Non sappiamo più riconoscere gli indizi del Male
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23 Febbraio 2020Quando una civiltà degenera e si corrompe, non è più capace di rappresentarsi correttamente la realtà e allora, per sopravvivere a qualunque costo, si mette a produrre dei miti, mediante i quali viene offerto ai suoi membri il surrogato di un rapporto sano con le cose reali. In una società malata si verifica un corto circuito fra la realtà e la sua rappresentazione: non conta più la realtà, conta solo ciò che al posto di essa viene somministrato come se fosse la realtà, ma che in effetti è solo una costruzione artificiale ed illusoria. Per fare un esempio: non conta più ciò che concretamente significa, per un Paese come l’Italia, far parte di un’istituzione sovranazionale come l’Unione Europea, che non è uno Stato, ma ha una sua moneta (paradosso mai visto in tutto il corso della storia); non contano i fatti oggettivi, osservabili e quantificabili: le quote di produzione industriale perdute, le imprese commerciali che falliscono, gli artigiani e i piccoli imprenditori che devono chiudere, restano senza lavoro e devono trasformarsi in lavoratori dipendenti sempre peggio pagati e peggio trattati in termini di orari, salute, ecc.: conta ciò che l’Unione Europea, e la sua moneta fasulla, rappresentano nell’immaginario collettivo, ossia qualcosa di utile, di prezioso, addirittura di salvifico e pertanto d’irrinunciabile. Dove andremmo a finire, ci viene continuamente detto e ripetuto, se non ci fosse l’euro? Precipiteremmo in Africa: questo è lo spauracchio che ci viene agitato davanti da parte di chi è interessato alla permanenza nell’euro. E intanto la maggior parte del popolo italiano, al quale viene rifilata questa narrazione della realtà, pare non rendersi conto che in Africa ci siamo già, e che da quinta potenza economica mondiale l’Italia è retrocesso, in base ai dati ufficiali del P.I.L., all’undicesimo posto, superata perfino dall’Indonesia e dal Brasile, e quasi raggiunta dal Messico e dalla Turchia. Oppure, per fare un esempio di carattere più generale, i popoli sono ancora ipnotizzati dal mito del benessere, esportato in tutto il mono dagli Stati Uniti d’America a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale; e benché si tratti solo di un mito ingannevole e delirante, intrinsecamente malvagio e distruttivo, perché pospone le persone e i valori al possesso delle cose e all’efficienza della tecnica, pare che solo una minoranza relativamente piccola si è accorta che il benessere non è mai stato raggiunto o che, se pure è stato raggiunto sul piano materiale (ma la sua caratteristica essenziale è quella di spostare sempre più in là la meta desiderata, alzando continuamente l’asticella delle aspettative), non ha generato gli effetti sperati in termini di vero benessere e tantomeno di felicità, ma al contrario, tensioni, competizione distruttiva, frustrazione, depressione, rabbia, invidia, amarezza e infelicità. Un altro esempio di mito come surrogato della realtà è quello del progresso (che è il mito fondativo della modernità, grazie all’illuminismo); una altro quello della potenza; un altro ancora, quello della giustizia. Non, si badi, la ricerca razionale della giustizia, bensì il mito della giustizia, presentata nell’ottica deformante dell’istinto. Diceva giustamente Georges Bernanos che non c’è istinto umano che, abbandonato a se stesso, non sia suscettibile di condurre l’uomo all’autodistruzione; di fatto, la civiltà consiste nell’imporre agli istinti dei freni e nell’incanalarli in forme che risultino costruttive, anziché distruttive, per mezzo della ragione. Non la ragione, a sua volta mitizzata, degli illuministi, ma la ragione come l’intendeva Aristotele e come l’intendeva san Tommaso d’Aquino: la ragione come strumento per conoscere la realtà nella verità: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e il giudizio.
Vale la pena di riflettere su ciò che diceva Bernanos, l’autore del celeberrimo Diario di un curato di campagna, in anni non sospetti, cioè poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in una serie di cinque conferenze, tenute fra il 1946 e il 1947, riunite poi un libro di riflessioni che, lette ai nostri giorni, hanno in gran pare un tono di attualità quasi sconcertante, Lo spirito europeo e il mondo delle macchine (titolo originale: La liberté, pour quoi faire?, Paris, Gallimard, 1953; traduzione dal francese di Gennaro Auletta, Torino, Borla, 1963, e Milano, Rusconi, 1972, pp. 79-82):
Una volta c’è stata un’Europa, voglio dire una civiltà europea, e in quel tempo non si parlava o si parlava il meno possibile di spirito europeo: non ne valeva la pena.
A quel tempo le grandi democrazie non avevano ancora inventato il nazionalismo e se i popoli non avevano già molti motivi per amarsi non conoscevano ancora che una piccolissima parte dei motivi che avevano per odiarsi. L’avvento dei nazionalismi democratici è stato un colpo fatale per la civiltà europea, l’hanno sommersa, e poiché lei non era capace di portare sulle spalle simili mostri, ha cominciato a colare a picco sotto il loro peso.
Gli imbecilli potrebbero dire che essa non era abbastanza solida; ma se io avessi voglia di rispondere, direi che una civiltà è stata sempre un’ingegnosa ripartizione di pesi da portare o di problemi da risolvere. Una civiltà umana non potrebbe resistere a qualsiasi cosa, non potrebbe sopportare qualsiasi pressione. La civiltà non è solo opera dell’uomo, è l’uomo stesso. Non si può esigere da lei, sia pure con il pretesto della giustizia, quel che non è ragionevole esigere dall’uomo.
Ma i tecnici non si imbarazzano per tanto poco; essi sovraccaricano la civiltà umana come gli ingegneri sovraccaricano l’arco maestro di un ponte per trovare il suo punto di rottura. Trovato il punto di rottura, essi ritengono di aver soddisfatto coscienziosamente i termini del loro contratto e ci presentano la nota delle spese.
La civiltà europea, a somiglianza di tutte quelle che l’hanno preceduta nella storia, era un compromesso tra ciò che è buono e ciò che è cattivo nell’uomo, era un sistema di difesa contro i suoi istinti. Non c’è istinto dell’uomo che non sia capace di rivolgersi contro l’uomo stesso e distruggerlo. L’istinto di giustizia è forse il più pericoloso. Passando dalla ragione all’istinto, l’idea di giustizia, per esempio, acquista una prodigiosa capacità di distruzione, D’altronde, in questo caso, essa non è più giustizia, come l’istinto sessuale non è l’amore, e non è neanche il desiderio di giustizia ma la concupiscenza feroce e una delle forme più efficaci dell’odio dell’uomo per l’altro uomo.
L’istinto di giustizia, quando dispone di tutte le risorse della tecnica, è disposto a devastare la terra.
Le civiltà corrotte generano dei miti. Si tratta innanzitutto di distruggere questi miti, questi mostri. È ridicolo pretendere di costruire o ricostruire checchessia in un mondo in cui i miti vanno e vengono liberamente facendo tremare il suolo sotto i loro enormi piedi. Se credete veramente che sia possibile edificare una civiltà sulla misura di queste colossali bestie, mi domando che cosa stiamo a fare qui.
Nell’ipotesi in cui un tipo interamente nuovo di civiltà, una civiltà di massa, stesse per uscire dall’anarchia morale e intellettuale di una civiltà quasi completamente despiritualizzata, a che pro discutere tra noi dello spirito europeo? Lo spirito dell’antica civiltà europea è condannato per sempre. E quanto allo spirito della nuova, non se ne parla ancora. Per il momento si ratta solo della tecnica. In nessun modo siamo dei tecnici. I tecnici non hanno bisogno di noi. Si tratta di sapere se la Storia ha un significato oppure se è la tecnica a dargliene uno. Oppure, per parlare più chiaramente, si tratta di decidere se la Storia è la storia dell’uomo oppure soltanto la storia della tecnica.
La civiltà europea moderna è una civiltà despiritualizzata per la ragione che abbiamo indicato già tante volte, ossia perché ha rigettato la propria anima, che era l’anima cristiana, e ha voluto costruire un nuovo ethos che non è un ethos, ma è solo una partita commerciale, cioè ha voluto rifiutare qualunque dimensione spirituale, ritenendola un impaccio, una palla al piede sulla via del progresso e del benessere, e puntare unicamente allo sviluppo economico e tecnologico. Da ultimo, infatti, il mito della tecnica ha finito per sostituire la percezione realistica della tecnica e dei suoi effetti: quello che conta non è il principio di realtà, ma il filtro attraverso il quale la tecnica è percepita mitologicamente. A sua volta, il mito della tecnica è stato posto al servizio di un altro mito, il mito della giustizia, che si alimenta di un istinto irrazionale e brutale: quello dell’uguaglianza. La tecnica, cioè, porrebbe tutte le persone su un piano di uguaglianza, perché consentirebbe a tutte di vincere la natura e piegare gli ostacoli che limitano la loro libertà: e questa onnipotenza della tecnica, posta al servizio dei desideri individuali, creerebbe una fratellanza universale che è anche, al tempo stesso, la versione più moderna del concetto di giustizia. È giusto che chiunque possa fare, mediante la tecnica, tutto quel che gli piace fare. Ora, il mito della giustizia è quello che in passato ha sostenuto, contro ogni evidenza dei fatti e contro tutte le obiezioni della logica, la Grande Promessa del comunismo; caduto il comunismo, l’istinto che lo alimentava si è immediatamente trovato un altro serbatoio di energie nell’istinto del piacere. Da esso nasce la filosofia dei diritti a senso unico e la pretesa di piegare la realtà ai desideri individuali, presentati come l’ultima frontiera della giustizia. Un tempo l’istinto della giustizia pretendeva d’imporre l’uguaglianza economica; oggi pretende d’imporre l’uguaglianza edonistica, anche se, ovviamente, si tratta di un’uguaglianza teorica, perché di fatto chi è ricco può essere infinitamente più"uguale" di chi è povero nella soddisfazione del proprio piacere. Così viene affermato solennemente, sempre in spregio al principio di realtà, che chiunque, quindi anche una coppia omosessuale, ha diritto alla soddisfazione di essere genitore, perché dove c’è amore, lì c’è famiglia (orrida contraffazione di un concetto giusto, che la famiglia nasce dall’amore), laddove è evidente che soltanto delle coppie omosessuali benestanti possono soddisfare un tale "diritto", con la pratica della fecondazione eterologa o con quella dell’utero in affitto, mentre le coppie omosessuali povere devono limitarsi al riconoscimento del loro desiderio sul piano giuridico; quanto poi a realizzarlo, evidentemente ciò confina con la barriera dei sogni.
L’interrogativo finale posto da Bernanos più di settanta anni fa, si tratta di decidere se la Storia è la storia dell’uomo oppure soltanto la storia della tecnica, purtroppo sta ricevendo una risposta sempre più netta e sempre più impietosa: l’uomo sta diventando uno strumento della tecnica e la storia dell’uomo si sta effettivamente convertendo nella storia del delirio di onnipotenza di una tecnica divenuta fine a se stessa. Vi sono alcuni che si consolano obiettando che la tecnica, per quanto male indirizzata e male utilizzata, è pur sempre un prodotto della mente umana e quindi non potrà mai procedere per conto proprio, sostituendosi all’uomo. Ahimè, costoro sono ancora prigionieri, forse volontari, di una concezione ottocentesca della tecnica. Oggi la tecnica è in grado di sostituire interamente il computer all’uomo; di produrre esseri umani in maniera puramente artificiale; di creare ibridi umani e animali; di creare macchine così intelligenti da funzionare in maniera autonoma, con una volontà propria; di creare umanoidi in parte umani, in parte artificiali, cioè una via di mezzo fra l’uomo e la macchina, laddove sarà impossibile separare nettamente le due nature che li compongono. Ciò che il pubblico di film di fantascienza, come Blade Runner, o i lettori di romanzi come L’isola del Dottor Moreau, ha incontrato nelle sue scorribanda fantastiche, sta divenendo realtà. Entro pochi anni sarà praticamente impossibile capire se avremo a che fare con degli esseri umani o con degli automi programmati; di più: cominceremo a dubitare di noi stessi, a dubitare della nostra umanità. E di più ancora: come nel film Matrix, cominceremo a chiederci se l’intero quadro della cosiddetta realtà, a cominciare da noi stessi, non sia, per caso, il programma di un supercomputer, vale a dire qualcosa che possiede un’esistenza virtuale, ma non concreta. E se nel nostro cervello sarà stato inserito un microchip capace di dare ordini alla nostra volontà, che cosa saremo diventati, a quel punto? Saremo ancora classificabili come esseri umani? Domanda di per sé oziosa: qualunque denominazione si vorrà dare a tali esseri, di fatto non saranno più creature umane, ma automi telecomandati, i quali di umano conserveranno solo l’apparenza (cosa che darà luogo a infiniti equivoci nei rapporti interpersonali).
Ricordiamo le sagge parole di Georges Bernanos: la civiltà non è solo opera dell’uomo, è l’uomo stesso: non si può esigere da lei, sia pure con il pretesto della giustizia, quel che non è ragionevole esigere dall’uomo. Ora, la cosiddetta civiltà della tecnica, logico sviluppo della modernità, pretende né più, né meno, che l’uomo si faccia da parte per non ostacolare lo sviluppo delle macchine. Lo vediamo a tutti i livelli, a cominciare da quello economico e produttivo: le macchine non servono per dar lavoro all’uomo o per facilitare il lavoro dell’uomo, ma per sostituirsi all’uomo; quindi, se le macchine possono fare, più in fretta, con maggior precisione e a minor costo, il lavoro dell’uomo, è chiaro che è l’uomo a divenir superfluo, non certo la macchina. Il che puntualmente sta accadendo….
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