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1919: come la massoneria repubblicanizzò l’Europa

Abbiamo a suo tempo sostenuto che la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, che la vulgata corrente presenta come l’inevitabile effetto del principio di autodeterminazione dei popoli, dunque come un processo storico perfettamente logico e naturale, fu voluta in realtà dalla massoneria internazionale, specialmente da quella francese, che fece pesare la sua volontà sulla conferenza di pace di Parigi del 1919, allo scopo di eliminare l’ultima grande potenza cattolica ancora esistente all’alba del XX secolo (cfr. il nostro articolo: Dietro la fine dell’Austria-Ungheria e le premesse di un’altra guerra mondiale il cattivo genio di T. Masaryk, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/02/09 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia, col titolo Dietro la fine dell’Austria-Ungheria il cattivo genio di T. Masaryk, il 01/11/17, che mandò fuori dai gangheri un noto studioso il quale ci scrisse definendo risibili le nostre deduzioni). Ebbene, studiando e ristudiando quegli eventi e approfondendo quella linea interpretativa, siamo giunti ad una ipotesi di lavoro e a delle conclusioni provvisorie, ancora più audaci: l’obiettivo della massoneria mondiale non in era solo quello di eliminare l’Austria-Ungheria, smembrandola, ma d’imporre la forma di governo repubblicana a tutte le maggiori potenze, distruggendo tutti e quattro gli imperi esistenti: l’austriaco, il tedesco, il russo e l’ottomano, perché solo così essa avrebbe potuto estendere in misura apprezzabile i suoi tentacoli anche là dove non era riuscita a penetrare o dove era penetrata solo in misura marginale. E ciò essenzialmente per eliminare le ultime resistenze all’espansione illimitata del potere della grande finanza internazionale, potere che già allora costituiva un tutt’uno con la massoneria internazionale, della quale esso era, per così dire, come lo è tutt’oggi, il braccio operativo, assai più di quanto non lo siano i singoli governi, che pure essa ormai controlla al 90%. Solo in regime repubblicano, infatti, sono possibili delle speculazioni finanziarie a danno di popoli e Stati interi, poiché solo in esso e grazie ad esso, con l’opera fiancheggiatrice dei parlamenti, è possibile ottenere che le istituzioni preposte alla difesa del risparmio, del lavoro e della sana produzione, in condizioni di libero mercato, vengano neutralizzate e messe in condizioni di non potersi opporre alle manovre monopolistiche del grande capitale finanziario.

La massoneria è, ed è sempre stata, particolarmente forte in Gran Bretagna, in Francia e negli Stati Uniti d’America; Londra, Parigi e New York sono le sedi delle logge più potenti e ambiziose, le più aggressive, proprio perché poggiano, o sarebbe più esatto dire che parassitano, un retroterra produttivo e tecnologica assai avanzato, che offre loro maggiori possibilità di ulteriore espansione. A ben guardare, sono anche le tre centrali operative dalle quali la massoneria ha organizzato e diretto le tre grandi rivoluzioni liberali della modernità: quella inglese del 1688, che abbatté la dinastia cattolica degli Stuart e insediò la monarchia parlamentare protestante; quella americana del 1776, che segnò l’indipendenza politica degli Stati Uniti e l’avvento della forma di governo repubblicana moderna (la più antica repubblica d’Europa, quella di Venezia, che esisteva da oltre 1.000 anni e si reggeva su una diversa struttura socio-economica, non a caso venne assassinata per volontà delle alte logge europee al Congresso di Vienna): in pratica lo scontro di una massoneria contro un’altra massoneria, con Washington, Franklin e Jefferson che erano tutti massoni di alto grado; e infine quella francese del 1789, che abbatté un’altra dinastia cattolica, quella dei Borbone, e aprì la strada alle repubbliche in Europa. È abbastanza noto, sebbene non al grande pubblico, anche il ruolo svolto dalla massoneria nel processo di unificazione italiano, pomposamente e un po’ ingenuamente chiamato Risorgimento ma diretto, in effetti, dalla longa manus della massoneria inglese, e in parte francese, in funzione antiaustriaca, antiborbonica e anticattolica e con il segreto intento di abbattere, o almeno di ridimensionare drasticamente, l’ascendente morale del papato o almeno di distruggerne del tutto l’influenza politica. Per realizzare tali obiettivi vennero individuati, quali collaboratori o alleati, alcuni ebrei anticattolici come il sindaco di Roma ai primi de ‘900, Ernesto Nathan, altro massone di alto grado e feroce anticlericale; mentre per l’obiettivo più ambizioso di introdurre, se possibile, il protestantesimo nella Penisola, soppiantando il cattolicesimo, si pensò di fare leva inizialmente sui valdesi del Piemonte, i quali, pur essendo un gruppo decisamente piccolo, riuscirono, grazie a tali alte protezioni, a esercitare un ascendente politico e culturale sproporzionato, che dura ancora oggi (cfr., ad esempio, i nostri articoli: Quanta faziosità nella ricostruzione storica di Giorgio Spini della Spagna cattolica, pubblicato sul dito di Arianna Editrice il 18/1011 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 30/11/17; e Quegli storici politicamente corretti che ce la raccontano come vogliono, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 30/11/17).

Dunque, ai primi del 1900 esisteva ancora una grande potenza cattolica, l’Austria-Ungheria; ma, oltre ad essa, esistevano altri tre imperi di antica data, la Germania, la Russia e la Turchia, che incarnavano concretamente, per così dire, l’idea della regalità, e che quindi costituivano un ostacolo ai progetti mondialisti delle massonerie britannica, francese statunitense, interessate alla definitiva globalizzazione dei mercati e alla ridefinizione di un uovo Ordine Mondiale, fondato sul dogma della repubblica democratica come unica legittima forma di governo. Era perciò necessaria una guerra, una lunga guerra moderna, con tanto di blocco marittimo e un largo impiego di armi altamente distruttive, come la mitragliatrice, che avrebbe causato grandi distruzioni e dispendio di vite umane (uno schema che si era visto, per la prima volta, con la Guerra di Secessione americana del 1861-65, durata più di quattro anni e costata oltre un milione di morti). Solo per mezzo di essa si sarebbero potuti realizzare gli obiettivi prefissati, specie nei confronti della Germania, la quale costituiva l’esempio "pericoloso" di una forma di governo monarchica e autoritaria che aveva però realizzato una efficace e dinamica forma di collaborazione fra borghesia e aristocrazia, creato un eccellente stato sociale, e si era resa protagonista di una spettacolare ascesa economica e industriale. Ma per fare ciò, era necessaria una guerra lunga, che facesse molti morti e alimentasse molto odio: l’odio sarebbe stato un fattore decisivo per trasformarla da guerra "classica" a guerra ideologica, un nuovo tipo di guerra, basato sull’odio inestinguibile verso il nemico, visto come un male assoluto da debellare completamente: un aspetto, questo, che sarebbe stato studiato con grande lucidità da un filosofo e giurista del campo dei vinti, Carl Schimitt. I massoni repubblicani europei e americani, ma soprattutto quelli francesi, erano infatti giunti alla conclusione che una convivenza pacifica con gli antichi imperi era impossibile e che bisognava affrettare una resa dei conti, prima che la Germania diventasse troppo forte, non solo sul piano industriale e finanziario, ma anche su quello militare e specialmente navale. Non era una questione di case regnanti: la dinastia inglese degli Hannover aveva saputo trovare un accordo con le forze massoniche e repubblicane fin dalla gloroious revolution del 1688-89, e anche quella italiana dei Savoia, ingranditasi a dismisura grazie alla protezione della massoneria inglese e francese, era giunta a un discreto compromesso con le logge, nel quadro complessivo delle quali si era felicemente inserita. Ma le dinastie degli Asburgo, cattolica, degli Hohenzollern, luterana, dei Romanov, ortodossa, più quella islamica degli Ottomani, andavano distrutte, perché non avevano voluto saperne di giungere ad alcun accordo, e rifiutavano di consegnare i loro Stati e i loro popoli alla mercé della penetrazione massonica e al grande capitale finanziario e speculativo.

Scrive il politologo François Fejtö (1909-2008, ebreo ungherese naturalizzato francese) nel suo importante saggio, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo aueustro-ungarico; titolo originale: Requiem pour un empire défunt. Histoire de la destriction de l’Autriche-Hongrie, Lieu Commun, 1988; traduzione dal francese di Olga Visentin, Milano, Mondadori, 1990l , pp. 319-321):

I repubblicani, tra il 1900 e il 1914, rappresentavano il primo partito politico della Francia: duecentocinquanta eletti su cinquecento. A quell’epoca, essere repubblicano, radical-socialista, nella maggiorana dei casi non significava soltanto fare parte di un gruppo parlamentare, ma essere un combattente sempre al servizio di una visione del mondo, di un clericalismo a rovescio, in cui costantemente vi era in sottofondo il ricordo dell’esplosione del 1793. "La scuola repubblicana — dice Touchard — questa scuola che ha venti anni nel 1900, è stata un possente fattore d’integrazione sociale e di unificazione ideologica". Il repubblicano era un patriota, le cui idee trascendevano i limiti della patria per abbracciare l’universo. Di qui, un fanatismo che corrispondeva a quello di monsignor Delamare che scriveva nel 1903: "Il massone, ecco il vero nemico", ma che per partito preso attestava solennemente la propria tolleranza, rivendicata dalla sinistra come uno dei valori ereditati dal secolo dei Lumi. Guerra ideologica, guerra fanatica… Alain Besançon ha certamente ragione quando afferma che "le democrazie, una volta che le si è fatte entrare in guerra, sono feroci, perché esse pensano di avere assolutamente ragione e che i propri avversari hanno assolutamente torto".

Furono i repubblicani a vincere le elezioni del 1914. Al momento in cui scoppiò la prima guerra mondiale, "essi avevano già conquistato le campagne, le classi medie, avevano battuto la grande borghesia che aveva perduto il suo monopolio politico pour mantenendo ancora delle forti posizioni" (il grande borghese Poincaré aveva detto, in privato, che decapitando Luigi XVI i francesi avevano decapitato il proprio padre).

Ma tale era la forza della pressione repubblicana che persino i rappresentanti della grande borghesia prendevamo le difese de regime contro la "pressione clericale". A testimonianza di ciò, si prenda la posizione di Poincaré nella crisi dell’affare Dreyfus o la sua difesa di Waldeck-Rousseau. Alla vigilia della guerra, i repubblicani controllavamo la stampa, si battevano per una scuola laica e gratuita. "Essi sono gli eredi della Rivoluzione, e vogliono spingere il proprio vantaggio fino in fondo: REPUBBLICANIZZARE L’EUROPA". Eccoci giunti al cuore del nostro problema.

Perché è precisante qui che tocchiamo L’IDEA NUOVA: come repubblicanizzare l’Europa? I radicali pensavamo alla Germania, ma non dimenticavano che in Germania vi erano anche dei protestanti e dei massoni. Mentre il nemico tradizionale, l’Austria-Ungheria, incarnava insieme monarchia e cattolicesimo. Come repubblicanizzare l’Europa senza costringere l’Austria a cambiare tanto il proprio regime che la propria fede?

Non bastava come obiettivo ideale recuperare l’Alsazia-Lorena, prendersi la rivincita su Sedan: il grande disegno offerto dall’élite politica ed intellettuale ai soldati delle trincee era di estirpare dall’Europa le ultime vestigia del clericalismo e del monarchismo, e questo ignorando o giungendo di ignorare il processo di liberalizzazione accelerato al quale si era assistito in Germania e in Austria-Ungheria dalla fine del secolo. Fu questo il grande disegno che spinse i repubblicani radicali alla sacra unione con elementi nazionalisti, revanscisti, di destra, e a prestare orecchio agli emigranti delle nazioni e delle nazionalità della monarchia austro-ungarica che portavano la loro (falsa) testimonianza da "esperti" sullo stato d’oppressione quasi coloniale al quale i loro compatrioti sarebbero stati sottoposti da parte degli austriaci, degli ungheresi, dei tedeschi e di altri ancora…

Winock e Azema parlano della potenza della pressione repubblicana sugli stessi grandi borghesi. Date le forti posizioni occupate dai radicali e dai loro amici in tutti i settori dell’amministrazione, questa pressione si esercitava anche su quei ministri e quei diplomatici ai quali la "vittoria totale" e l’idea di distruggere la monarchia parevano un’assurdità, densa di pericoli per l’avvenire. Fu per la paura di opporsi alla pressione proveniente "dal basso" che la maggioranza dei dirigenti — il caso di Briand fu quasi unico — accolse con diffidenza le più ragionevoli aperture verso la pace, il cui rifiuto suscitò un sospiro di sollievo nei fanatici della vittoria totale. Era, ancora una volta, lo stato d’animo che aveva caratterizzato i rivoluzionari del 1789: "Avendo Luigi XVI accettato la monarchia costituzionale, la rivoluzione era in pericolo. Era necessario continuarla con tutti i mezzi per abolire quel che rimaneva della regalità. Per rompere "l’incantesimo secolare", era necessaria la guerra. Se pure si aveva la scelta degli avversari, bisognava tuttavia, per screditare la regalità, per ucciderla moralmente, che il nemico, fosse l’Austria, alleata ufficiale del governo, alleata della famiglia del re e della monarchia. Qualsiasi mezzo era buono contro i nemici del genere umano". Si poteva constatare la stessa emozione, lo stesso ragionamento,nei repubblicani radicali, austrofobi, di Parigi, Londra, Roma, ogniqualvolta corresse voce su negoziati in vista di una pace di compromesso e, soprattutto, a partire dal momento in cui Carlo, cin la proclamazione dell’amnistia per i delitti politici e con i suoi primi provvedimenti di riforma della costituzione, fece il primo passo verso la federalizzazione della monarchia. "Ancora qualche passo in avanti di tal sporta- disse Masaryk ai suoi amici — e siamo perduti". Per sua fortuna, le circostanze impedirono all’imperatore di andare oltre…

Chiaro, no? Il recupero dell’Alsazia-Lorena e la revanche per la sconfitta di Sédan servivano solo da specchietto per le allodole (nazionaliste); l’obiettivo vero andava molto oltre la sconfitta della Germania: prevedeva la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e la fine di tutti i grandi imperi (compreso quello russo, formalmente membro dell’Intesa, ma trascinato in una guerra alla quale non avrebbe potuto sopravvivere, né in senso militare, né in senso ideologico). L’anno in cui la guerra ideologica soppiantò la guerra classica e patriottica fu il 1917, che vide quasi contemporaneamente l’uscita di scena dell’alleato (imbarazzante) zarista e l’ingresso nella coalizione alleata della democrazia americana, col presidente Wilson quale fanatico banditore di un Mondo Nuovo, fondato su repubblica, democrazia e liberto mercato. E guarda caso, sempre nel 1917 la dinastia britannica, ma di origine tedesca, di Sassonia-Coburgo-Gotha, erede degli Hannover dal 1901 (quando era morta la regina Vittoria e le erano succeduti al trono prima Edoardo VII e poi Giorgio V), assunse la nuova denominazione di Windsor, come a voler tagliare i ponti col suo stesso passato e poter traghettare felicemente nei tempi nuovi, repubblicani e democratici. Infine il 1917 fu l’anno che vide abortire i tentativi di Carlo I d’Asburgo per negoziare con l’Intesa una pace separata; logico: tutto volevano le massonerie dell’Intesa, tranne che di concedere all’Austria-Ungheria di sopravvivere al conflitto. In questo quadro, le rivendicazioni nazionali delle minoranze "oppresse", come i cechi che Masaryk pretendeva di rappresentare, servivano solo da pretesto per poter smembrare l’impero asburgico, giustificandone la fine con ragioni di giustizia addirittura morale; come già era avvenuto per la liquidazione del regno borbonico dell’Italia meridionale, nel 1860, che il premier liberale inglese Gladstone aveva bollato come la negazione di Dio. E Gladstone era un massone di alto grado.

Sì: la storia dell’Europa e del mondo moderno sarebbe tutta da riscrivere; in realtà essa è molto, ma molto diversa da come appare, e da come generalmente viene presentata…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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