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Solo il cristianesimo ha le risposte decisive

Si viene al mondo non per caso, ma per assolvere un compito ben preciso: trovare il significato del fatto di esistere, e che tutte le cose esistano con noi. Il senso della vita umana, in altre parole, è la ricerca della verità; e infatti, inscritto nello statuto ontologico dell’essere umano, vi è il bisogno della verità. Non di una verità qualsiasi; non di una verità provvisoria e contingente, né di una verità soggettiva, valida per me ma non per te, o viceversa. Niente affatto: il bisogno di verità è il bisogno della verità, la sola, l’unica. E quando si dice bisogno, si intende proprio un istinto insopprimibile, senza il quale la persona sarebbe mutilata, non sarebbe veramente umana sino in fondo. Oggi si fa un gran parlare di esigenze; ma bisogni ed esigenze non sono sinonimi, non sono neppure parenti alla lontana. I bisogni sono qualcosa d’indispensabile; le esigenze sono i capricci fatti passare per cose necessarie. Pertanto si possono benissimo sfrondare tutte le esigenze, e la vita umana non ne soffrirà per niente; al contrario, avrà tutto da guadagnarci, come un pallone aerostatico alleggerito della zavorra, dopo che i sacchetti di sabbia sono stati lasciati cadere per consentirgli di acquistare leggerezza e salire di quota. Orbene, tutti gli esseri umani recano in sé, sovente ben nascosto e mascherato il bisogno di verità; negare tale bisogno, mortificarne sistematicamente l’appagamento, significa sospingere l’essere umano verso la pazzia, costringendolo a una vita del tutto innaturale, deviata dal suo fine naturale, e perciò aberrante. La civiltà moderna nasce da un progetto di eversione delle radici cristiane dell’Europa e da una deliberata volontà di staccare ragione e fede, scienza e religione; e dunque si configura anche e soprattutto come un graduale, concentrico, capillare e progressivo attacco contro il bisogno di Dio, mirante a scalzarlo dall’interiorità degli esseri umani e rimuoverne perfino la memoria. Ecco perché la modernità, sia ideologicamente che praticamente, si configura come totalitaria, né potrebbe essere diversamente, sia che il totalitarismo prenda le forme del comunismo o del fascismo, sia che assuma quelle — solo apparentemente insospettabili – del liberalismo e del democraticismo. La sua essenza totalitaria consiste nel fatto che, per poter sradicare dall’animo umano un bisogno ad esso consustanziale, la modernità deve cercar di penetrare anche nella sfera dei pensieri, dei sentimenti e perfino delle emozioni; e per far questo, deve assicurarsi il controllo della persona fin dagli anni dell’infanzia, indottrinandola e facendole un sistematico lavaggio del cervello, affinché ogni idea sgradita al progetto della modernità venga repressa e cancellata sul nascere, prima che possa manifestarsi.

Tuttavia, fino a quando la modernità non sarà riuscita a instaurare sul terreno pratico il totalitarismo perfetto al quale aspira, insieme alla cultura del Pensiero Unico, che si configura come il solo politicamente corretto, il bisogno di verità continuerà ad affacciarsi alla coscienza, anche se ormai moltissime persone, probabilmente la maggioranza, sono talmente condizionate da reagire da sé stesse, senza bisogno di sollecitazioni esterne, per ricacciarlo nelle profondità indistinte del subconscio. Nelle altre, la domanda di verità continua a porsi e incontra, naturalmente, le più varie risposte, sul piano filosofico, teologico, religioso, oltre che sul piano estetico, ove spesso essa scivola e quasi ripiega, secondo la lezione di Schopenhauer, per risarcire gli uomini del male di esistere, distraendo la loro attenzione dal piano della volontà, che è dolore, e portandola su quello della rappresentazione, cioè verso il puro godimento del bello. Ora, la modernità si distingue da tutte le civiltà precedenti, e specialmente da quella che l’ha preceduta nella stessa area geografica e culturale, ossia la civiltà cristiana medioevale, della quale è l’erede diretta, appunto perché essa non pone più in maniera univoca la risposta alla domanda di verità, ma offre a quest’ultima una varietà di risposte, tutte parziali, ma ciascuna delle quali convinta di poter bastare a se stessa. Il risultato è il relativismo culturale e l’annaspare degli uomini dall’una all’altra pretesa verità, con un senso crescente di delusone e di smarrimento, perché nessuna offre un saldo approdo e nessuna offre quel grado di certezza e di sicurezza che permette sia alle singole persone, sia alla società nel suo insieme, cominciando dalla famiglia, di costruire ordinatamente, laboriosamente e serenamente la propria esistenza. Se tutte le verità si equivalgono e se viene meno ogni certezza, le maglie che tengono insieme il corpo sociale incominciano a sfilacciarsi, a consumarsi, e alla fine cedono di schianto, e ciascuno va nella direzione più comoda, più facole, più seducente, senza curarsi di tutto il resto: ed è così che si disgregano le famiglie, decadono le professioni, si offuscano le intelligenze, si banalizza la cultura, si ignora il merito, la stessa moralità diventa un ostacolo per la realizzazione dei propri sogni e ciascuno si sente legittimato ad inseguire il proprio personale miraggio di felicità, incurante di muoversi ormai in un paesaggio desolato di rovine, paesaggio che ciascuno, col proprio egoismo e la propria irresponsabilità, ha contribuito a creare.

Il relativismo, quindi, che al presente viene presentato come una garanzia di pluralismo e quindi come una ricchezza, è, in realtà, l’anticamera del collasso del corpo sociale e della civiltà stessa, perché sulle sue sabbie mobili nulla di buon o e di durevole potrebbe mai essere costruito. Pertanto chi predica le meraviglie del relativismo o è un perfetto idiota, che non ha capito nulla della sua vera natura e delle sue inevitabili conseguenze, o è un criminale, che si è posto volontariamente al servizio del potere per favorire la dissoluzione della società e per agevolare l’abbrutimento delle persone e la sottomissione delle istituzioni. Perciò, attenzione: tutti quelli che vengono a lodarci la pluralità del vero, sono dei nemici del bene e andrebbero trattati di conseguenza; ma per prima cosa è necessario riconoscerli e smascherarli nelle loro perfide intenzioni. Quando, per fare un esempio, il signor Bergoglio viene a lodarci l’esistenza delle diverse religioni e sostiene, come ha messo nero su bianco con il documento di Abu Dhabi sulla cosiddetta fratellanza universale, che Dio vuole l’esistenza di esse, come se il loro contenuto di verità Gli fosse del tutto indifferente, si comporta secondo lo schema che abbiamo ora delineato: sta seguendo un’agenda ben precisa, l’agenda della massoneria e del grande potere finanziario, e non certo i doveri e le responsabilità del vicario di Cristo: quel potere finanziario che è incarnato da banditi della speculazione come George Soros, ma coi quali il sedicente papa condivide il linguaggio, i temi, gli slogan, fino alle virgole. Di fatto, i loro discorsi sono perfettamente sovrapponibili, e la Open Society del miliardario amorale Soros è esattamente la stessa cosa della società senza frontiere, che accoglie indiscriminatamente e illimitatamente tutti quanto, predicata dal signor Bergoglio ogni giorno, intimando ai i cattolici di favorirla in ogni modo. Fra i pensatori della nascente modernità che hanno visto e riconosciuto la necessità, per gli uomini, di giungere all’unica verità e non alle molte e ingannevoli pseudo verità, spicca Blaise Pascal, il quale l’ha trovata nel cristianesimo, la sola dottrina capace di rendere conto di ciò che l’uomo è realmente, nella sua grandezza e nella sua miseria. Pascal parte da una constatazione: l’uomo è in fuga da se stesso; e ciò accade perché si sente sospeso fra l’abisso della sua miseria, della sua fragilità, della sua nullità, e l’abisso della sua superbia, che lo porta a credersi molto più di quel che realmente è, oltrepassando i suoi limiti di creatura. Solo nel cristianesimo la sua fuga incessante può terminare e la sua ansia, la sua angoscia si possono placare nella pace di un porto sicuro. Riassumendo questo aspetto del pensiero di Pascal, scrive Gabriele Piana (in: G. Boffi e altri, Dal senso comune alla filosofia. Profili, Firenze, Sansoni, 2001, vol. 2, pp. 90-91):

Solo il cristianesimo è in grado di conciliar grandezza e miseria dell’uomo, nella misura in cui cin la dottrina del peccato originale attribuisce la grandezza al piano della natura originaria dell’uomo e della grazia e attribuisce la miseria al piano della natura corrotta. L’uomo non è un essere contraddittorio, la sua esistenza non è assurda. Per comprende quel "mostro incomprensibile" che è l’uomo è necessario riferirsi al cristianesimo. Solo esso infatti riesce a rendere conto della misteriosa duplicità dell’uomo, ossia a risolvere quella contraddizione che è l’uomo per la ragione umana. In tale modo Pascal elabora un metodo apologetico che sarà definito "metodo dell’immanenza". Si tratta di partire dall’uomo, di comprende l’uomo, e di mostrare che l’uomo è incomprensibile senza il cristianesimo, L’uomo stesso , col suo tragico contrasto esistenziale, è una prova dell’esistenza del Dio cristiano.

Da questo punto di vista, Pascal non rifiuta la ragione, ma la utilizza. Si tratta di evitare due "eccessi": "escludere la ragione, accettare solo la ragione" ("Pensieri", 253). Occorre riconoscere i limiti della ragione, ma senza arrivare a un rifiuto totale della ragione, la quale cosa comporterebbe l’assurdità della religione cristiana. la forza della ragione consiste nel riconoscere la sua debolezza. È ragionevole che la ragione rinunci a se stessa, ossia che faccia posto alla fede, poiché solo questa riesce a spiegare ciò che la ragione umana non spiega. Per risolvere la contraddizione della condizione umana occorre infatti credere in un mistero incomprensibile, il mistero del peccato originale e della sua trasmissione: "l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo" ("Pensieri", 434).D’altra parte, per Pascal tra fede e ragione non c’è continuità; si tratta di due dimensioni radicalmente eterogenee. La fede non è qualcosa d’irrazionale, nella misura in cui risolve le aporie in cui la ragione è intrappolata, ma non è neppure il semplice risultato di un cammino razionale "La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento" ("Pensieri", 279). La ragione insomma può cogliere la ragionevolezza della fede, ma ciò non basta per credere. A Dio non si arriva tramite la ragione, ma tramite il cuore: "È il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione" ("Pensieri", 278). In tale prospettiva, Pascal elabora un’argomentazione retorica, fondata sulla "scommessa". Pascal svaluta le prove classiche dell’esistenza di Dio. Queste sono valide per chi ha già la fede. Ma soprattutto sono astratte e giungono, è questo il difetto maggiore, a un Dio astratto e inutile, non al dio vivente della Bibbia, "il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe", il Dio dei cristiani […], un Dio di amore e consolazione" ("Pensieri", 556). La prova della scommessa non è peraltro l’unica prova a favore del cristianesimo che Pascal elabori. C’è, come si è visto, l’apologetica dell’immanenza. Ci sino poi l prove storiche, i miracoli, le profezie, l’autorità delle Scritture, le quali però sono valide, ma non "assolutamente convincenti".

Come si vede, Pascal giunge al cristianesimo per una via ben diversa da quella di san Tommaso d’Aquino. Per lui, uomo già moderno, è impossibile credere con semplicità: l’unico modo di arrivare a Cristo è procedere per esclusione, scartando le vie fallaci, e infine compiere un salto dalla ragione alla fede. La sua modernità consiste proprio nel fatto che vede la ragione la fede come due vie non solo diverse e distinte, ma anche, in ultima analisi, non comunicanti: dalla ragione si deve fare un balzo nel buio per giungere alla fede. Anche Kierkegaard, il più grande filosofo cristiano della modernità, seguirà in sostanza questa via: la fede è un rischio, un paradosso, un "assurdo". San Tommaso non la vedeva così. Per lui, il passaggio dalla ragione alla fede è rettilineo, naturale: a un certo punto la ragione non basta più, ma la fede non è irrazionale, è una forma di razionalità più alta della quale si può solo intravedere una parte, come davanti a una montagna così alta, da non riuscire a scorgerne la cima. Fatta questa doverosa premessa, aggiungiamo che la via di Pascal è certamente utile per tanti uomini moderni, i quali come lui non riescono a seguire la via più semplice né vedono la stretta complementarietà che esiste tra ragione e fede. Lo scarso peso che Pascal attribuisce alle prove classiche dell’esistenza di Dio, e la sua osservazione che esse servono solo a chi possiede già la fede, mostrano fino a che punto il veleno della modernità, che è appunto l’incredulità quale effetto della superbia intellettuale, sia penetrato anche in lui. Ed è a causa di tale intossicazione che Pascal ritiene incomprensibile il Peccato originale, e vede poi la necessità del "salto" alla fede come fosse un salto nel buio, o, peggio, come una scommessa ai dadi: se perdi, non ci rimetti nulla, ma se vinci, vinci una posta formidabile. Anche questo è un modo moderno, e quindi assai poco cristiano, di giunger a Cristo. Un po’ come per Berkeley, tanto deciso a lottare contro i liberi pensatori, da adottare il loro scetticismo quale punto di partenza, e come lo stesso Kierkegaard, tanto ostile alla dialettica hegeliana, da servirsi poi del procedimento dialettico in ogni capitolo, in ogni pagina della sua opera. E questa non è una critica, ma una constatazione: essere moderni vuol dire avere in sé il morbo dell’incredulità, che va contro quel bisogno di Dio che abbiamo visto essere connaturato allo statuto umano. Ma qui appunto bisogna ricordare quel che dice Cristo ai suoi seguaci: voi siete nel mondo, ma non siete del mondo. E la stessa cosa deve fare chiunque voglia accostarsi a al Vangelo: ricordarsi che vivere nella modernità non significa appartenerle. Certo, i moderni devono fare un lavoro preliminare: ripulire la mente e l’anima dalle incrostazioni del pensare e del sentire moderni…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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