Alfred Sisley o la scoperta del cielo
10 Febbraio 2020Dove si annidava il marcio? Nelle facoltà teologiche
11 Febbraio 2020Nella sua Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Milano, Bompiani, 2013, pp. 383-385), Umberto Eco, fra le altre cose, scrive:
Tra gli anni venti e gli anni trenta Nicholas Roerich, un famoso esploratore russo, aderente a molte credenze occultistiche e modesto pittore, aveva visitato varie regioni asiatiche in cerca di Shambhala, e aveva pubblicato uno Shambhala (1928). Egli asseriva di essere in possesso di una pietra magica, la Pietra Chintamani, che gli proveniva dalla stella Sirio. Per lui Shambhala era il Luogo Santo, e lo aveva associato con Agarttha, a cui in qualche modo era unita da canali sotterranei.
Purtroppo le testimonianze che Roerich ci ha lasciato delle sue esplorazioni sono quasi esclusivamente i suoi bruttissimi quadri.
Ma torniamo ad Agarttha. Alquanto in ritardo su Sain-Yves, Ferdinand Ossendowski, un avventuriero polacco che aveva viaggiato attraverso l’Asia Centrale, pubblicava un libro destinato a grande successo, "Bestie, uomini e dei" (1923), dove diceva di aver appreso dai mongoli che Agarthi, come lui la chiamava, era da collocare sotto la Mongolia, ma il regno si estendeva a tutti i passaggi sotterranei esistenti al mondo, contava milioni di sudditi ed era governati dal Re del Mondo.
Se si legge Ossendowski si trovano molte pagine che paiono riprese da Saint-Yves, il che consentirebbe di parlare di plagio, Ma i fedeli del mito, tra cui René Guénon. Uno dei più noto pensatori contemporanei della tradizione, ritengono che Ossendowski fosse sincero quando asseriva di non aver mai letto Saint-Yves, e la prova della sua sincerità sarebbe che la prima edizione de "Missione dell’India(1886) sarebbe stata distrutta e ne erano sopravvissute solo due copie. Guénon non considera che l’opera era stata ripubblicata postuma da Dorbon nel 1910, e quindi Ossendowski avrebbe potuto benissimo conoscerla.
Ma Guénon era indotto a considerare Ossendowski come un0autorità indiscutibile (mentre riteneva Jacolliot autore di scarsa attendibilità — al contrario di quanto aveva fatto Madame Blavatsky), perché parlava del Re del Mondo, che Guénon avrebbe reso ancor più famoso col suo "Il re del mondo" (1925). A Guénon comunque non interessava tanto che Agarttha esistesse fisicamente o fosse solo un simbolo (come avviene per la Shambhala buddista) perché si rifaceva a miti intemporali [sic] per cui regalità e sacerdozio dovevano essere strettamente uniti (e ovviamente una delle tragedie del nostro tempo, l’oscuro Kali Yuga, era l’avere spezzato questa unità). Per Guénon il titolo di Re del Mondo "inteso nella sua accezione più elevata" […] viene attribuito propriamente a Manu, il Legislatore primordiale e universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli antichi". E l’idea di una unione di regalità e sacerdozio era stata anche tipica del mito del Prete Gianni.
Se per la tradizione cristiana il vero Melchisedec era Gesù, che cosa c’entri Gesù con Agarttha è certo difficile da dimostrare, ma tutto il libretto di Guénon non fa altro che associare liberamente e contro ogni logica elementi dei miti e religioni di tutti i tempi, come si conviene appunto all’assertore di una tradizione primordiale che precederebbe anche le religioni rivelate.
Qualcuno ha osservato che appare difficile associare il mito dei sotterranei e delle caverne, come fa Guénon, che è tradizionalmente legato all’immagine degli inferi, a una realtà soprannaturale positiva, che dovrebbe essere di natura celeste. Ma abbiamo visto come il fascino delle cavità della terra sia più potente di ogni logica e così, sepolta nelle viscere del globo, ancor oggi Agarttha sopravvive, almeno nella mente allucinata di chi ci vuol credere.
Definire bruttissimi i quadri di Nicholas Roerich, e lui stesso un mediocre pittore, è assolutamente tipico di Umberto Eco: non solo dei suoi gusti in fatto di estetica, ma del suo approccio verso l’altro in generale, caratterizzato da un narcisismo così esasperato da spingerlo a denigrare e sminuire chiunque possa avere per sé anche solo un piccolissimo raggio di quella luce che ritiene spettare, invece, a lui solo; e, nello stesso tempo, quell’aria sprezzante, che gli deriva dalla sua mentalità scientista di semiologo quasi scienziato, quale evidentemente credeva di essere, nei confronti di tutto ciò che scienza non è nel senso più rigoroso della mentalità accademica occidentale. Un po’come gli psicoanalisti: sono i rappresentanti di una pseudo-scienza che, però, o magari appunto per questo, si ritengono i più titolati per fare le pulci, spietatamente, inesorabilmente, a qualsiasi tentativo di conoscenza che non risponda ai requisiti dello scientismo più stretto e meccanicista. Difficile non pensare che sia il classico complesso del parvenu, del dilettante presuntuoso, nei confronti del mondo degli arrivati e dei salotti buoni della cultura: pur di farsi accettare, sia pure entrando dalla porta di servizio, si autonominano volonterosi poliziotti o cani da guardia del politicamente corretto, incaricandosi di snidare tutti gli abusivi, i clandestini, i senza documenti d’identità (e patenti di nobiltà). In questo senso bisogna leggere anche la convinta adesione di Eco al C.I.C.A.P., la moderna inquisizione scientista; con la particolarità che mentre l’Inquisizione del medioevo svolgeva, sia pure in modo aberrante, una funzione socialmente utile, quella di preservare la stabilità sociale combattendo gli elementi destabilizzanti, il C.IC.A.P. non svolge alcuna funzione utile, si accanisce contro un avversario che è già emarginato e al tempo stesso tarpa le ali a qualunque tentativo di esperienza o di conoscenza che segua strade diverse da quelle già ufficialmente codificate. Se fosse per loro, la scienza, quella vera, resterebbe ferma e imbalsamata per secoli; a parole sono tolleranti verso tutti, come ogni buon illuminista deve fare, da Voltaire in poi; ma nei fatti sono di un’intolleranza feroce, che rasenta il fanatismo più oscurantista. Con la scusa di proteggere la società dalle frodi e dalle superstizioni (ma chi li ha nominati? chi li ha chiamati? chi ha dato loro questo incarico? la gente non è capace di riconoscere e giudicare da sola? c’era bisogno di una istituzione apposita?), sono i protagonisti di una critica senza tregua e senza limiti contro qualsiasi approccio al reale che non rientri nei parametri del politicamente corretto. Odiano in egual misura i ciarlatani di strada, i chiromanti da quattro soldi e i veri mistici, i santi, tutti quelli che hanno raggiunto un livello superiore di coscienza, senza passare per le forche caudine del Pensiero Unico. Si dicono difensori della libertà di pensiero, ma partono da un pregiudizio inguaribile, anzi da una vera e propria ossessione contro le forme del pensare, del conoscere e dell’esperire che siano difformi dal metodo scientifico moderno: quantitativo, meccanicista, riduzionista, e debitamente certificato, con i timbri e le firme tutti al loro posto, da qualche autorità accademica internazionalmente riconosciuta.
Tuttavia, poiché è giusto somministrare al prossimo, quando è borioso, la stessa minestra che rifila volentieri agli altri, allora diremo che se i quadri di Roerich a lui paiono bruttissimi, e non si dà nemmeno la pena di spiegare perché, i libri di Eco a noi paiono la quintessenza della letteratura inutile, pretenziosa e melensa. In pratica, è come se Eco avesse scritto un unico libro, sempre lo stesso, senza la minima variante, se non formale ed esteriore: come un commerciante che venda a tutti sempre e solo lo stesso prodotto, incartandolo e infiocchettandolo ogni volta in maniera diversa, con carta di differenti colori e con nastri di differente confezione. Nessun originalità, nessuna sorpresa, se non restando entro quel mezzo metro di spazio che è consentito a chi sia legato a una catena di tale lunghezza. E una sola idea centrale: esiste una distonia fra realtà e apparenze (bella scoperta davvero). Che si tratti di un naufragio su un’isola misteriosa, come ne L’isola del giorno prima (dove le varianti sul tema sono soprattutto a livello linguistico, con la piatta, noiosa, soffocante reiterazione dello stile barocco seicentesco); o di un gruppo di cospiratori farneticanti e dediti all’occultismo, come ne Il pendolo di Foucault; oppure di un improbabile monaco medievale, filosofo e investigatore in perfetto stile Sherlock Holmes, come ne Il nome della Rosa; o di una parodia del genere avventuroso ed esotico in chiave mista tra il romanzo d’appendice di fine Ottocento e il fumetto della prima metà del Novecento, come La misteriosa fiamma della regina Loana; o ancora dell’ennesima rivisitazione del mito del Golem, dell’alchimia tenebrosa e del sapere cabalistico ed esoterico nella vecchia Europa centrale, come ne Il cimitero di Praga, gira e rigira gli ingredienti sono sempre gli stessi, mutando ovviamente la forma e il colore, e anche l’intreccio è sempre lo stesso. In effetti Eco, da semiologo divorato dalla propria passione, non è capace di altro che di demitizzare, smascherare, denudare il sapere altrui, vero o falso che sia, con un gusto della distruzione, con un compiacimento nichilista che non si troverebbero in uno scrittore maturo, equilibrato, che ha raggiunto una propria visione del mondo e non si è limitato a criticare, ridicolizzare e sbeffeggiare quella degli altri. E non solo: alla furia iconoclasta e vendicatrice del preteso filosofo Umberto Eco non bastava accanirsi contro i pensatori che non incontravano la sua approvazione; se la prendeva perfino coi conduttori televisivi di giochi a quiz e altri spettacoli, come il povero Mike Bongiorno, colpevole, ai suoi occhi di marxista salottiero, spocchioso e con la puzza sotto al naso, di essere troppo nazional-popolare, cioè, in parole povere, di piacere alle famiglie, alle mamme e ai pensionati. A vantaggio di Eco, però, stava il fatto che per la cultura affermatasi dopo i primi decenni del Novecento, imbevuta di psicanalisi freudiana, fare della letteratura sana, con dei contenuti positivi, è divenuto quasi impossibile e squalifica in partenza un autore, ponendolo nel limbo degli inguaribili ottimisti che ignorano la profondità dei problemi moderni, dei fideisti, degli spiritualisti fuori tempo massimo, e soprattutto, orrore degli orrori, dei moralisti, parola con cui la cultura moderna indica chiunque abbia a cuore la morale, ossia la distinzione fra il bene e il male (cfr. il nostro articolo: Fenomenologia di Umberto Eco, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 13/07/18). Ma, obietterà qualcuno, anche Nicholas Roerich, in fondo, ha dipinto sempre lo stesso quadro. Vero: e infatti la caratteristica della vera arte non è quella di mutare il pacchetto e i fiocchetti, ma di saper guardare al contenuto di verità della vita da angolazioni differenti. Roerich questo l’ha saputo fare; Eco no. Eco si è limitato a friggere e rifriggere all’infinto la stessa pietanza; Roerich ha raffigurato all’infinto le stese montagne, ma con un incanto sempre nuovo, con un’emozione capace ogni volta di stupire. Montagne simili fra loro, aguzze, ardite, maestose, solitarie, coperte di ghiaccio e neve, splendenti come pietre preziose; montagne colte all’alba, al meriggio, al tramonto, al chiaro di luna; montagne che pur essendo sempre le stesse, alludono con sempre nuova originalità allo stesso mistero il mistero della distanza, dell’altrove, dell’inconoscibile che seduce, attira e tuttavia rimane sempre un passo oltre la nostra portata. Cosi è Shambala: forse esiste, forse no, ma è un mito reale, nel senso che muove passioni reali e alimenta un reale desiderio di conoscenza: il suo valore non risiede nel fatto che sia raggiungibile, ma che eserciti una tensione virtuosa in quanti ne sono toccati. Proprio come il mito del Sacro Graal, che è indispensabile per capire la vera anima del Medioevo, il suo valore non è nel fatto che qualche cavaliere lo possa conquistare, ma nel fatto che ogni cavaliere si sente spronato a cercarlo e con ciò stesso a mettere in campo tutto il valore, il coraggio e la fede dei quali è capace (vedi anche il nostro articolo: Sulle orme di Nicholas Roerich, alla ricerca di Shambala, pubblicato sul sito del’Accademia Nuova Italia il 22/11/17).
Quanto a Guénon, non tocca a noi farne la difesa d’ufficio; del resto, qualcosa abbiamo già detto di lui (cfr. l’articolo: Infinito e possibilità nell’ontologia di René Guénon, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/12/17). Aggiungeremo solo che, anche se non si condivide il suo pensiero, o una parte di esso, difficilmente gli si possono negare serietà, competenza e profondità di riflessione; per cui presentarlo come uno sprovveduto turista nei regni dell’esoterismo, facile preda di qualsiasi credenza, purché intrigante e romanzesca, ci sembra una mancanza di verità e di onestà intellettuale, oltre che segno di una certa — vorremmo dire – povertà e aridità umana. Infine va detto che Ferdinand Ossendowski non è un qualsiasi "avventuriero polacco", ma una poliedrica e interessante figura di scienziato, esploratore e scrittore, autore di numerose opere di vario genere (ricordiamo, in particolare, L’uomo e il mistero in Asia) e non solo del famosissimo Bestie, uomini e dei; e che lo stesso Guénon, come altri studiosi, ritenne di doverlo prendere con una certa serietà. Quanto a Eco, massone rosacrociano, si pone inevitabilmente la domanda: se riteneva l’esoterismo un cumulo di credenze sciocche e assurde, perché se ne è interessato per tutta la vita e in quasi tutte la sue opere? Forse lui, come altri intellettuali, scrittori, registi (Stanley Kubrick) alludeva con poca serietà a cose che conosceva invece assai bene, ma delle quali agl’iniziati è proibito parlare in maniera più aperta?
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI