I veri termini della libertà del pensare
20 Gennaio 2020La via della vita attiva, ma al servizio di Dio
21 Gennaio 2020Il 14 settembre 1914, nel mezzo del Sud Atlantico, presso l’isola di Trinidade, si combatté una stranissima battaglia fa due enormi piroscafi mercantili di circa 20.000 tonnellate di stazza e lunghi oltre duecento metri, il britannico Carmania e il tedesco Cap Trafalgar, i quali, per uno stranissimo caso della sorte, avevano un aspetto molto simile e il tedesco aveva deciso addirittura di assumere le sembianze e l’identità dell’inglese, camuffandosi, per sfuggire alla vigilanza delle navi britanniche che pattugliavano le rotte oceaniche. Entrambi vennero frettolosamente armati come incrociatori ausiliari subito dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, ma l’inglese con otto pezzi da 120 mm. e una gittata di 9.000 metri, il tedesco con due soli pezzi da 105 e una gittata inferiore. Il primo, infatti, poté eseguire tutti i necessari lavori in un porto della Gran Bretagna e poi, perfettamente attrezzato per la sua nuova carriera di nave ausiliaria, salpare per le Bermuda e poi per le Piccole Antille, di dove segnalazioni radio lo fecero ripartite in direzione di Trinidad; mentre il secondo, sorpreso dalla guerra a Buenos Aires, si trasferì dapprima a Montevideo, poi si diresse verso la piccola e disabitata isola di Trinidade, secondo gli ordini dell’Ammiragliato tedesco, ove giunse il 28 agosto. Il suo modesto armamento lo ricevette da una cannoniera che in tempo di pace stazionava lungo le coste dell’Africa Occidentale Tedesca, la Eber, comandata dal capitano di corvetta Julius Wirth, di trentanove anni, il quale, giunto nell’isola il 15 agosto, assunse il comando del transatlantico allorché anche questo vi giunse, qualche giorno dopo. A Trinidade convennero anche alcuna navi carboniere per assicurare il necessario rifornimento alla Cap Trafalgar. Le navi inglesi non avevano problemi di rifornimento: potevano entrare in un porto del vastissimo impero coloniale britannico o anche in un porto neutrale, dove, se armate, non potevano trattenersi per più di ventiquattro ore, ma dal quale potevano ripartire tranquillamente, dopo aver riempito i carbonili, grazie al dominio dei mari esercitato dalla flotta britannica. Le navi tedesche invece erano rimaste tagliate fuori dalla madrepatria, né potevano tentare di raggiungerla perché fatalmente sarebbero state intercettate e distrutte; anzi non potevano nemmeno lasciare i porti neutrali, perché le unità nemiche facevano buona guardia davanti ad essi e qualunque nave fosse salpata, sarebbe stata immediatamente segnalata via radio o avvistata, e quindi inseguita e distrutta. Tale era il quadro complessivo delle operazioni. L’Ammiragliato tedesco aveva stabilito che, in caso di guerra, ben quarantadue navi mercantili avrebbero dovuto essere trasformate in incrociatori ausiliari, per attaccare il traffico mercantile avversario, ma i fatti mostrarono che si era trattato di progetti irrealistici. Quattordici di quelle navi erano ormeggiate in Germania e vi furono trattenute dal blocco inglese, e la stessa sorte toccò ad altre diciassette che si trovavano in porti neutrali. Altre sei erano state catturate nei primi giorni di ostilità mentre ceravano di rientrare in patria. Ne restavano cinque in grado di diventare operative, ma, per una serie di circostanze sfortunate, solo la Cap Trafalgar e la Kaiser Wilhelm der Grosse riuscirono effettivamente ad assumere il ruolo di incrociatori ausiliari, sia pure tra mille difficoltà e per un periodo assai breve.
I due giganteschi transatlantici ebbero la sorte d’incontrarsi a pochi giorni dall’inizio delle ostilità e d’ingaggiare una lotta per la vita e per la morte, che si concluse con l’affondamento di uno di essi, il tedesco, mentre l’altro si allontanava in fiamme. Il suo equipaggiò tuttavia riuscì a spegnere gli incendi e la nave rientrò in servizio di pattugliamento nel Nord Atlantico; poi, finita la guerra, tornò alla sua pacifica carriera di transatlantico di lusso, che si sarebbe conclusa, con la demolizione, nel 1931. Noi ci eravamo già occupati dell’epico scontro fra questi due giganti del mare (vedi l’articolo: Una battaglia fra due transatlantici: "Carmania" e "Cap Trafalgar" (14 settembre 1914) pubblicati sul sito di Arianna Editrice il 19/09/08 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 03/11/17). Una monografia dedicata a questo specifico soggetto è stata scritta dal saggista Colin Simpson, con il titolo The Ship that Hunted istelf (Hardcover, 1977; e Stein & Day, 1981), traducibile con La nave che diede la caccia a se stessa. Il libro non è stato tradotto in italiano, a quanto ci risulta, però ne venne pubblicata una versione ridotta dalla rivista Selezione dal Reader’s Digest, sul numero di febbraio 1979; ed è da essa che riportiamo il brano finale (pp. 176-180):
Grant fece issare la propria insegna di identificazione. Le due navi si trovavano a circa 15.000 metri di distanza, e seguivamo entrambe la stessa rotta. Quando però vide la bandiera inglese sventolare in cima all’albero di maestra, Wirth fece fare alla sua nave un’accostata di 180 gradi e puntò dritto verso il nemico. Grant attese che l’avversario fosse a tiro e poi fece sparare un colo che sollevò una colonna d’acqua davanti alla prua del "Cap Trafalgar". Wirth fece issare la bandiera di combattimento e ordinò di rispondere al fuoco.
Ai cannonieri tedeschi era stato detto di concentrare il tiro sul ponte di comando e sulle sovrastrutture. Wirth voleva una preda di guerra, non una nave colpita a morte. Il primo proiettile passò alto sopra il "Carmania"; il secondo recise la drizza per bandiere e l’antenna radio; il terzo uccise quasi tutti i serventi di un pezzo. Dal "Carmania" giunse la replica: due proiettili centrarono il giardino d’inverno provocando un diluvio di schegge che appiccarono numerosi piccoli incendi. Wirth era convinto che fra pochi minuti avrebbe potuto usare le mitragliatrici. Ma a un tratto una scheggia uccise il timoniere, che si trovava proprio dietro di lui, e il "Cap Trafalgar" cominciò ad accostare a sinistra. Wirth si precipitò al timone per rimettere la nave sulla rotta d’attacco.
Ben presto il falso ponte di comando dell’incrociatore ausiliario tedesco fu quasi interamente avvolto dal fuoco. Vapore, fumo e fiamme impedivano di vere bene il nemico. Tuttavia, il lieve cambiamento di rotta permise ai serventi di mettere il pezzo di poppa in punteria e di danneggiare con una serie di colpi la plancia del "Carmania".
Wirth vide che adesso si trovava a meno di 6.000 metri dalla nave inglese: era tempo di farsi sotto il più in fretta possibile, e ordinò di aprire il fuoco con le mitragliatrici. ‘Sapete?’ gridò Grant sul "Carmania". Credo che quei pazzi tentino di abbordarci".
Preoccupato dal grandinare delle pallottole, il comandante inglese decise di aumentare la distanza dal nemico, e fece accostare il "Carmania" a dritta, ma non prima che il capitano di corvetta Lockyer avesse dato l’ordine di fare fuoco a discrezione, e di mirare alla linea di galleggiamento
Una serie di granate con alzo zero investì il "Cap Trafalgar".
La prima bordata colpì la fiancata di dritta. Un proiettile squarciò la lamiera, trapassò la paratia di un compartimento stagno e provocò l’allagamento di un carbonile. Un altro andò a segno ancora più a prua, e l’acqua irruppe da una falla nella stessa sala macchine. Un terzo centrò il carbonile di riserva a prua estrema, causando gravi danni. Il macchinista Carl Rieck provvide subito ad allagare i serbatoi di sinistra per bilanciare la nave facendo sollevare maggiormente dall’acqua il lato di diritta. Intanto però Wirth, nel tentativo di seguire il "Carmania", aveva ordinato di accostare a dritta. La manovra fece inclinare lievemente la nave da questo lato, e peggiorò l’allagamento. Era chiaro che bisogna accostare a sinistra, e cambiare rotta. Wirth diede l’ordine e le due navi si separarono. Il "Cap Trafalgar", nell’allontanarsi, sparò varie salve contro il "Carmania"; un proietto colpì due cabine, che presero fuoco. Grant mandò Barr a dirigere l’opera delle squadre antincendio. Ma ben presto le fiamme si estesero alla plancia, e Grant fu costretto a farla sgombrare e a trasferirsi in una postazione di comando a poppa che Barr aveva fatto costruire molto tempo prima per facilitare la manovra di attracco del transatlantico. Il sistema di comunicazione a bordo era stato distrutto nei primi minuti di battaglia, e ora Grant si teneva in contatto con la sala macchine mediante una catena di marinai appostati accanto ai boccaporti che trasmettevano i suoi ordini di manovra a colpi di fischietto.
Wirth andò a trovare i feriti e, inginocchiandosi accanto a loro, mormorò qualche parola di conforto; in quel momento, un proietto andò a segno a poca distanza dal punto in cui si trovava lui, e lo spostamento d’aria lo scaraventò all’indietro. Feddersen si precipitò a soccorrerlo, e vide che era stato colpito sotto l’ascella da una scheggia del parapetto. Non osò togliere il pezzo di metallo perché il sangue cominciava già a sgorgare a fiotti dai bordi della ferita. Wirth trovò comunque la forza di parlare, ordinando a Feddersen di far sgombrare tutti gli uomini che stavano sottocoperta e di prepararsi ad abbandonare la nave. Ben presto lo sbandamento del "Cap Trafalgar divenne così accentuato che i ponti sul lato di dritta erano quasi sott’acqua.
A questo punto ebbe luogo una scena surreale. Mentre un silenzio di morte calava sulle acque, il comandante inglese prese la decisione di sospendere l’azione e di allontanarsi dalla nave nemica, per poter dedicare tutti gli sforzi dell’equipaggio a spegnere gli incendi e salvare così la nave, prima che fosse troppo tardi. Intanto le scialuppe del Cap Trafalgar venivano calate in acqua e da una di esse si levò un coro che cantava l’inno della Marina imperiale germanica. Nel giro di pochi minuti la bella e grande nave, che era stata l’orgoglio della Hamburg-Amerika Linie, si abbassò di prua e scivolò per sempre nella sua liquida tomba in fondo al mare. Benché ferito, il capitano Wirth stava ritto in piedi sulla plancia, reggendosi al timone. e così lo videro i suoi uomini, dalle scialuppe, per l’ultima volta. Il suo corpo venne recuperato più tardi e sepolto in mare, secondo l’uso dei marinai, il 15 settembre, insieme a un altro caduto, sui quindici uomini che avevano perso la vita durante il combattimento o che erano annegati al termine di esso. Il Carmania, da parte sua, che poté essere mantenuto a galla e raggiungere zoppicando il porto più vicino per le riparazioni, aveva avuto nove morti e 26 feriti. In pratica, la battaglia si concluse con la vittoria della nave britannica perché questa possedeva un armamento di gran lunga superiore e perché il suo comandante preferì allungare le distanze per poter colpire il nemico tenendosi fuori della portata dei suoi pezzi: una tattica ragionevole, anche se non troppo gloriosa; la stessa che l’ammiraglio Sturdee applicherà, su scala assai maggiore, nella battaglia delle Isole Falkland l’8 dicembre successivo contro la squadra dell’ammiraglio Spere (cfr. i nostri articoli Con un falso telegramma dello spionaggio inglese von Spee fu preso in trappola alle Falkland, e L’ultima crociera dell’ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland (novembre-dicembre 1914) e pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia, rispettivamente il 27/11/17 e il 28/11/17).
Magnifica la figura del comandante Julius Wirth, splendido ufficiale e uomo di grandi doti morali: si mostrò coraggioso in battaglia, compassionevole verso i suoi uomini rimasti feriti, umano nei confronti dell’intero equipaggio, che volle mettere in salvo sulle scialuppe; eroico quanto a se stesso, perché preferì la morte al disonore di abbandonare la nave, anche se quella non era mai stata la sua nave e anzi non era mai stata neppure, fino a pochi giorni prima, una nave da guerra. Inoltre egli era rimasto gravemente ferito e quindi nessuno avrebbe potuto criticarlo se avesse accondisceso a farsi trasportare a terra, insieme agli altri uomini dello sfortunato equipaggio. Il suo attaccamento al dovere e al senso dell’onore gli dettarono una simile condotta: senza atteggiarsi ad eroe, era un buon ufficiale e un ardente patriota e per questo preferì seguire la sua nave sul fondo dell’abisso, piuttosto che sopravvivere senza nave e senza onore. Episodi simili si trovano negli annali dei entrambe le guerre mondiali, anche se nella prima ci s’imbatte sovente in un tratto cavalleresco che diviene assai più raro nella seconda. Ma poi, a partire dalla metà del Novecento e fino ai nostri giorni, il clima morale si è fatto ben diverso, tanto che fatichiamo a immaginare un capitano di mare come Julius Wirth, non solo in tempo di guerra ma anche in tempo di pace. La penosa vicenda del naufragio della Costa Concordia, il 13 gennaio 2012, e il comportamento tenuto in quell’occasione dal suo comandante, ci ricordano quanto sia difficile, oggi, trovare uomini di mare della statura di un Wirth. Anche quando si era verificato il naufragio del transatlantico Andrea Doria, orgoglio della nostra Marina mercantile, speronato e affondato da una nave svedese il 26 luglio 1956, con la morte di ben 46 esseri umani, il comandante avrebbe voluto perire con la sua nave, ma gli uomini dell’equipaggio alla fine riuscirono a farlo salire su di una scialuppa. È un bene o un male che oggi sia difficile immaginare tanta dedizione alla propria nave, tanto amor di patria, quanto ne ebbe Wirth allorché accettò l’impari combattimento e poi non volle salvare la vita dopo la sconfitta? In tempi di pacifismo e di globalismo, come quelli odierni, anche la più legittima delle guerre viene guardata con sospetto, e l’amor di Patria è divenuto poco meno d’un crimine, certo un sentimento politicamente scorretto. E l’onore, la dedizione al servizio, l’attaccamento al proprio dovere: quante persone sarebbero disposte oggi a rinunciare alla vita per difenderli? Domande che fanno arrossire…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio