Se l’anima esiste, l’aborto è un crimine atroce
5 Marzo 2020Questo è il tempo dei nani. E dei giganti
6 Marzo 2020Quante volte, negli anni dalla giovinezza, ci siamo chiesti, per una oziosa fantasticheria, quali libri avremmo voluto salvare con noi, nel caso che la nave sulla quale stavamo viaggiando fosse andata alla deriva, senza più equipaggio né alcun altro passeggero a bordo, e noi ci fossimo trovati davanti alla prospettiva di una lunga e forse definitiva solitudine, senza meta, senza un porto amico ove trovare accoglienza, e con la sola compagnia di pochi buoni libri quale conforto spirituale, oltre che quale nutrimento intellettuale ed estetico. Avendo deciso di limitare la scelta a non più di dieci volumi, ci sforzavamo di unire il meglio della cultura, della poesia e della spiritualità. Assegnavamo i primi cinque posti alla Bibbia, all’Iliade, all’Odissea, all’Eneide e alla Divina Commedia; per gli altri cinque eravamo sempre dubbiosi fra una rosa che comprendeva il Don Chisciotte, il teatro di Shakespeare (possibilmente tutto; esistono edizioni in un solo volume come quella "storica" della Sansoni, che nostro padre teneva su uno scaffale della sua libreria); poi I promessi sposi, I fratelli Karamazov, Guerra e pace, Moby Dick,… e siamo già a undici titoli, limite massimo superato. E il Faust? E i Miserabili? Eh, come lasciar fuori proprio I miserabili? È stata una delle letture che ci hanno maggiormente commosso, quando l’abbiamo fatta per la prima volta… Ma, allora, Il dottor Živago? Come farne a meno? E Il maestro e Margherita? E poi, solo romanzi? Niente poesia, niente Leopardi… come si fa? E la filosofia, dove la mettiamo? Ci vorrebbero, come minimo, le opere complete di Platone e quelle di Aristotele, tanto per cominciare. E le memorie? Le autobiografie, come le Confessioni di sant’Agostino? E gli epistolari? E gli amatissimi libri di viaggi? Era concepibile di non potersi portar via La scoperta della terra di Charles M. de la Ronciére, con le sue bellissime stampe e incisioni d’epoca? E i Trenta anni nella Terra del Fuoco del padre salesiano Alberto Maria De Agostini, missionario, geografo e alpinista, con quelle stupende fotografie di montagne e ghiacciai, e con quelle accuratissime mappe geografiche da lui stesso tracciate sugli spazi ancor bianchi della carta, perché mai visitati da alcuno: queste non meno entusiasmanti di quelle, né meno capaci di evocare distanze indefinite e smisurati silenzi? No, un momento: mancava una cosa essenziale: una bella guida storico-artistica illustrata dell’amatissima città natale, Udine, e del nostro Friuli; o anche solo la guida del duomo di Udine, così da aver sempre il ricordo di quell’atmosfera incantata, quando si andava alla santa Messa tutti insieme; quando noi bambini si serviva da chierichetti, e nel profumo dell’incenso e della cera tirata di fresco sui pavimenti marmorei, davanti allo spettacolo delle volte barocche, delle colonne, delle sculture, ci pareva d’essere rapiti su, su, fino al cielo…
Restava il "buco" della filosofia; mica poco. D’altra parte, qui la scelta si restringeva parecchio: quanta cattiva merce spacciata per buona; quanti modesti, meschini pensatori fatti passare per grandi. La filosofia è la ricerca razionale della verità; ma da secoli, ormai, la nostra cultura sguazza allegramente nella palude del relativismo: e se i filosofi smettono, essi per primi, di credere alla verità; se si mettono a spiegarci che vi sono due, tre, quattro, cento verità; che la verità dipende dal luogo, dal tempo, dal contesto, nonché dalle disposizioni personali, e magari anche dal punto di vista… allora è proprio finita, siamo arrivati alla frutta. A cosa serve filosofare, se non si crede più alla verità? Se non la si ritiene una meta possibile, oltre che necessaria, beninteso a determinate condizioni, che cosa è mai la filosofia? Che razza di mestiere sarà mai quello del filosofo, se costui ritiene che la verità sia come l’araba fenice, una specie di sogno, di miraggio, un vaneggiamento, o peggio ancora, una presunzione, e perfino un’impostura? Senza la verità, tutto diventa falso, ingannevole, inattendibile… e allora è meglio, molto meglio, occupare altrimenti il proprio tempo. Eppure, è proprio così che si pongono i filosofi moderni: e per dire che la verità non c’è, che è un mito, anzi per non parlarne neppure, dando per scontato che si tratti d’una questione insolubile e perciò di uno sforzo velleitario, scrivono libri, e sono apprezzati nei salotti, sono invitati a tener conferenze, e lodati, e applauditi… E si dicono filosofi; e tutti li chiamano filosofi! Incredibile: sarebbe come se un marinaio d’acqua dolce, che non ha neppure mai visto il mare in vita sua, venisse a intrattenerci sulle meraviglie delle sue navigazioni nei mari e negli oceani più lontani, sulle sue avventure nelle isole tropicali o presso la banchisa antartica… Oppure, se si preferisce, sarebbe come se un uomo che non ha alcun orecchio per la musica, né alcuna cultura musicale; un uomo che non ha la minima sensibilità musicale e che non sa leggere neppure le note sullo spartito, pretendesse di esser considerato un esperto musicologo e di offrire a noi, poveri profani, le sue dotte dissertazioni in materia, sommergendoci di parole e assumendo pose enfatiche, quasi che nessuno meglio di lui possa esprimere giudizi e fare ragionamenti in tale materia. Ebbene: la situazione dei filosofi moderni è esattamente la stessa, mutatis mutandis. La scelta dei libri da prendere con noi è dunque ristretta a pochi titoli, in confronto a tutti quelli che offrono, come da vetrine scintillanti, le bibliografie specialistiche. I classici, innanzitutto: già lo abbiamo detto, Platone e Aristotele. Poi, il meglio del pensiero cristiano, sulle orme del miglior pensiero greco: e dunque, senza dubbio, la Summa theologiae di san Tommaso d’Aquino. In compagnia di una tale opera non si è mai soli, non si è mai al buio, non si è mai al freddo, proprio come quando si è in compagnia della Commedia dantesca. E poi? E i moderni? Niente, praticamente niente: i moderni sono nemici della filosofia, perché sono nemici della verità, o, nel migliore dei casi, indifferenti ad essa. Le eccezioni si contano davvero sulle dita delle mani: Berkeley, per esempio. Eppure, onestamente, quale distanza dai grandi pensatori classici: come si restringono gli orizzonti, come si appesantisce l’atmosfera, come le idee assumono qualcosa di pedante, di libresco, di rigido, laddove in Platone, in Aristotele, in Agostino, in Tommaso d’Aquino, si sente veramente il respiro dell’Assoluto, e vi sono dei momenti nei quali si ha la sensazione di sfiorare, di percepire quasi il respiro dell’Essere. È la stessa sensazione che si prova leggendo certi testi orientali, come la Bhagavad-Gita; tuttavia abbiamo deciso di limitare il nostro giro d’orizzonte alla civiltà cui apparteniamo, quella dell’Occidente, perché in India e in altre culture la linea di divisione tra filosofia e mistica non è così chiara e riconoscibile come lo è in essa; e noi abbiano troppo rispetto sia per i filosofi, sia per i mistici, per volerli confondere, pur essendo dispostissimi a riconoscere che non si tratta per niente di strade estranee e divergenti, ma di strade parallele, che si sostengono a vicenda e che vanno nella medesima direzione, ossia verso l’Essere. L’Essere è il fondamento di ogni cosa, è la premessa e la condizione necessaria tanto del pensiero, quanto del bisogno di Dio: perché l’uomo non potrebbe vivere, non sarebbe più uomo, se smettesse di pensare o di desiderare Dio. L’uomo è uomo perché pensa e perché cerca Dio; e le due cose vanno di pari passo, anche se richiedono attitudini e modalità diverse: sia il pensiero che la mistica conducono fino ai piedi del Suo trono. Gli antichi lo sapevano, i moderni l’hanno scordato; o, per essere più esatti, lo hanno voluto dimenticare, lo hanno voluto cancellare dalla loro coscienza e dalla loro stessa memoria. Hanno voluto uccidere in sé il bisogno di Dio per poter raggiungere la completa libertà del pensare e dell’agire: e non si sono accorti di aver fatto come colui che si amputa della mano destra, credendo di liberarsi di un fardello inutile. E ora, miseramente mutilati, anzi auto-mutilati, se ne vanno attorno baldanzosi e impettiti, convinti d’essersi sbarazzati di un peso del tutto superfluo, e pretendono di essere ammirati per tale intelligentissima impresa: quando meriterebbero di essere lapidati, perché non si sono limitati a mutilare se stessi, ma hanno creato un clima culturale nel quale tutti quanti se ne vanno in giro come altrettanti invalidi. E guai se qualcuno, di tanto in tanto, osa dire la verità, o anche solamente sussurrarla: eccoli subito digrignare i denti, eccoli stringere i pugni con rabbia, pronti a scagliarsi sul malcapitato, ricoprirlo di contumelie, dileggiarlo e sbeffeggiarlo come un povero allocco, come uno spaventapasseri che pretende di essere un uomo.
Ma non si salva proprio nessuno, fra i pensatori moderni, dal generale andazzo relativista? Sì, certo; ma quelli che si salvano precipitano a capofitto, sovente, in un abisso di deliri veri e propri, perché fanno della loro idea di ragione il metro della verità; mentre la verità, per avere un senso, deve essere obiettivamente identificabile e deve rispondere a un requisito universale: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Lasciamo dunque Hegel alle sue stranissime fumisterie, all’origine delle quali c’è la stranissima idea che non è l’essere a creare il pensiero, bensì il pensiero a creare l’essere; e lasciamo perdere, naturalmente, il buon vecchio Kant. Che sara stato di grande utilità ai suoi concittadini di Königsberg per regolare gli orologi quando passava davanti alle loro finestre nella sua passeggiatina quotidiana, ma che, avendo tagliato via, come un ramo secco e ininfluente, la metafisica, ha tagliato via anche, né più né meno, la questione della verità. Niente metafisica, niente assoluto; niente assoluto, niente verità: e dunque, di nuovo: di che cosa stiamo parlando? Non certo di filosofia, ma di qualcos’altro: di che cosa, domandatelo a lui, noi non lo sappiamo, né l’abbiano capito. E allora, fatta la necessaria scrematura, a restare in piedi non ci sono che loro due, la strana coppia, il solitario di Copenaghen e il solitario di Torino, entrambi quasi ignorati in vita, entrambi mal compresi, entrambi guardati tuttora con una certa diffidenza da coloro che scrivono le storie della filosofia, cioè dai professori di filosofia: ragion per cui gli studenti li conoscono poco e male, e in ogni caso non li ritengono essenziali, perché i loro professori battono e ribattono su altri nomi: oltre che su Cartesio e Locke, su Kant ed Hegel, battono su Marx, su Freud (?), su Heidegger, magari anche su Croce. Sono quelli gli autori da studiare, sono le loro opere, quelle che bisogna mostrare di conoscere: ovviamente senza averle lette, perché nei licei si parla di filosofia ma non si legge neanche un rigo dei filosofi, e se lo si legge, lo si fa col paraocchi del politicamente corretto, il che è ancor peggio di non aver letto nulla. Ma se lo studente mostra di non conoscere troppo bene Kierkegaard o Nietzsche, pazienza; purché sappia dire quelle due acche sugli stadi nel cammino della vita per il primo, e circa il superuomo e l’eterno ritorno dell’uguale per il secondo, la sufficienza è comunque assicurata. Non sono considerati pensatori essenziali; logico: non sono moderni, nel senso corrente della parola, e sia pure per ragioni profondamente diverse. Ma sono entrambi dei ribelli: dei veri ribelli, non dei ribelli da salotto.
Il solitario di Copenaghen era in rivolta contro l’hegelismo, contro la massa, contro la stampa, contro il cristianesimo addomesticato, contro tutto ciò che rende la vita inautentica e la devia dal suo fine naturale, che è Dio. Il solitario di Torino era in rivolta contro l’ipocrisia del sapere accademico, contro la morale degli schiavi, contro lo spirito gregario, contro i miti posticci che distolgono l’uomo da ciò che deve essere: colui che dice sì alla vita. Il primo metteva in guardia contro il vuoto di un mondo senza Dio; il secondo cercava di delineare un nuovo orizzonte esistenziale, nel quale gli uomini possano vivere dopo aver preso atto della morte di Dio. Per entrambi, Dio è il termine inevitabile del confronto dialettico: positivo per l’uno, negativo per l’altro. Sono molto diversi, ma per certi aspetti anche molto simili. Kierkegaard cerca di spiegarci che non possiamo vivere lontano da Dio; Nietzsche cerca di spiegarci come possiamo organizzare la nostra esistenza dopo che Lui se n’è andato. Ma è proprio vero che se n’è andato? Leggendo certe pagine dello Zaratahustra, piene di nostalgia per il Dio che non c’è più, che è stato ucciso dagli uomini, vi sarebbe da dubitarne. Dei due, pertanto, il più coerente, il più solido, il più positivo, è senza dubbio il solitario di Copenaghen, nel cui sguardo brilla tutta la malinconia di chi non perde mai di vista la nostra patria vera, che non è di quaggiù. L’altro, il solitario di Torino, non ha retto alla tensione delle proprie contraddizioni interne, del contrasto creato fra ciò che voleva essere e ciò che realmente era: molti dei suoi sì vanno intesi come dei no, molti dei suoi no significano sì. Non per niente voleva capovolgere tutti i valori; ma la contraddizione era più in lui che nel mondo. Kierkegaard è un maestro, Nietzsche è un caro, difficile, ruvido compagno di viaggio, della cui genialità si sentirebbe troppo l’assenza, se lo si lasciasse andare per la sua strada. Paradossalmente, Nietzsche non indica la via da seguire, ma quella da evitare; se lo sapesse oppure no, è un mistero che forse nessuno potrà mai sciogliere. Entrambi sono finissimi psicologi: certi scavi nella mente dei loro personaggi hanno qualcosa di straordinario, di sconcertante: e ciò prima che la psicologia venisse riconosciuta come una scienza. Entrambi, infine, sono filosofi poeti: ma la poesia fa velo, sovente, al pensiero di Nietzsche, mentre in quello di Kierkegaard è solo una freccia in più al suo arco, per meglio delineare certe sfumature del pensiero. Per queste ragioni, sia pure con rammarico, se nel nostro scaffale restasse spazio per un solo volume, sceglieremmo Kierkegaard, non Nietzsche. La compagnia di Nietzsche è esaltante, ma con essa si può sbagliare. In compagnia di Kierkegaard non si sbaglia mai: il suo pensiero è tanto soddisfacente sul piano filosofico, quanto rasserenante sul piano spirituale. Lasciamo che ci prenda per mano: ci condurrà per un giardino fiorito, sino a Gesù…
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