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13 Febbraio 2020Se dovessimo dire qual è la più dolce, la più soave figura femminile della poesia greca antica, non penseremmo a una delle fanciulle cantate da Saffo, né ad alcun’altra donna celebrata dai poeti lirici, ma ci fermeremmo all’epica, e precisamente all’Odissea, ove, nel sesto canto, si narra l’approdo di Ulisse all’isola dei Feaci, e nel quale aleggia sovrana, anche quando non è materialmente presente, la bellissima figlia del re Alcinoo e della regina Arete, Nausíca. In effetti Nausíca non è veramente una donna: sia perché è poco più di una fanciulla, e si sta appena avvicinando all’età delle nozze — che in quel tempo e in quella società avvenivano subito dopo, o poco dopo, l’avvento della pubertà – sia soprattutto perché non è descritta realisticamente, ma in maniera fortemente idealizzata, sicché il poeta ha voluto celebrare in lei non la donna concreta, sposa o fidanzata che sia, bensì un’idea, quella della perfetta femminilità, colta quando è appena uscita dall’età dei giochi (ma non del tutto: Nausíca, sulla spiaggia, dopo aver lavato e asciugato le vesti, gioca a palla con le sue ancelle), in un’atmosfera rarefatta che è quasi da sogno. La sua figura leggiadra si inserisce in un contesto altrettanto idealizzato e, si direbbe, quasi onirico: tutto, nell’isola dei Feaci, dal paesaggio alle presenze umane, alla stessa aria luminosa che avvolge ogni cosa come in un’eterna primavera, sin dal primo istante in cui i lettori ne fanno la conoscenza – ma dovremmo dire piuttosto: il pubblico, perché i poemi omerici nascono oralmente e sono concepiti per la recitazione, non certo per la lettura – ha qualcosa di straordinario, di fiabesco (vedi il nostro articolo: Nei Feaci di Omero un ricordo di Creta minoica?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/08/17).
Se in Penelope Omero ha voluto rappresentare le virtù della sposa fedele e irreprensibile, così come, nell’Iliade, Andromaca rappresenta la sposa e madre esemplare, mentre Elena e Circe, nei due rispettivi poemi omerici, raffigurano la donna seduttrice che pur subisce a sua volta la potenza dell’amore, in Nausíca vediamo concentrato e sublimato tutto quel che di affascinante vi è in una vergine al suo primo sbocciare. Al tempo stesso, il poeta non si limita a mostrarla come una creatura incantevole e desiderabile, ma ne studia la psicologia dall’interno, nel suo primo svegliarsi a un indistinto sogno di felicità e d’amore; e lo fa con suprema delicatezza, quasi con stupore, come se temesse di poter dire una parola che possa rompere l’incantesimo, tanto esso è fragile e rarefatto. Nausíca sogna l’amore, come tutte le adolescenti; però un tale sogno si desta in una personalità che è non meno affascinante del suo sembiante fisico. Ella è generosa, capace di compassione, pronta a soccorrere il naufrago solo e infelice: è una bella persona, animata da elevati sentimenti e al tempo stesso pura e innocente come un giglio. La piccola, commovente bugia che dice a suo padre quando gli chiede il carro per recarsi al fiume a lavare le vesti, alludendo con sommo pudore e solo indirettamente al suo desiderio di prossime nozze, non incrina, anzi, conferma questa impressione, di trovarci in presenza di un’anima pura. Certo, ella ancora non ha mai dovuto confrontarsi con le difficoltà della vita; eppure sembra possedere una saggezza e una prudenza superiori alla sua età giovanile, come quando consiglia Ulisse di non seguirla alla reggia troppo da vicino, per non fornire esca a possibili maldicenze, ma di presentarsi un po’ più tardi, da solo, mentre lei predisporrà i suoi ad una favorevole accoglienza, o si terrà pronta a intervenire, per quanto possibile, in suo favore. E infatti questa piccola astuzia risolve la situazione e dissipa qualsiasi eventuale diffidenza da parte dei suoi genitori; tanto è vero che Alcinoo, quando già Ulisse gli si è rivolto come supplice per chiedere i mezzi di tornare a casa, da sua moglie, non esita a confessargli, senza alcuna necessità oltre all’impulso del cuore, che volentieri gli avrebbe dato in sposa sua figlia, se così fosse piaciuto agli dei: e questo dopo avergli parlato una sola volta, e dopo averlo visto per la prima volta, senza null’altro sapere di lui.
Scriveva Eugenio Treves tratteggiando questa soave e leggiadra figura femminile nel suo commento all’Odissea edito nel 1954 (da: E. Treves, R. Marchese e S. Paolucci, Il mondo epico, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1962, 1967, p. 322-324):
Il canto di Nausíca. Una delle più pure e più rasserenanti pagine della poesia umana. Tra un’alba e un tramonto tutto è ravvolto in una luce d’oro. Un sogno si fa realtà; la realtà ha movenze e colori di sogno. Di un sogno che continua. Favola nel favoloso poema. (…)
Perché, mentre il naufrago re dormiva nella boscaglia lungo il mare, una principessa giovinetta nella sua reggia d’oro, nella sua chiusa stanza, dormiva e sognava: sognava che una sua cara amica era entrata lì come un soffio di vento e, tenendosele dinanzi, sospesa a mezz’aria, la ammoniva con gentile malizia.
– O Nausíca, – le diceva — tu dormi invece di pensare a trarre dalle arche le tue belle vesti e a rinfrescarle. Il tempo delle tue nozze — non sai? — si avvicina.
Così la incitava la dolce amica, e poi spariva. E la principessa giovinetta si svegliava e — fattole il re suo padre aggiogare al carro le mule e apprestatile regina madre cibi e bevande — veniva con le sue ancelle al fiume, là, presso dove il re naufrago dormiva e sognava. Il mattino era tutto una fresca luce d’oro. Luminose in quella luce mattinale, la reginetta e le sue ancelle lavavamo i panni, li stendevano sulla polita ghiaia perché asciugassero e imbiancassero al sole: quindi esse stesse si bagnavano e sedevamo a sfamarsi; e poi cominciavamo a giocare alla pala e a cantare. Si gettavano l’una all’altra la palla e cantavano: e intanto il sole smorzava l’oro vivo del meriggio in un pro più diffuso e più temperato, accennando così ch’era l’ora di raccoglier ei panni ormai candidi e asciutti, di ripiegarli, di riporli sul carro e di ritornare alla città e alla casa. E la reginetta lanciava ancora una volta la pala a una delle sue ridenti ancelle; ma la palla deviava (come volle una invisibile e pur presente Dea) e andava a cadere nelle acque del fiume. Allora tutte le fanciulle misero un grido.
E a quel grido di fanciulle il re naufrago, che dormiva e sognava felice la sua casa e la sua sposa giovane e bella che lo accoglieva cin un grido di felicità, si risvegliò. (…)
Nausíca. Bella, fresca, umana, limpida, spontanea, casta, serena, ella è una delle più luminose figure di fanciulla, forse la più luminosa che sia dato incontrare lungo le vie della poesia. E intorno a lei tutto è luminoso: la reggia, laboriosa già nel primo mattino, la famiglia regale, semplice e affettuosamente concorde, il carro veloce, le lucide briglie, il mare che si spiana azzurro, il fiume ch corre argenteo tra le rive molli di erba, la ghiaia polita, i lini stesi nel sole, il giuoco e il canto delle fanciulle. Ombra di destino non aduggia. Traversato il mare, vinta la tempesta, superati i frangenti, toccata la spiaggia dove le dolci acque del fiume si confondono spumeggiando con le salse acque marine, siamo approdati all’isola della felicità. Ivi il re misura le savie leggi ai sudditi; la regina, tra le ancelle, fila purpurea lana; i principi attendono alle opere dei campi e guardano con orgogliosa compiacenza la sorella, giovanissimo e leggiadro virgulto del loro ceppo, armoniosamente danzare; il popolo torce le gomene, appresta le vele rileviga i remi, riatta le b elle navi sulle quali varca il mare a pacifiche imprese di commercio o riconduce alla loro terra i pellegrini dispersi; la principessa e le ancelle si recano al fiume, lavano i panni, li stendono al sole, merendano sull’erba, giocano alla palla, cantano; il naufrago deterge il corpo e l’anima, e spera; la reginetta ved apparirle dinanzi lo sposo che il sogno ha annunciato, e sorride pensando al giorno delle nozze imminenti; e i campi sono floridi, e gli orti fruttificano insieme i frutti di tutte le stagioni, e cani d’oro stanno a guardia della reggia d’oro; e tutto, uomini e cose, ravvolge la luce di un sole che sembra non conoscere tramonto. Isola della felicità.
Andando, come la leggenda vuole, mendico e cieco lungo le vie del mondo, il poeta che sapeva le tragiche vicende del destino e degli uomini, le tempeste del mare e dei cuori,la ferocia delle battaglie, lo spasimo delle agonie, le arti maliose delle incantatrici, la crudeltà dei mostri, le superbie e i tradimenti, le avidità e le malizie, l’effimere gioie e la profonda infelicità dei mortali, ha immaginato, per sé e per noi consolatrice,quest’isola della felicità, remota da tutti gli uomini, eppure non così remota che tutti gli uomini non possano scoprirla profilata al loro orizzonte e raggiungerla navigando sulla nave del sogno, cui gonfia le candide vele il soffio della poesia.
Nuvola nella luce e nella brezza del tramonto è la fantasia del poeta: forme e colori trapassano aerei e volubili dal quotidiano al magico, dal sogno alle realtà. La bella storia, che Omero sta raccontando, del re naufrago il quale approda a un’isola sconosciuta e subito desta nel cuore di una principessa giovinetta la pietà e l’amore, ora attinge le vette del favoloso.
Accade talvolta ai critici letterari di diventare poeti anch’essi, quando devono illustrare i versi di un grande poeta: e questo è accaduto anche a Eugenio Treves, che ha scritto una pagina di autentica poesia nel presentarci la giovane Nausíca e l’isola incantata dei Feaci, sottolineando giustamente la dimensione trasognata e quasi magica che pervade l’intero episodio. E poco importa che la povera fanciulla sia vittima sostanzialmente di un inganno da pare di Pallade Atena, che la illude essere lui, Ulisse, il marito sognato la notte prima, mentre è destinata solamente a essere pietoso strumento di soccorso per il naufrago infelice. Poi la vedremo per un attimo traversare la scena e augurare ad Ulisse un felice ritorno a casa, dalla sua famiglia; e chiedergli di ricordarsi di lei, qualche volta. Patetico addio, venato di malinconia, dopo i sogni esaltanti del primo incontro, là sulla spiaggia e in riva al fiume, quando lui le era apparso quasi come un dio e lei, a lui, si era mostrata pari a una dea:
A te m’inginocchio, regina. Una donna o una dea tu sei / mortale? Se dea, tu di quelle sei una / che il libero cielo posseggono, te / ad Artemide, alla vergine figlia di Zeus / immenso assomigli: nel volto, nell’alta figura. / Se tu dei mortali sei una che abita in terra, / tre volte beati tuo padre e tua madre, / tre volte beati i fratelli: ché l’animo loro / s’accende certo di gioia per te quando vedono / una tale germoglio entrare alla danza. / Ma quello beato nel cuore sarà sopra tutti / che te conquistata con doni conduca in sua casa. / Io veduto non ho coi miei occhi / creatura terrena sì bella, né uomo né donna. / A Delo io vidi una volta, simile a te, / un giovane tronco di palma elevarsi / presso l’ara di Apollo: anche là sono giunto / e c’era con me molta gente in quel viaggio / da cui nacque un destino per me doloroso. / Anche allora un lungo stupore mi tenne / mitrando quel getto di palma agile tanto / che sorgere un tale virgulto da terra / non avevo mai visto. E adesso / così come allora stupisco e tremando ti ammiro, / donna, e ho paura a toccarti i ginocchi, benché / duramente affanno mi stringa… (Versione di Enzio Cetrangolo.)
Per quale mai donna mortale sono stati composti dei versi più belli, tranne che nel Cantico dei Cantici, che però appartiene a tutt’altro ambito culturale e spirituale? Certo, si potrebbe osservare che Ulisse ha tutto l’interesse a lusingare la giovane principessa con lodi iperboliche, per ingraziarsela e farsene un’alleata in vista del proprio ritorno a Itaca; eppure da questi versi traspare un’ammirazione che è senza dubbio sincera. Crediamo se ne sia ricordato Dante, specialmente delle parole: stupisco e tremando ti ammiro, donna, nella Vita Nuova, quando ha scritto il meraviglioso sonetto: Tanto gentile e tant’onesta pare, dedicato a Beatrice, e specialmente i versi: ch’ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare. Ora, proprio dal confronto con il sonetto dantesco si ricava la risposta alla possibile obiezione: non sarebbe stato preferibile, appunto ai fini della poesia, se Omero (o chi per lui) si fosse ispirato a una donna reale, invece di tratteggiare i contorni di una creatura così fortemente idealizzata? Risposta che non può essere che negativa. Pur se così tanto idealizzata, da somigliare a una creatura celeste che abbia preso apparenze umane (ma solo nel momento in cui si mostra ad Ulisse, bruscamente risvegliato dai canti delle ancelle e dal loro lieto vociare nel gioco della palla; poi, un poco alla volta, si rivelerà in tutta la sua dimensione umana), Nausíca non perde nulla del suo incanto verginale e quindi della sua intima, profonda umanità. In lei non si notano quella vaghezza, quella indeterminatezza del tratto che sono tipiche di un personaggio privo di sostanza concreta: e proprio questo ci colpisce, il fatto che sia per così dire una creatura bifronte, che a tratti si presenta come una dea, a tratti rivela pienamente la sua terrestre femminilità. E non è questo un elemento tipico della natura femminile in se stessa? Non vediamo forse rappresentata, in Nausíca, una soave costante dell’eterno femminino, più viva e reale che mai?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels