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2 Marzo 2020Se dovessimo indicare, fra gli scrittori del secolo trascorso, quello che meglio di tutti ne incarna lo spirito nichilista e distruttivo, l’odio contro la verità e la speranza, il gusto perverso di sguazzare nelle tenebre dell’incertezza o d’incespicare continuamente nei labirinti dell’illusione e dell’errore, senza esitare indicheremmo Umberto Eco. E all’interno della sua vastissima opera, se dovessimo scegliere un libro che più degli altri sintetizza quelle caratteristiche, sia pure dopo qualche incertezza — perché i libri di Eco si assomigliano tutti nei pregi e nei difetti, è come se lo scrittore non si fosse mai allontanato d’un centimetro dalle sue contro-certezze e dalla sua antiverità, e quindi come se non avesse mai realizzato il benché minimo progresso interiore, per una scelta voluta che ha qualcosa d’intimamente negativo — alla fine ci fermeremmo su L’isola del giorno prima, pubblicata nel 1994. Vi si narra la vicenda di un certo Roberto de la Grive, che nel 1643 (l’anno della battaglia di Rocroi, punto di svolta nella Guerra dei Trent’anni) fa naufragio nei Mari del Sud e, a bordo d’una zattera, raggiunge una nave, la Daphne, immobile in una baia a un miglio dalla terraferma, sulla quale si troverà confinato — naufrago a bordo di una nave! – perché non sa nuotare. La nave, deserta, ma recante i segni d’essere stata abbandonata di recente dal suo equipaggio, in realtà nasconde a bordo un solo personaggio, un vecchio gesuita che si affianca al solitario Roberto, un po’ come Venerdì viene a colmare la solitudine di Robinson Crusoe. La nave, peraltro, carica di piante e animali di svariate specie esotiche, di strumenti scientifici, di carte nautiche d’ogni genere, si direbbe un vero e proprio "teatro della memoria", altrimenti detto "teatro della sapienza", ossia un luogo appositamente costruito per conservare, secondo le teorie del filosofo umanista Giulio Camillo Delminio (Portogruaro, 1480-Milano, 1544), per mezzo di un sistema di associazioni mnemoniche per immagini, l’intero scibile umano. Al tempo stesso, nella sua forzata inattività di naufrago, Roberto si abbandona volentieri a speculazioni più o meno filosofiche su ogni sorta di argomento; coltiva l’amore platonico per una bella dama da lui conosciuta, e alla quale scrive infuocate lettere che quasi certamente non giungeranno mai alla destinataria; si appassiona sia al problema pratico di raggiungere in qualsivoglia maniera la terraferma, ad esempio mediante la costruzione d’una campana pneumatica, sia a problemi squisitamente scientifici, come la determinazione della longitudine, che era allora la grande questione insoluta dei naviganti, dalla quale dipendeva la possibilità di fissare esattamente la localizzazione di un punto sulla carta, essendo già noto il metodo per fissare la latitudine. Ma in sostanza, come in tutti i romanzi di Eco, sullo sfondo si delinea la domanda sul senso ultimo delle cose, che finisce per stagliarsi su ogni lato dell’orizzonte, quanto più asfittica e artificiale si fa l’atmosfera in cui si muove il prigioniero, ormai giunto alle soglie di una dimensione in cui la realtà e il sogno si fondono e si confondono e diventa impossibile orientarsi, dato il progressivo venir meno di ogni sicuro punto di riferimento e, viceversa, il moltiplicarsi dei segnali, dei rimandi e dei simboli illusori, ambigui, fallaci, come in un gigantesco gioco degli specchi, dove nulla è come sembra e tutto potrebbe essere il contrario di ciò che appare.
Una sintesi efficace dei contenuti di quest’opera, tanto più attendibile in quanto viene proprio da un critico che condivide l’orizzonte mentale, scettico e relativista, di Eco, è stata fatta dal giornalista Cesare Medail (Venezia, 1943-Milano, 2005) nel saggio introduttivo Sulle rive del tempo al romanzo dello scrittore alessandrino (in: U. Eco, L’isola del giorno prima, Milano, Bompiani, 1994, e RCS, 2003, pp. 11-12):
Certo, l’uomo esiliato su una nave piena di orologi, portolani, strani animali e strane piante ("il "Serraglio degli Stupori"), il solitario costretto a contemplare un’isola inavvicinabile, suggerisce un’altra figura letteraria, il "vicino irraggiungibile", emblematica forse della condizione umana. Per il naufrago l’isola negata riassume ogni desiderio: la conoscenza, perché quella terra racchiude il segreto delle longitudini e dei paradossi temporali, l’amore, perché egli ormai nelle anse, nei promontori, nelle chiome boscose il corpo della donna amata; infine la salvezza, che a poco a poco assume la forma mistica di una Colomba Color Arancio che Roberto sogna di cogliere in volo mentre si leva dall’isola. Ma i giorni sulla "Daphne" svelano al naufrago anche la vacuità di certe bizzarrie contemporanee, come la "Polvere di simpatia" da spargere su una spada per curare la ferita che ha provocato, abbagli propri di una cultura di transizione che intravede in modo distorto le relazioni intime della materia. È il secolo degli ircocervi, del sapere ibrido, che Reco ben interpreta quando fa dire a Roberto rivolto alla superficie marina: "Pensa, lì da basso c’è un gesuita che cammina", riferendosi a padre Caspar, l’intruso uscito dalla stiva, che indossato una sorta di rudimentale ma ingegnoso batiscafo, vorrebbe raggiungere terra camminando sui fondali. Nell’episodio c’è tutto: l’ansia di sperimentazione, l’intuizione e l’acutezza di uomini che tuttavia discutono ancora di mondo sublunare e gerarchie angeliche.
Infine, quando ogni tentativo si rivela vano, il "vicino-irragiungibile" diventa per il naufrago fonte di nuova consapevolezza: dell’impossibilità di accedere alla verità che costringe a ripiegare su finzioni, simboli e metafore; dell’impossibilità di toccare la felicità, della quale ogni piacere è surrogato; e infine dell’ineluttabile incompiutezza umana. Così Roberto si abbandona a una vertigine di riflessioni che spaziano dall’"ars moriendi" al rapporto tra vuoto e materia, dal nulla all’essere inteso come pura illusione, tesi cui timidamente oppone un cartesiano: "E però, se penso, non vuol dire che ho un’anima?" Il naufrago si avvita nei suoi pensieri finché non trova la soluzione di affidarsi alle acque per raggiungere, nuotando lungo il meridiano del cambio di data, una condizione fuori dallo scorrere del tempo e prossima all’eternità. Ed è allora che si manifesta la Colomba Color Arancio, in un finale che aprirebbe la corsa a nuovi significati, se così il cerchio non apparisse finalmente concluso. E il romanzo magistralmente compiuto.
La vita, dunque, come suggerisce Calderon de la Barca e come afferma Shakespeare, non è forse altro che un sogno, talmente labile e indecifrabile da sembrare fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; non solo: la vita è, come traspare da molti poeti marinisti, fra i quali Ciro di Pers, un incessante avvicinamento alla morte, e quindi, come insegnano i predicatori cattolici, come il gesuita Paolo Segneri, e come scrive un altro illustre gesuita seicentesco, Daniello Bartoli, una vera e propria ars moriendi, una preparazione alla morte. Tuttavia Eco è uno scettico dichiarato, come lo sono i protagonisti dei suoi romanzi; e può uno scettico prendere seriamente la questione sul senso della vita e sulla preparazione alla morte? Un’inconfondibile atmosfera di fatuità, di gioco fine a se stesso, pervade tutte le pagine del libro, tutte le riflessioni di Roberto de la Grive; la passione incontenibile di Eco per la semiologia, che gli prende totalmente la mano, fa sì che ogni pensiero, ogni parola, ogni gesto diventino una specie di gioco enigmistico, una gara a scoprire significati reconditi, sempre più strani e lontani dalla realtà, sempre più bizzarri e in definitiva alienanti. E che razza di preparazione alla morte sarà quella di colui che, nella vita, non sa vedere altro che un teatro della memoria, un complesso gioco enigmistico, un labirinto ove esercitare la propria intelligenza e frattanto dilettarsi nella grande passione del XVIII secolo, lo spirito della meraviglia? Non è una meraviglia umile e sentita di fronte al mistero dell’universo; no: è la meraviglia che nasce dalla presunzione dell’intelligenza, la quale pretende di rifare, e di rifare assai meglio, la realtà quale ci è data dai sensi, come se la mente umana volesse correggerne i difetti e rendere ogni cosa più bella, perché più interessante, appunto nel senso di più stupefacente, come tanto piace alla poetica e all’estetica barocca. Prigionieri del loro stesso gioco, i personaggi dei romanzi di Eco, come del resto il loro autore, non riescono mai a scendere veramente con i piedi sulla terra, a godere o soffrire o stupirsi per la realtà quale essa effettivamente è; vivono in un mondo fittizio, artificiale, opera del loro ingegno, del quale si compiacciono e dal quale, in fondo, non hanno voglia di uscire, così come chi entra nel palazzo del mago Atlante, nel poema di Ariosto, non desidera uscirne, perché in esso trova precisamente quell’oggetto del desiderio che riempie tutti i suoi pensieri, i suoi sentimenti e le sue fantasie.
Disancorati dalla realtà, i personaggi di Eco soffrono di una leggerezza patologica (insostenibile, direbbe Milan Kundera); si librano come bolle d’aria, senza peso, e perciò soffrono, nella sfera della vita etica, di una fondamentale mancanza di serietà: sono l’esatta negazione dei personaggi danteschi, ciascuno dei quali, nel bene come nel male, sa esattamente la parte che vuole interpretare e vi si cala sino in fondo, senza rimpianti né rammarichi, al cospetto della stessa eternità. Si fanno mille domande, ma se le fanno sul serio? Oppure anche l’interrogarsi fa parte dello spettacolo nel gran teatro del mondo? Se il mondo è, come pare, una grande macchina — è il trionfo del meccanicismo galileiano e cartesiano, contro il finalismo aristotelico e tomista — allora lo si può scomporre e ricomporre infinite volte, come se fosse un sottile gioco di società, per esercitare l’intelligenza e procurare a se stessi un piacer ulteriore, che si aggiunge alla sensualità dell’uomo seicentesco (si pensi a quelle colline e a quelle selve che ricordano a Roberto il corpo della donna: un’eco di Pavese?): quello dell’invenzione. Il mondo può essere letteralmente rifatto, reinventato, mediante l’utilizzo di opportuni simboli, di archetipi adeguatamente decifrati e ricomposti: riprendendo la lezione di un altro geniale e visionario gesuita, Athanasius Kirchner, esso può divenire quel che vogliamo, a patto di conoscere il linguaggio arcano dei segni e di padroneggiare la struttura logica delle forme. Ed ecco affacciarsi l’antica, anzi l’eterna tentazione dello gnosticismo: pervenire al senso ultimo delle cose mediante un percorso di conoscenza riservato a pochi, perché costellato di trabocchetti logici nei quali le intelligenze ordinarie si perdono irrimediabilmente, mentre solo le più duttili e sottili, le più originali e multiformi riescono a procedere senza smarrire la via. Ma per giungere dove, poi, dal momento che, per uno scettico, il senso ultimo semplicemente non esiste, o meglio esso è quel che si vuole, quando si vuole, come si vuole, secondo le regole di un copione che è nelle mani dell’uomo e non certo di Dio? La meta finale, come accade a Roberto, del lungo viaggio della vita sembra essere una condizione fuori dallo scorrere del tempo e prossima all’eternità; in altre parole, la libertà assoluta, che per un nichilista non può essere altro che il nulla. Roberto de la Grive sarebbe dunque un anacronistico parente di Vitangelo Moscarda, lo stralunato protagonista di Uno, nessuno e centomila, che conclude la sua affannosa ricerca di autenticità e di verità approdando al limbo di un panismo estatico molto vicino alla follia, dove il suo io si scioglie e si trasforma in nuvole, cielo, erba, acqua, e ogni singola cosa esistente?
Senza dubbio sono molte le analogie, formali e sostanziali, fra Eco e Pirandello. Tuttavia, attenzione: ciò che nel drammaturgo siciliano è sincero e drammatico anelito di verità; ciò che è slancio, sempre frustrato ma sempre risorgente, verso la vita vera, non la vita simulata delle maschere o quella irrigidita della pagina scritta, in Eco diventa un molle gioco decadentista, una sciarada da semiologo incapace di togliersi gli abiti della sua specializzazione per dare uno sguardo alla realtà in se stessa: anche perché, per lui, la realtà in se stessa non esiste, esistono i nomi delle cose, ma non le cose in sé. Il suo è un estremo, lucidissimo, pazzesco nominalismo, che si riallaccia ad alcuni pensatori medievali, come Roscellino e Guglielmo di Ockham, e arriva fino alla modernità, ove celebra i suoi dubbi trionfi, emergendo in tutta la sua forza limacciosa e travolgendo ogni certezza, ogni punto fisso, ogni riferimento al quale rivolgersi per decifrare il senso vero delle cose. Non c’è, in Eco, neanche l’ombra della tragica serietà dei personaggi di Pirandello, per la buona ragione che Eco non è Pirandello: non è uno scrittore che si pone il problema dell’esistenza autentica, ma solo un cesellatore del nulla, un compiaciuto calligrafo del niente. E ciò che suscita raccapriccio e orrore ai personaggi di Pirandello, la scoperta che la realtà certa è solo una labile facciata, dietro la quale fa capolino lo spettro di una realtà magmatica e incomprensibile, nella quale la ragione si perde, come si perdono tutte le certezze, nei personaggi di Eco non arriva mai a scalfire la loro elastica indifferenza, foderata di dotto scetticismo. Non sanno liberarsi dei panni letterari, non sanno di essere veramente umani; non vi è in essi, pertanto, neanche un pallido riflesso della drammatica tensione dialettica fra persona e personaggio, che è al centro del mondo pirandelliano. In definitiva Pirandello è uno scrittore inquietante, che fa pensare; Eco è uno scrittore superfluo, che intrattiene la fantasia e non aggiunge una virgola a ciò che sappiamo, semmai insinua dubbi che servono solo a lui, per pavoneggiarsi nella sua vanità di semiologo che, conoscendo il segreto dei segni, vuol rendersi pari a Dio. Ma di Dio, direbbe Nietzsche, non è che una sbiadita controfigura…
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