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Kant, maestro d’incredulità e irreligione

Kant è probabilmente il principale maestro d’incredulità e d’irreligione della cultura moderna; gli altri, Hegel, Feuerbach, Marx, Freud, Heidegger, Sartre, al confronto, sono pesci piccoli. Nessuno ha esercitato un peso maggiore di lui, sul terreno strettamente filosofico, nello spingere la civiltà europea lontano dal Dio dei padri, Gesù Cristo, e lontano anche da un autentico sentimento religioso. La religione, per lui, come più tardi per Hegel, non è che una manifestazione arretrata e irrazionale di un’umanità bisognosa di essere rischiarata dai lumi della ragione: più ancora di Voltaire, è lui ad aver operato una cesura netta, decisa, definitiva, fra l’età della fede e l’età in cui la fede è diventata problematica, per non dire impossibile, a causa della ragione illuminista, strumentale e calcolante, e non per un processo naturale di distacco dal sacro e di secolarizzazione. Kant è il macigno posto di traverso sulla via della fede: a lui, e al prestigio di cui ha goduto in vita, poi dell’influsso che ha esercitato sul pensiero europeo nei due secoli successivi, si deve il fatto che almeno nove uomini di cultura su dieci si vergognano di dichiararsi credenti o di parlare di Dio, dell’anima e della vita eterna, così come i loro antenati hanno fatto per generazioni e generazioni. In compenso, Kant parla molto, anche troppo, della legge morale: per lui, la religione è solo uno strumento per l’attuazione della legge morale, che però, può vivere benissimo anche senza di essa, così come nasce al di fuori di essa, direttamente dalla coscienza dell’uomo. Ma chi la ispira nel cuore dell’uomo? Non si sa. Forse l’Essere Supremo; ma l’Essere Supremo resta un’entità assai vaga, poco più d’un semplice concetto. In realtà, al centro del suo mondo c’è sempre lei, la legge morale, spuntata non si sa bene da dove, come attuazione dell’imperativo categorico: tu devi. Anche la sua celeberrima formula, tanto ammirata dai professori di liceo da trasmetterla in estasi ai loro studenti: la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me, così dolce, così poetica, di una poeticità da Baci Perugina, è perfettamente in linea con la religiosità di stampo massonico. A ben guardare, al centro di tutto c’è l’uomo, non Dio: è l’uomo la misura di tutte le cose, o meglio la legge morale che agisce in lui. E che agisce indipendentemente da qualsiasi richiamo metafisico, da qualunque legame con il trascendente, quasi che egli fosse dotato, come vaneggiava Rousseau, di una bontà intrinseca e originaria, che, semmai, viene corrotta quando il bambino cresce e mano a mano che si fa sentire su di lui l’influsso della società corrotta. Quel cielo stellato sopra di noi è uno specchietto per le allodole: non c’è alcun cielo sopra l’uomo, per Kant, se non in senso meramente fisico; ma un cielo in senso religioso e soprannaturale non c’è, e non ci può essere (e infatti, la specificazione del cielo stellato non significa altro se non che bisogna evitare di pensare al cielo in senso cristiano, come sinonimo di un’altra dimensione del reale). Per Kant, in ultima analisi, l’uomo è il dio di se stesso: un dio che se si scorda di usare la ragione in maniera libera e spregiudicata, senza alcun rispetto per la tradizione, ricade nella barbarie, o, per dirla con le sue parole, nello stato minorità di cui è causa egli solo.

Dei danni catastrofici prodotti dal kantismo sulla cultura europea in senso strettamente filosofico, abbiamo già discusso ampiamente a suo tempo (vedi L’"io penso" kantiano e l’autocastrazione del pensiero moderno, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/05/07 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 15/11/17; cfr. anche Tutto è iniziato colla separazione tra fenomeno e noumeno, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 24/10/18). Ora vogliamo soffermarci su un altro danno colossale che il kantismo ha provocato, ma in ambito propriamente religioso: almeno se ‘religione’ è il riconoscimento della divinità come qualcosa di distinto e superiore alla natura umana e non una vaga e fumosa attrazione sentimentale verso un qualche ente indefinito, un ente che in ogni caso non ha creato il mondo, ma lo ha solamente dotato di un certo ordine e una certa simmetria (il Grande Architetto dell’Universo). Per misurare la vastissima portata dell’influsso esercitato da Kant sula cultura moderna, consigliamo vivamente la lettura di una pagina d’un teologo e filosofo oggi, come al solito, dimenticato (e se non fosse dimenticato, verrebbe esecrato, nel clima della contro-chiesa begogliana), Georg Siegmund (1903-1989), tratta dal suo libro Storia e diagnosi dell’ateismo (titolo originale: Der Kampf um Gott, Berlin, Morus Verrlag, 1960; traduzione dal tedesco di M. Accastello, Roma, Edizioni Paoline, 1961, pp.260-264):

Nel sistema del criticismo non c’è più un posto logico per la religione: tutti gli atti religiosi devono solo servire a promuovere la disposizione morale. Gli atti religiosi, in quanto aventi una fisionomia e un valore proprio, non sono più ammessi. Con una logica implacabile, vengono rigettati tutti i tipi positivi di religione, in particolare quella rivelata. "Il cristianesimo è l’idea della religione che più di tutte è fondata sulla ragione e pertanto dev’essere naturale" (Kant, "Der Streit der Fakultäten", K. Rossmann, 1947, p. 67). Per quanto alla testa del regno dell’intelligibile rimanga Dio, egli è un re la cui esistenza reale non può essere accertata per via speculativa: viene semplicemente ‘postulato’. Con questo atteggiamento si dà praticamente l’avvio a quella filosofia del "come se" che il Vaihinger ha sviluppato nella sua teoria della finzione. In ogni caso la relazione personale con Dio è e resta spezzata Ripetutamente Kant ribadisce il concetto secondo il quale il motivo di piacere all’Altissimo non è altro che una smanceria servile e indegna. Egli flagella con disprezzo il desiderio "patologico" che, secondo lui, si esplicherebbe in tale atteggiamento strisciante, alo scopo di far risaltare più nettamente e luminosamente, su questo sfondo tetro, il rispetto genuino per la legge autonoma. Egli dichiara espressamente: "Non esiste nessun dovere speciale verso Dio". "La vera, l’unica religione non contiene nessuna prescrizione positiva cioè quei principi positivi, della cui necessità assoluta noi possiamo renderci consapevoli, e che quindi con la pura ragione riconosciamo come rivelati" (p. 167). Gli atti religiosi di adorazione e di culto non vengono solo più qualificati come vuoti di qualsiasi valore ma nientemeno che pericolosi per la moralità. Tutto ciò che oltrepassa la condotta morale è "mero fanatismo religioso e pseudo culto di Dio" (p. 170). Queste affermazioni proscrivono addirittura la religione nel suo significato intrinseco. In modo particolare Kant non riesce a comprendere nulla della preghiera. Per lui la preghiera, intesa come ero e proprio culti reso a Dio e tentativo di ingraziarselo, è pseudo fede, fabbricazione di feticci. In presenza dei suoi amici egli avrebbe dichiarato che avrebbe provato una vergogna vivissima se qualcuno lo avesse sorpreso a pregare. Non v’è dubbio: le relazioni con Dio si sono completamente raffreddate. Certi amici di Kant vecchio parlano con grande stima e venerazione della sua fede sincera in Dio (…) L’amico suo più intimo, il teologo Borowski, afferma: "Dobbiamo rendere i più vivi ringraziamenti a Kant per aver collegato così saldamente a Dio, fin da quaggiù, la nostra fede morale". Ma anche questo amico non riuscì a smuovere Kant dai suoi principi, a indurlo a prendere parte a una funzione liturgica o a fargli mormorare una parola di preghiera sul letto di morte. Christian Woff morì ancora con una preghiera sulle labbra: Kant la rifiutò anche di fronte alla morte. Fu sepolto nella cattedrale di Königsberg della quale durante tutta la vita aveva ricusato di varcare la soglia, perfino quando lo avrebbe richiesto il suo dovere di rettore dell’università. In presenza di fatti del genere è ozioso discutere se e quanto a lungo Kant abbia creduto alla "realtà" di Dio, se e a partire da che tempo Dio si sia ridotto per lui ad una semplice idea-come-se, ad una semplice norma della sua condotta. Sopra la fede in Dio di Kant, si stende l’ombra di un dissidio insanabile. Per quanto da un lato sia stato indubbiamente sincero il suo sforzo di dare alla fede in Dio un fondamento nuovo, dall’altro la deificazione della ragione umana, che egli accoglie dall’Illuminismo come dogma indiscusso, è diametralmente opposta a questo suo proposito. E in questo punti non poteva non fallire. Solo così si può anche comprendere la singolare azione che egli ha esercitati sulla storia. Effettivamente l’etica di Kant è molto più vicina a quella tradizionale fondata sulla fede in Dio che non la moderna etica dei valori; non appare impossibile ricondurre a Dio neppure il concetto di autonomia; ma i giovani spiriti, che s’impadronirono con avidità delle sue idee, intesero solo la parola d’ordine "autonomia e libertà", alla quale si adattava così bene l’eliminazione critica delle vecchie prove dell’esistenza di Dio. In questo senso Kant si è acquistato per delle generazioni un’autorità soffocante, alla quale riuscirono a sottrarsi solo pochi spiriti padroni di sé.

Come si vede, la micidiale influenza della teologia di Kant si estende ai nostri giorni e anzi si può tranquillamente affermare che la presente degenerazione del cristianesimo, specie in ambito cattolico, a partire dal Concilio Vaticano II, fino al relativismo, all’indifferentismo, al falso ecumenismo, al naturalismo, al neopaganesimo (vedi il Sinodo dell’Amazzonia) sono coerentemente sulla linea di sviluppo nel pensiero neokantiano. Karl Rahner, il maggiore protagonista della cosiddetta svolta antropologica in teologia, si è rifatto direttamente a Heidegger; sullo sfondo, però, si staglia l’orizzonte anti-metafisico tracciato da Kant; e la stessa cosa vale per il pensiero semi-eretico e semi-naturalistico di Teilhard de Chardin. È da Kant che viene l’idea che l’uomo, e più precisamente la sua coscienza morale, sia al centro di tutto, e non Dio; quanto a Dio, bisogna fare come se ci fosse, o magari come se non ci fosse, perché tanto è un Dio nascosto, che non ama intervenire, che guarda stando al di fuori, che non ha creato il modo e neppure agisce in esso, insomma un Dio lontano e perfettamente inutile. Il disprezzo, poi, di Kant, per gli atti della religione, la sua avversione nei confronti di qualsiasi forma di liturgia e perfino della preghiera in se stessa; il suo ritenere cosa vergognosa farsi vedere a pregare, o entrare in una chiesa (cosa che perfino un ateo intelligente non rifiuta di fare, vuoi per partecipare alle esequie degli amici e dunque come dovere sociale, sia per ragioni di ordine estetico e culturale, dalla visita alle opere d’arte che essa contiene, ai concerti di musica sacra che periodicamente vi si tengono) attestano un fanatismo, un bigottismo all’incontrario che ricordano quello di certi vecchi comunisti, che accompagnavano la moglie in chiesa, alla domenica, e si fermavano sulla porta, per poi venirla a prendere tre quarti d’ora dopo, e così far sapere a tutti che erano tolleranti, ma che, quanto a se stessi, erano inflessibili nel loro assoluto rifiuto della religione. Quanta superbia in tale atteggiamento del filosofo di Königsberg, quanto disprezzo per il popolo, che a quelle funzioni partecipa, e a quelle preghiere non si sottrae, anzi è incurante di come lo possano giudicare gli altri. Vi è in esso tutta la boria, tutto l’aristocraticismo, nel senso deleterio del termine, dei philosophes e dei pretesi savantes illuministi, che si pongo tre spanne più in alto dei loro rozzi e incolti contemporanei. Un filosofo che disprezza la preghiera e che detesta veder la gente pregare merita un solo appellativo: posseduto da uno spirito maligno. È lo stesso spirito maligno che spinge Bergoglio a salutare i fedeli col suo Buonasera, invece che di benedirli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; che lo induce a restar ritto in piedi davanti al Santissimo, perfino durante l’elevazione della Santa Messa (e le telecamere che riprendono la scena si spostano opportunamente sui fedeli, in quel momento, per non mostrare lui); che lo induce a staccare le mani di un bambino, congiunte in atto di preghiera, e che lo spinge a dire e ripetere continuante che Dio non è cattolico, che Gesù non era uno pulito, che la Madonna dubitava, che la Resurrezione è un fatto non provato, che non c’è una risposta al mistero del male, e così via: insomma lo stesso odio per la religione e lo stesso disprezzo per il "clericalismo". Per Bergoglio, infatti, il male più grande e il problema più urgente che travaglia la Chiesa è il clericalismo; non la perdita della fede, né il crollo delle vocazioni religiose, né la secolarizzazione della società, né la persecuzione di milioni e milioni di cristiani da parte dell’islam o del regime comunista cinese: no, è il clericalismo. E in cosa consiste, secondo lui, questo terribile flagello? Nel fatto che la gente prega, che i monaci e le monache contemplativi si isolano e pregano troppo; che non ci si preoccupa abbastanza dei migranti, del clima e dell’ambiente. E da dove vengono tali pregiudizi a Bergoglio e a tutti i suoi tirapiedi, e prima di loro alla generazione di Rahner, di Küng, di Schillebeeckx, di Congar; e prima ancora a quella di Teilhard, di De Lubac, e prima ancora dei Tyrrell e dei Loisy? Da Kant, ancora e sempre dal vecchio ostinato e altezzoso di Königsberg, che ritenere una vergogna intollerabile farsi vedere mentre prega Dio come una qualsiasi donnetta del popolo, o s’inginocchia davanti all’altare della Madonna e le offre dei fiori, o le accende un cero, come un qualsiasi pezzente analfabeta. Bisogna aver chiaro dove siano le radici del male. Le radici del male che ci attanaglia e sta portando alle ultime convulsioni la Chiesa cattolica partono dall’illuminismo: e non solo dalla sua filosofia, ma dalla sua mentalità, dall’atteggiamento mentale dei suoi esponenti. Ebbene è l’atteggiamento di Kant, poi di Hegel, poi di Comte, poi di Russell, poi Rahner, di Kasper, di Bergoglio, Paglia, Bianchi, Sosa, Martin, Sorondo. E viene dalla massoneria…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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