Suvvia, perché non lo dite che non ci credete?
4 Marzo 2020Cari compagni nel viaggio della vita
6 Marzo 2020La credenza nell’immortalità dell’anima è antichissima: la si trova presso i popoli primitivi ed è testimoniata dal tipo di culto che riservavano ai morti. Se non vi avessero creduto, non avrebbero seppellito il cacciatore con le sue armi più belle, o la donna coi suoi monili e le sue collane, o il bambino coi suoi giocattoli. E non avrebbero pensato, come traspare anche dai poemi omerici, che lasciare un corpo insepolto equivale a condannare la sua anima a vagare senza pace nel regno delle ombre, triste e sconsolata. La più antica e la più famosa dimostrazione filosofica dell’immortalità dell’anima si trova nel Fedone di Platone: una lettura sublime, capace di scuotere anche gli animi più induriti nell’incredulità, se appena è rimasto in essi un barlume di quel senso del trascendente che è connaturato alla condizione umana, e che soltanto la cosiddetta civiltà moderna, nella sua sistematica aberrazione e inversione di tutti i valori, è riuscita a compromettere seriamene non solo in alcuni intellettuali isolati, ma, ormai, anche in molte persone comuni. Per il cristiano, poi, ovviamente per il cristiano autentico e non per il cristiano fino a un certo punto di cui parlava Kierkegaard, tale credenza, o meglio, tale certezza, è alla base di tutto: sia della coscienza della propria vita, sia della fede in Colui che si è incarnato, è morto ed è risorto per aprire la strada alla resurrezione di tutti gli uomini, liberi dalle catene della morte e del peccato. Come scrive san Paolo, con esemplare chiarezza e concisione, nella Prima epistola ai Corinzi (15, 21-22): Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. E in maniera più articolata, nella Epistola ai Romani (5,12-19):
Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
La fede nella vita dopo la morte, e di conseguenza la consapevolezza della terribile serietà dell’esistenza terrena, che trova il suo capolavoro perenne nella Divina Commedia di Dante Alighieri, ma che è attestata anche nell’arte scultorea e pittorica di decine, centinaia e migliaia di cattedrali e di chiese medievali, tutte popolate di angeli e diavoli, di visioni del paradiso e dell’inferno, di Cristo Redentore e di Cristo Giudice e Re dell’Universo, ha sostenuto nel lavoro, nella fatica, nelle gioie e nelle difficoltà della famiglia, generazioni e generazioni di nostri antenati, fino a quando la modernità non è riuscita nel tremendo capolavoro di far sbiadire e, sovente, di rimuovere ciò che per tutte le civiltà umane è sempre stato il fondamento di ogni cosa, dalla vita privata alle pubbliche istituzioni, dalla coscienza individuale e quella collettiva, dei popoli e delle nazioni: la ferma convinzione che la vita non finisce con la morte fisica, ma prosegue nella dimensione dell’assoluto, sciolta finalmente dai lacci della carne. E indissolubilmente legata a questa, anzi premessa necessaria di questa, è la ferma convinzione nell’esistenza dell’anima. L’anima, infatti, è la parte dell’essere umano che sopravvive alla crisi della morte. Qualcosa sopravvive perché vi è, nell’uomo, una parte immortale. Fra gli argomenti razionali portati da Socrate, nel Fedone, a sostegno di questa verità, vi è il fatto che l’anima, per definizione, è una sostanza semplice, vale a dire incorruttibile e indivisibile. Si corrompe e si divide ciò che è complesso: e tale è il destino del corpo, formato da parti destinate a disgregarsi allorché da esso sia esalato l’ultimo alito di vita. Ma l’anima, essendo di natura semplice, non si può dividere, come non si può corrompere: permane sempre uguale a se stessa. Le cose semplici, aggiungiamo noi, proprio perché indivisibili, sono la base, il fondamento di tutto il resto: come lo è il punto per la geometria. Tutte le linee, le figure, le superfici e i volumi della geometria sono formati da punti, perché il punto non ha estensione: se non ci fosse il punto, non ci sarebbero linee, né figure, né superfici, né volumi. L’anima, pertanto, non ha estensione; ed è logico, perché non è di natura fisica. È ridicolo, pertanto, pretendere di aver confutato l’esistenza dell’anima, osservando che essa non si mostra, non appare, non è percepibile in alcun modo. Un filosofo dell’India antica, uno dei rarissimi appartenenti ad una scuola materialista, Kesakambalin, vissuto nel VI secolo a. C., credeva appunto di aver dimostrato che l’anima non esiste, adoperando simili argomenti (in Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza1977. pp.89-90):
Immagina, o Kassapa, che qui (alcuni) uomini, avendo afferrato un ladro, che ha commesso peccato me lo presentino: "Eccoti signore un ladro che ha commesso peccato: a costui infliggi la punizione che desideri". Così io direi: "Allora, o signori, dopo aver gettato quest’uomo vivo in un otre, dopo avere a questo chiuso la bocca, dopo averlo coperto con pelle fresca, dopo aver (sopra a lui) fatto una spessa cementatura con umida creta, dopo averlo collocato in un forno, ponete fuoco". E quelli dopo aver acconsentito (dicendo): "va bene(c. s.) pongano fuoco. Quando noi conosciamo che quest’uomo è morto, allora, dopo aver tirato giù quell’orcio, dopo averlo liberato dall’involucro e dopo avergli aperto la bocca, celermente guardiamo pensando: "Forse noi possiamo vere la sua anima (jiva) mentre che esce". Ma noi non vediamo anima che esce. Questo appunto, o Kassapa, è la prova per la quale io penso: "Anche così non c’è un altro mondo, non ci sono esseri opapatika, in c’è frutto e maturazione delle azioni buone o cattive".
Immagina, o Kassapa, che alcuni uomini, avendo afferrato un ladro, che ha commesso peccato me lo presentino: "Eccoti signore un ladro che ha commesso peccato: a costui infliggi la punizione che desideri". Così allora io direi: "Allora o signori, dopo aver pesato quest’uomo (mentre) è ancor vivo con una bilancia, dopo averlo ucciso con la corda di un arco in modo che non possa più respirare, di nuovo pesatelo con la bilancia". E quelli dopo aver acconsentito (dicendo) "va bene": dopo averlo pesato… lo pesino nuovamente con la bilancia. Finché egli vive è più leggero, più morbido, più cedevole; quando poi è morto diventa più pesante, più duro, meno cedevole. Questa appunto o Kassapa è la prova ecc.".
E avanti così, in maniera monotona, con tutta una serie di altri esempi, uno più ingegnoso e più crudele dell’altro, per vedere se, dopo aver ucciso un essere umano, esca da lui quella cosa chiamata anima e poi concludere trionfante che, non uscendo nulla, non rivelandosi nulla, ciò è la prova che l’anima non esiste. Ma l’unica cosa che appare evidente è che Keskambalin non è un filosofo: i veri filosofi sanno benissimo che non tutta la realtà è visibile, percepibile con i sensi, descrivibile con i concetto forniti dalla ragione strumentale e calcolante; se così non fosse, tutta la filosofia altro non sarebbe che filosofia naturale, ossia scienza. Ed è questa, fra parentesi, la ragione per la quale si può definire la modernità come una gigantesca regressione del pensiero umano: perché avendo assolutizzato il valore conoscitivo della scienza, si è posta nello stesso asfittico e un po’ ridicolo orizzonte mentale di un Kesakambalin: se non vedo una certa cosa, se non la posso toccare, se non la posso pesare sulla bilancia, allora vuol dire che quella cosa non esiste. Come quel cosmonauta sovietico il quale affermò, di ritorno da una missione spaziale, di aver guardato insistentemente attraverso l’oblò per vedere se Dio ci fosse, ma che non l’aveva visto da nessun lato. E non si tratta solo del penoso restringimento degli orizzonti mentali: una volta assolutizzata la scienza, vi è tutta una serie di conseguenze sul piano morale. Se l’anima non esiste, che cos’è il feto nei primi giorni, nelle prime settimane di vita? Solo un grumo di cellule, che si possono raschiar via se la madre non desidera mettere al mondo il bambino destinato a nascere. Ecco perché gli abortisti odiano le fotografie che mostrano il nascituro: guardarle equivale a prender atto che non si tratta di un grumo di cellule, ma di un vero e proprio essere umano, già formato e perfino capace di riconoscere fra mille la voce di sua madre, nonché di reagire con evidenti segni di piacere all’ascolto di una musica di Bach, e con evidenti segni di malessere una musica di rock duro. E l’anima? Essa, abbiamo detto, esiste ed è semplice, indivisibile. Non ha niente a che fare con l’età dell’essere umano che la possiede: che sia un feto di pochi giorni o un vecchio di cent’anni.
Scriveva Ian Wilson, classe 1941, uno studioso e saggista britannico che non professa alcun credo religioso definito e che non mostra alcuna particolare inclinazione verso il cattolicesimo, tutto al contrario, e perciò non può essere sospettato di voler sostenere il punto di vista cattolico sulla questione dell’aborto, ma semplicemente quello di un onesto ricercatore che non può escludere dal proprio orizzonte alcuna seria ipotesi, senza averla verificata (da: Ian Wilson, Al di à della vita; titolo originale: The After Death Experience: The Physics of the Non-Physical, London, Guild Publishing, 1987; tr. dall’inglese di Andrea Buzzi, Milano, Sperling & Kupfer, 1989, pp. 248-250):
Ciò che non possiamo far finta di ignorare sono le profonde implicazioni che sorgono se ammettiamo l’esistenza di una qualsiasi forma di anima, di qualche cosa che vada al di là dei nostri corpi mortali. Per quanto molti politici si dichiarino credenti e, come avviene in Gran Bretagna, siano effettivamente i responsabili di importanti nomine nel clero, le decisioni che prendono sugli affari umani sono tutte troppo spesso ancorate a considerazioni di questo mondo. Per esempio, anche se può sembrare agli antipodi della morte per come normalmente la intendiamo, c’è la soppressione artificiale della vita di un feto all’interno del ventre materno, quello che eufemisticamente chiamiamo aborto. Se in noi c’è un elemento come l’anima, viene da chiedersi a che punto entra nel feto, considerazione che mette in crisi qualunque chirurgo credente nel momento in cui deve condurre un intervento abortivo.
Geneticamente è noto che già al momento del concepimento gli aspetti del futuro essere umano come il colore degli occhi, e dei capelli, la struttura, le doti personali sono già stato determinati. In undici settimane il termine entro cui viene praticato il maggior numero degli aborti, il futuro bimbo è già inequivocabilmente una miniatura di essere umano che respira, mangia, digerisce, fa pipì e ha un cervello, uno stomaco, un fegato, e i reni, tutto perfettamente funzionante. Come è stato provato dalla tecnologia degli ultrasuoni, i bambini a questa età si rivoltano nel grembo e si accomodano per adattarsi alla madre a partire dalle quindici settimane, poi, secondo lo psicologo Clifford Olds del Rochford General Hospital, nell’Essex, sono in grado di distinguere la voce della madre da quella di un’altra donna che sta leggendo la stessa cosa. Più o meno alla stessa età reagiranno piacevolmente all’ascolto della musica, o spiacevolmente a rumori esterni sgradevoli o a minacce alla madre. Non c’è alcun dubbio che stiano vivendo. La possibilità che sia già presente una qualche forma di anima è stata avanzata da uno psichiatra, il dottor Kenneth McAll, che cita il caso di pazienti in cui il sorgere di un esaurimento nervoso potrebbe essere fatto risalire a un manifestarsi a livello inconscio del bambino abortito la cui morte non sia stata onorata dai sacramenti. Tuttavia secondo le nostre leggi questi bambini possono svilupparsi per altri tre mesi prima che diventi illegale ucciderli per questione di utilità sociale.
Non vogliamo dire altro. Ci possono essere mille ragioni per cui una donna non vuole far nascere il bambino che porta in grembo; ma nessuna abbastanza buona da rendere lecito l’aborto, che equivale a sopprimere la vita di un vero e proprio essere umano, dotato di anima e fatto a immagine di Dio…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash