha collezionati diversi, dalla natura delle comete alle cause delle maree; qui, però, dimostra di commettere anche gravi errori di logica, scambiando l’esattezza del conseguente per una prova della veridicità dell’antecedente. Altro che filosofo, Galilei ignorava i fondanti elementari della logica. Inoltre il suo spirito era fondamentalmente antiscientifico, perché pretendeva che gli altri accogliessero il suo modello dell’universo (che poi non era suo, ma di Copernico) senza essere in grado di fornire delle prove evidenti e convincenti: quelle che indicava, come le fasi di Venere, erano inadeguate, per le ragioni esposte da Franco Agostini. E allora, come mai di questo scienziato alquanto sopravvalutato si è voluto fare il fondatore della scienza moderna? Perché la scienza moderna aveva bisogno di un padre nobile, come ce l’aveva la scienza del paradigma precedente in Aristotele. Solo che Aristotele è stato il più grande filosofo di ogni tempo; Galilei non arrivava nemmeno a capire che la verità di una conclusione scientifica non implica la verità delle sue premesse. Anche da ciò si può misurare il divario che esiste fra la civiltà moderna e quelle che l’hanno preceduta, la greco-romana e la cristiana. I moderni, al confronto, sono dei nani: l’intero orizzonte intellettuale si è paurosamente abbassato, e tuttavia questo regresso viene spacciato per progresso. Da chi? Dai moderni, è ovvio: è il nostro paradigma che glorifica se stesso. Sta di fatto che filosofi come Aristotele o come san Tommaso d’Aquino, e poeti come Virgilio o come Dante, e architetti come quelli che hanno costruito i templi greci e le cattedrali cristiane, da secoli non nascono più. Chi vogliamo paragonare ad Aristotele, un Popper, un Russell? Ma per favore! E chi può reggere il confronto con Dante: un Éluard, un Prévert? Nanerottoli al cospetto di giganti: tali sono i moderni.
Quanto al fatto che ogni nuovo paradigma si crea una mitologia per eludere il confronto con i fatti, se ne può vedere un buon esempio, spostando la visuale dalla scienza alla religione, nelle vicende della Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II. I progressisti hanno voluto rinnovare il vecchio paradigma e non si son resi conto (o forse sì) che una tale operazione è impossibile, perché conduce inesorabilmente all’autodistruzione. Un paradigma non può "rinnovarsi", se con ciò s’intende cambiare pelle, appunto perché le basi di ogni paradigma poggiano sul mito (e non si deve intendere questa espressione in senso necessariamente negativo). Il mito cristiano, cioè l’insieme dei simboli cristiani, liturgici, teologici, morali, non si può rinnovare, perché ciò equivale a dichiararli storici, ossia umani, e togliere loro l’aura del sacro. Una dottrina che si rinnova non è una dottrina assoluta, non è Parola di Dio. L’operazione che hanno fatto i riformatori dal Concilio in poi è stata quella di sostituire progressivamente la prospettiva storica alla prospettiva metafisica. Così facendo, hanno imboccato la strada che conduce all’autoliquidazione della fede. Se ci si mette a contare avaramente i miracoli di Gesù; se si comincia a dubitare della divinità di Cristo e della sua resurrezione; se si pensa che inferno e paradiso siano solo metafore, e il Giudizio finale sia solo una tradizione superata, allora il cristianesimo si scioglie, pian piano, come neve al sole. Era questo che si voleva?
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