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Didone, o il dramma di essere un carattere

La figura mesta e dolente della regina Didone esercita un fascino potentissimo e i versi che Virgilio le ha dedicato, in realtà un intero canto dell’Eneide, sono probabilmente fra i più letti e i più giustamente celebrati della letteratura universale. Noi stessi abbiamo già pagato il nostro tributo di sconfinata ammirazione per singoli aspetti del dramma vissuto dall’infelice regina che sperava di aver trovato l’amore e invece si era messa su una strada, quella della passione irrefrenabile, che l’avrebbe condotta alle più amare disillusioni e infine alla morte per suicidio (vedi gli articoli: Perché Enea appare così piccolo davanti alla tragica grandezza di Didone? e Che cosa possiamo dire a colui (o a colei) che ci ha inflitto un male così grande?, pubblicati rispettivamente sul sito di Arianna Editrice il 06/03/12 e il o5/08/13; e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 06/02/18 e il 03/02/18). Ci resta da dire qualcosa sul dramma complessivo di Didone, cioè sul dramma della sua vita che traspare non solo dalla sua sfortunata vicenda sentimentale con l’eroe troiano, ma anche dalla considerazione della sua giovinezza e di tutta la sua vita precedente,

Hanno scritto Cesare Mussini e Francesco Marzari Chiesa a commento della versione di Cesare Vitali del poema virgiliano (in: Virgilio, Eneide, Torino, Edisco, 1981, pp. 149-150):

Mai, in alcuna età letteraria, ci fu poeta capace, non diciamo di superare, ma soltanto di eguagliare Virgilio nel concepire e nel realizzare una figura di donna che possa essere paragonata a Didone.

A lei è dedicato l’intero [sesto] canto; ella sola domina incontrastata la scena, personaggio unico ed immobile, nato soprattutto dal cuore del poeta.

Forse si dirà che la sua vicenda di donna trova un riscontro in figure che popolano le letterature di quasi tutti i paesi ed è perciò un dato comune della concezione tragica dell’amore. Infatti i momenti di sviluppo del sentimento appaiono ben confermati e chiariti nella loro logica elementare: l’insorgere violento e tumultuoso del sentimento, il dono completo e senza riserve di sé, l’abbandono, la disperazione, il suicidio.

Ma per Didone questi momenti finali della tragedia assumono un diverso e più sconvolgente significato, perché continuano e si ricollegano alla sua vicenda di vita precedente. Ella non sa che cosa sia la felicità d’amore. Fin dalla più tenera età, vissuta tra intrighi e congiure di palazzo, ha imparati a giudicare uomini e cose con distacco e diffidenza. Il padre le è morto troppo presto; il fratello le ha assassinato il marito Sicheo, l’unico che l’aveva amata e le aveva donato pochi giorni di serenità e di pace. Costretta a fuggire, ad andare raminga per il Mediterraneo, alla guida della sua gente profuga ed infelice, s’era battuta con orgoglio e con caparbietà per ridare a se stessa e agli altri una speranza ed una patria. C’era riuscita, e la sua regalità stava appunto in questa sua splendida impresa, degna di un condottiero antico o di un eroe. A questo punto ecco apparire sulla sua strada un personaggio, simile a lei, cioè bello di fama e di sventura; vedovo come lei, senza patria, perseguitato eppure non domo.

Quale più felice caso? Non era forse una fortunata coincidenza, voluta dal fato per finalmente concederle quella parte di felicità cui ogni creatura, dopo tanti mali e tante sventure, ha legittimamente diritto? Dopo anni di tensioni, di doveri scrupolosamente assolti, di responsabilità coraggiosamente assunte e portate a termine, Didone sente anche il privilegio di poter finalmente di poter finalmente abbandonarsi ad un suo sogno d’amore. Gli ultimi scrupoli sono cancellati dalle parole della sorella Anna. Non valgono a fermarla e a dissuaderla i chiari presagi di lutto che emergono dalla situazione stessa, il tormento interiore che la travaglia sin dal principio, le ansie ed i timori che la turbano di continuo. "Omnia vincit Amor!".

Le nozze, durante lo scatenarsi di un furioso temporale, sono il naturale coronamento della passione che le ha sconvolto i sensi e l’anima. Di qui il dramma che precipita rapidamente verso la conclusione. In un alternarsi continuo di illusioni e delusioni, di tormento e di estasi, di invettive e di preghiere, di orgogliose impennate e di umiliazioni volute, si giunge all’epilogo: vince ancora l’amore che vede come unica soluzione la morte. Il rogo che brucia e purifica le sue spoglie mortali, distrugge insieme le vesti e la spada dell’amato. La fine è degna di lei, splendida donna e superba regina che non può sopravvivere all’ingiuria sofferta dopo il dono di tutta se stessa. La sua ardente figura di personaggio tragico, insuperati ed insuperabile, offusca e sminuisce quella di Enea,. Se però guardiamo un po’ più addentro alla complessità della creazione virgiliana, ci accorgeremo subito che la grandezza tragica di Didone dipende in gran parte dal’atteggiamento di Enea, dal suo freddo ed incerto comportamento, da suo sacro egoismo d’uomo, dalla sua arida austerità di eroe-sacerdote destinato a ben atre imprese che non sian d’amore.

Virgilio ha ricercato ad arte, non solo per la logica che regge l’intero poema, un voluto contrasto di toni e di stato d’animo, per far sì che la figura di Didone campeggiasse in tutta a sua grandiosa tragicità per l’intero arco del’episodio.

Per questo ha costretto il suo eroe alla meschinità ed alla grettezza d’animo e di cuore; per questo gli ha posto sulle labbra frasi scipite, volgari e persino oltraggiose.

Didone così, ci appare la vittima più illustre non tanto di Enea, quanto di quella legge iniqua ed inesorabile che vuole i maggiori e più solenni eventi umani, nati dalle lagrime e dal sangue degli innocenti.

Sull’animo sensibile e generoso di Didone, così come sull’atteggiamento un po’ arido e meschino di Enea, moltissimo è stato detto; il merito principale di questa pagina, ci sembra consista nel non aver limitato lo sguardo alla situazione presente, al contrasto che insorge fra i due amanti allorché il fato sospinge imperiosamente il duce troiano a lasciare l’ospitale Cartagine per rimettersi in mare, ma sulla vita precedente dilla regina. In effetti, per poter comprendere le azioni e le motivazioni di una persona, quando i nodi della passione vengono al pettine e portano con sé delle reazioni molto forti, talvolta eccessive e comunque sproporzionate, che possono avere anche un esito drammatico, è giusto e doveroso prende in considerazione tutti gli elementi del la sua personalità e del suo temperamento, compresi quelli legati alla vita passata, cominciando dall’infanzia. La vita di Didone è stata, fin dai primi ani, una vita difficile, caratterizzata dall’insicurezza e dal dolore per il distacco drammatico dalle persone care; e inoltre dalla necessità, appresa alla dura scuola della vita, di non fidarsi mai del tutto di alcuno, perché molte persone hanno una doppia faccia e abbandonarsi con fiducia a qualcuno, rivelargli i propri piani e i propri segreti, le proprie aspirazioni e i propri sogni, può rivelarsi estremamente pericoloso. Precarietà e dolore hanno fatto di Didone una donna forte, volitiva, e soprattutto tenace e coraggiosa; l’hanno sostenuta nel compito virile di guidare il proprio popolo sulle vie perigliose dell’esilio, in cerca di una nuova patria: singolare simmetria con la vicenda di Enea e dei suoi compagni, quasi una storia allo specchio, nella quale ella, senza dubbio, può riconoscersi e vedere in lui un’anima affine, temprata dalle stesse difficoltà e dagli stessi affanni, e perciò tanto più fidata in quanto consapevole di ciò che si prova a doversi guardare da ciascuno e a portare sulle spalle il peso dei destini di tutti. Ma proprio questa è la fatale debolezza, o meglio la comprensibile imprudenza, della sventurata regina: laddove per la prima volta apre il suo cuore ai palpiti della passione, oltretutto lottando contro i suoi sensi di colpa perché aveva giurato di non amare mai più un altro uomo dopo la morte del marito, lì rimane scoperta ed esposta, e lì una sorte maligna finirà per colpirla con tutta la violenza di un’amara, inaspettata disillusione. Eppure Didone non diventa mai un personaggio patetico, neanche nel disincanto e nella sventura: è troppo nobile, troppo superiore al livello comune, per suscitare la pietà non disgiunta da un certo fastidio che si prova per una donna abbandonata dall’amante. Una storia, in fondo, vecchissima, che è già stata narrata decine, centinaia di volte; eppure Virgilio sa farla vivere di vita propria, sa conferirle un livello di pathos quale pochissimi altri autori hanno saputo eguagliare, e sa infondere in Didone una vitalità interiore — in Didone come personaggio poetico, intendiamo – che fa di lei una delle figure femminili più interessanti e giustamente celebri nella storia della poesia. Didone, questo è il punto che non si deve mai scordare, è una donna forte, ma profondamente buona e forse anche un po’ ingenua, almeno nell’ambito dei suoi sentimenti personali; e in fondo il suo dramma intimo, sino alla tragica decisione del suicidio, presa in piena lucidità e non già in un momento di sconforto, consiste proprio in questo. Una donna dall’animo debole si sarebbe piegata, per poi rialzarsi; ma una donna forte come lei non può sopravvivere a una così fiera elusione, a una umiliazione così profonda del proprio orgoglio personale e di sovrana. La sua fierezza, la sua linearità, la sua incapacità di sottomettersi a mezze misure o compromessi, la spingono fatalmente verso un esito estremo: in un certo senso, il suo destino di morte è già scritto nel libro della sua vita ancor prima del fatale incontro con Enea. Non si tratta solo di orgoglio ferito o di dignità offesa: è tutto il mondo che le crolla addosso quando scopre che l’uomo in cui aveva creduto di trovare il compagno affettuoso della sua vita si rivela un altro, completamente diverso, elusivo, sfuggente, già preso dalla fretta di ripartite il più presto possibile, quasi che quanto c’è stato fra loro non fosse stato che un breve gioco amoroso.

Eppure, ripetiamo, non è la debolezza che la spinge a cercare la morte, ma un amor proprio esasperato e, al tempo stesso, la scoperta della bruttezza del mondo: la scoperta, cioè, di aver sempre avuto ragione nel diffidare di tutto e di tutti, specialmente degli uomini, e che la sola volta in cui ha voluto aver piena fiducia in qualcuno, è rimasta atrocemente disingannata. In fondo, il dramma di Didone è il dramma di un carattere: ed è questo che la rende così efficace come personaggio e così difficile da comprendere, sul piano psicologico e umano, da parte del pubblico moderno. Innanzitutto, il fatto non di avere un carattere ma di essere un carattere, è in linea con gli ideali spirituali del mondo antico, e anche con quelli della successiva civiltà cristiana, ma non lo è con il contesto culturale della modernità, che fa della scissione e della frantumazione dell’io quasi un punto di cui compiacersi. Come altro spiegare il successo, sproporzionato sul piano dei meriti, di opere noiose, stucchevoli, astrusamente sperimentali, come l’Ulisse di Joyce, che di quella frantumazione hanno fatto il motore e il centro ideale? O di opere logorroiche, asfittiche, intrise di nichilismo, come Alla ricerca del tempo perduto di Proust? O di romanzi come Uno, nessuno e centomila di Pirandello, che ruotano sempre intorno alla dissoluzione dell’io e all’auto-distruzione della personalità? Didone, invece, non solo ha un io, ma è un io, e un io tutto d’un pezzo, come una pietra preziosa tagliata in un solo cristallo. Impossibile, per lei, immaginare soluzioni di ripiego, oppure seconde partenze. Didone è tutta nella sua generosità e nella sua fondamentale integrità morale: si dà tutta all’uomo che ama, oppure non si dà per nulla. L’offesa che patisce dal mutato atteggiamento di Enea nasce da qui. Lei si era messa in gioco sino in fondo, senza residui, anima e corpo; ora si sente usata, si sente strumentalizzata, e ciò la ferisce nell’intimo. Ma gli uomini e le donne moderni non sono così: non hanno la sua fierezza, né la sua integrità; sono, sovente, uomini e donne per tutte le stagioni. Cadono e si rialzano, senza mai imparare dai propri errori; ripetono le stesse dinamiche e seguitano a sbagliare, a cadere, e poi ricominciano tutto daccapo. Didone è fatta di un’altra pasta: una pasta che la cultura moderna, intrisa di femminismo e di edonismo, non può assolutamente capire. Il suo sacrificio, dal punto di vista della donna moderna, emancipata e "progredita", è inutile, se non addirittura stupido. Come personaggio, ella è tanto difficile da capire e da accettare quanto lo è Lucia nei Promessi sposi di Manzoni, anche se per ragioni diverse. Il lettore moderno non riesce a capire perché Lucia, dopo il voto fatto alla Madonna nel castello dell’Innominato, sia pronta a rinunciare al suo amore; allo stesso modo, non riesce a capire perché Didone, delusa e abbandonata, decida di non aver più altre strade da percorrere se non di trafiggersi con la spada dell’amato sulla pira funebre che si è fatta preparare. Gli uomini moderni sono diventati troppo piccoli per capire qualsiasi genere di sacrificio: figuriamoci il sacrificio di se stessi per ragioni di dignità e di coerenza personale (cfr. il nostro articolo, ispirato al racconto Taras Bul’ba di Nikolaj Gogol’, Siamo diventati troppo piccoli per capire la grandezza altrui, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/11/10 e poi su quello della Accademia Nuova Italia il 02/09/17). Cari critici moderni, davvero volete comprendere qualcosa del segreto di Didone, sulla quale spargete fiumi d’inchiostro? Allora provate a essere uomini, per una volta almeno, nella vostra vita.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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