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Cosa sono le cose mondane in confronto alla Verità?

Se dovessimo dire qual è il segno visibile del vero credente, specie in questi tempi bui di oscuramento della fede e di traviamento delle anime da parte di un clero che non è più degno di chiamarsi, come ancora si permette di fare, cattolico, ma che si è tristemente adeguato alla mentalità di questo mondo e si è asservito al potere delle tenebre, diremmo che è questo: il vero credente reputa il valore di ogni cosa pari a zero, in confronto alla sola che conta, la Verità divina. Avremmo voluto scrivere: in confronto a Gesù Cristo. Tuttavia ci si è subito presentata alla mente l’immagine dei falsi pastori che proclamano anch’essi, sebbene sempre più raramente, fra un sermone e l’altro dedicato al clima e ai migranti, la fede in Gesù Cristo: ma il Gesù del quale essi parlano non è, evidentemente, il nostro; non è quello che gli Apostoli hanno annunciato, che i Padri della Chiesa hanno insegnato; che i Santi e le Vergini hanno preso a modello ineffabile; per il quale il sangue dei Martiri è stato versato copiosamente, oggi come tanto tempo fa; e che il Magistero immutabile ha sempre predicato, nell’arco di quasi duemila anni; quasi, cioè fino allo sciagurato Concilio Vaticano II, a partire dal quale è iniziata la graduale, silenziosa, perfida opera di smantellamento della liturgia, della pastorale e della dottrina e di apostasia dalla vera fede, da parte di un clero traditore, conquistato dalla massoneria, dal modernismo e dal marxismo.

Come ammonisce Gesù stesso (Mt, 7, 21-23):

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

Non basta predicare Gesù Cristo: bisogna predicarlo secondo verità e secondo giustizia, non fabbricarsi un Gesù secondo i desideri della carne, per compiacere il mondo e giustificare i suoi peccati. Scrive San Paolo nella Lettera ai Filippesi ( 3,7-21):

Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 

E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Quanti dunque( siamo) perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.

Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.  Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

L’espressione usata da san Paolo, ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo, è molto forte; e, se non viene correttamente interpretata alla luce della retta ragione e del sensus fidei, l’istinto che guida i cristiani e che è ispirato in essi dallo Spirito Santo, rischia di essere perfino fuorviante, come è accaduto a Lutero. Per Lutero, essere trovato in Cristo, non con una giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede, diventa una totale svalutazione dell’impegno del cristiano a vivere secondo il modello di Cristo e conduce all’eresia della salvezza sola fide, cioè ad esclusione delle opere buone. Perché di una vera eresia si tratta, col permesso di Bergoglio e di tutta la sua corte di turiferari e piaggiatori, ai quali il protestantismo piace così tanto da aver affermato che, sulla questione della salvezza, aveva ragione Lutero, e ciò contraddicendo il Magistero perenne della Chiesa cattolica romana e in particolare i documenti del Concilio di Trento, che da cinquecento anni insegnano esattamente il contrario: ossia che la salvezza finale dell’anima dipende sia dalla fede, sia dalle opere.

Come dice San Giacomo in un passo estremamente chiaro delle Lettere cattoliche (Giac., 2, 14-26):

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

La dottrina della salvezza sola fide, che nasce da una errata interpretazione del passo paolino più sopra riportato, non può piacere che a una mente rozza, primitiva, che sa ricevere la Parola di Dio solo in maniera letteralistica, senza lasciarsi illuminare né dalla ragione naturale, né dal sensus fidei; e conduce, a sua volta, ad una ulteriore dottrina erronea, quella della netta divisone fra l’uomo esteriore, che vive nelle opere, e l’uomo interiore, che vive nella sola fede. Oltre a svalutare arbitrariamente le opere buone, vale a dire il concreto impegno del cristiano a vivere secondo l’insegnamento di Cristo, questa dottrina porta a un troppo comodo adagiarsi dell’anima sulla fede, senza mai decidersi a far nascere l’uomo nuovo, rinnovato in Cristo, e lasciando tutto il "lavoro" della vita cristiana allo Spirito Santo; cioè senza mai proporsi seriamente di resistere alla tentazione e al peccato. Il celebre motto luterano Pecca fortiter, sed crede fortius ("pecca fortemente, ma credi ancora più fortemente"), bene esprime questa seconda eresia: come se il cristiano, quando si confessa dei suoi peccati davanti al sacerdote, non esprimesse, oltre al pentimento per l’offesa recata a Dio, anche il fermo proponimento di non ricadere in essi. E questa errata impostazione conduce Lutero a una terza eresia: quella del sacerdozio universale dei credenti. In base ad essa, egli sostiene che il sacerdote, in quanto tale, non serve a nulla; che nella vita dell’uomo interiore il rapporto diretto con Dio, mediante la fede, è più che sufficiente a dotare l’anima dei mezzi necessari alla salvezza. Il che conduce Lutero dritto in un vicolo cieco: dal momento che la fede non è possibile se non come dono di Dio, per questa via si giunge a svalutare il libero arbitrio e a trasformare Dio in un tiranno capriccioso e incomprensibile, che dà la fede, e quindi i mezzi per salvarsi, a chi vuole Lui, mentre non la dà ad altri. Di qui alla dottrina eretica della predestinazione manca solo un passo: e se Lutero non lo compie sino in fondo, per mancanza di coerenza, Calvino non si farà alcuno scrupolo di compierlo, riducendo l’uomo a un misero burattino nelle mani di un Dio minaccioso e i cui voleri sono indecifrabili. Ma le premesse di questa eresia sono già in Lutero e nella sua dottrina del servo arbitrio, con la quale, credendo di confutare Erasmo da Rotterdam, mentre confuta, in realtà, millecinquecento anni di teologia e di Magistero della Chiesa: perché la dottrina del libero arbitrio non è di Erasmo, ma della Chiesa tutta, lo è sempre stata e sempre lo sarà. Senza di essa, cioè senza l’idea della libertà del volere umano, si annulla tutto l’edificio del cristianesimo e si rende superflua perfino l’Incarnazione di Cristo e la sua Redenzione: chi è venuto a redimere, Cristo, se il Padre ha già deciso a chi dare la fede e a chi negarla, e quindi chi si salverà e chi si dannerà? Questo non è più cristianesimo, ma ebraismo: con Lutero il cristianesimo compie un’inversione di senso e torna da dove Cristo, san Paolo e gli Apostoli sono partiti: all’ebraismo e al potere della Legge. Proprio quel potere che san Paolo, nel passo sopra citato, ha esplicitamente dichiarato non essere sufficiente a giustificare chicchessia davanti a Cristo, perché secondo la Legge nessuno è giusto, nessuno è santo, e quindi secondo la Legge nessuno si potrà mai salvare, ma è solo il sacrificio gratuito di Cristo sulla Croce che salva gli uomini, non la loro osservanza della Legge. Cristo ci salva perché il suo amore per noi è immenso, non perché noi siamo meritevoli della salvezza per conto nostro. E tuttavia, da ciò non consegue che le opere sono inutili: c’è una bella differenza fra la mentalità giudaica, secondo la quale si salva colui che osserva minuziosamente la Legge, e l’idea cattolica, secondo la quale si salva colui che si affida alla misericordia di Cristo, senza cessare però di impegnarsi con tutte le proprie forze ad esser degno, nei limiti del possibile e sempre umanamente, cioè imperfettamente, parlando, di quell’amore.

Questi concetti sono bene espressi da San Paolo nella Lettera ai Romani (7, 14-25):

Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato.

E ora torniamo al concetto paolino che tutto è nulla in confronto alla comunione con Cristo. San Paolo dice: alla conoscenza di Cristo, perché la fede, come abbiamo altre volte ricordato, è un atto razionale di adesione della volontà a ciò che Cristo ha insegnato e a ciò che ha testimoniato con la sua stessa vita e con la sua morte e Resurrezione (se si toglie o si mette fra parentesi la Resurrezione, cade tutto il resto, a partire dalla Redenzione: chi sarà mai redento da un semplice uomo che è morto sulla croce, sia pure per con nobili intenti?). San Paolo si spinge a dire che tutte le altre cose, a paragone di Cristo, sono come spazzatura. L’espressione è troppo forte per i delicati orecchi dei cattolici adulti e maturi, cioè dei modernisti che vanno in giro travestiti da cattolici, e magari da sacerdoti? Peggio per loro. È logico, del resto, che la loro sensibilità ne sia ferita: onori e carriera, ma anche piaceri mondani, compresi i più sordidi vizi e i peccati più ignominiosi, sono ben altro che spazzatura, per quei signori. È forse un caso che la manovra per distruggere la Chiesa e allontanare le anime da Cristo parta da una lobby di vescovi massoni e depravati, affaristi e lussuriosi?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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