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Tutte le creature viventi vogliono essere felici

Che gli animali non possiedano l’uso della ragione, così come la intendiamo parlando degli esseri umani, bensì una serie di istinti, anche complessi, che li guidano negli atti della loro esistenza e presiedono al loro comportamento complessivo, questa è una cosa generalmente ammessa da sempre, e mai posta seriamente in dubbio. E ciò nonostante che alcuni esperimenti con i cavalli, i delfini, le scimmie e soprattutto con i cani, animali peraltro fortemente "antropizzati" dalla lunghissima familiarità con l’uomo, paiano volerci ricordare che è sempre necessario distinguere fra le diverse specie e che, soprattutto nell’ambito dei mammiferi superiori, qualche forma di intelligenza indubbiamente esiste, anche se probabilmente è eccessivo parlare di raziocinio vero e proprio. I cavalli o i cani ammaestrati del circo sembrano rispondere a delle domande, anche di tipo aritmetico, in base ad una logica simile alla nostra, però, a ben guardare, si tratta di riflessi condizionati e di risposte che dipendono non dalla comprensione di un interrogativo razionalmente posto nella nostra lingua, il che sarebbe assurdo, ma da una serie di circostanze collaterali di tipo meccanico e messe in atto appositamente, come il tono della voce o una certa mimica facciale, da parte dell’uomo che li ha addestrati.

Tuttavia, se gli animali, anche quelli più "intelligenti", non possiedono una razionalità paragonabile a quella umana, possiedono in compenso dei sentimenti simili a quelli dell’uomo? Senza alcun dubbio sono capaci di amore e odio: l’amore di una leonessa o di un’orsa o di una tigre femmina per i piccoli, e il loro odio mortale se li vedono minacciati da qualcuno, ricordano gli analoghi moti dell’animo di una madre umana. Oppure si tratta solamente d’istinti? La femmina che accudisce la prole (e anche il maschio, in parecchie specie animali, ad esempio i pinguini), o i genitori che affrontano qualsiasi pericolo, e anche la morte, pur di proteggere i loro piccoli in pericolo, agiscono in base a un sentimento o a un istinto? Il sentimento è qualcosa di più di un istinto, qualcosa di più complesso e di mediato dalla volontà; mentre l’istinto, quanto a se stesso, è un moto assolutamente spontaneo e quindi cieco, del tutto indipendente dalla facoltà della volizione. A un istinto si può comandare, ma solo fino ad un certo punto, facendo appello a tutta la propria forza di carattere; ma è quasi impossibile reprimere del tutto un istinto primario. La necessità di bere, ad esempio, è un istinto primario: frenare un tale istinto, quando si è assetati, richiede uno sforzo non indifferente e un grosso impiego della volontà. Ci si può trattenere dal bere se ci si accorge, o si sospetta, che la fonte sia avvelenata: ma se si è divorati dalla sete e non si beve da giorni, astenersi dal tuffare la faccia in quell’acqua e ingurgitare grandi sorsate richiede uno sforzo terribile. Per l’uomo, almeno, le cose vanno così; ma gli animali, stando a quanto è dato di osservare, non sono combattuti: si allontanano subito dall’acqua o dal cibo allorché fiutano il pericolo, anche se sono tormentati dalla sete. Gl’istinti primari — bere, nutrirsi, dormire — sono fondamentalmente dei bisogni insopprimibili: soddisfarli pertanto è questione di vita o di morte, sia per l’uomo che per l’animale. Tuttavia, il fatto che l’uomo sia combattuto fra due istinti divergenti – quello di bere, per esempio, e quello di trattenersi dal bere, allorché sospetta che quell’acqua sia velenosa — sembra indicare che nell’uomo esiste una forma di desiderio che tende a sfuggire al controllo dell’istinto Davanti a una sorgente avvelenata, o a un boccone avvelenato, l’animale non conosce esitazioni, l’uomo sì: anche se sa che bere o mangiare significa rischiare la morte, deve fare appello a tutta la sua capacità di resistere alla tentazione, il che significa che in lui c’è qualcosa che tende a sfuggire all’istinto, qualcosa che possiede la forza di contrastare l’istinto e di resistere anche alla volontà. Questo qualcosa è il desiderio, che è l’attrazione verso ciò che l’istinto sa essere piacevole, e che tende a imporsi alla coscienza anche a dispetto dell’istinto primario fondamentale, quello della sopravvivenza. Bere l’acqua avvelenata significa morire, e tutti gli animali rifuggono dalla morte, finché sono capaci di farlo: solamente l’uomo esita. Si narra di spedizioni militari nel deserto nel corso delle quali gli ufficiali hanno dovuto allontanare a frustate i soldati da una pozzanghera di acqua putrida, perché, incuranti delle conseguenze, tutti volevano dissetarsi. Un caso estremo è quello degli esseri umani che, per sopravvivere, uccidono e divorano alcuni dei loro compagni, e ne bevono il sangue; è accaduto più volte, e il quadro di Théodore Géricault La zattera della Medusa, che si riferisce ad un caso realmente accaduto, al largo dell’Africa occidentale, nel 1816, ne è una famosa ed eloquente testimonianza. Tuttavia, in casi del genere vi sono anche uomini che rifiutano quell’orrendo cibo, pur sapendo che il rifiuto di nutrirsi equivale alla morte: in essi la volontà si impone al più forte di tutti gli istinti, quello di non lasciarsi morire, in nome dei valori morali. Gli animali, ovviamente, non hanno valori morali e spesso si osservano animali che azzannano e divorano i loro compagni, i lupi ad esempio, o gli squali, non appena questi vengono feriti dall’uomo. A vietare all’uomo una simile condotta sono, dunque, sia il sentimento che il ragionamento, non l’istinto. Si è osservato più volte che dei cani si lasciano morire di fame dopo la morte del padrone, o si mettono in cammino e percorrono distanze incredibili per ritrovarlo, se sono stati separati da lui: ma il cane, come abbiamo detto, è l’eccezione che conferma la regola, essendo un animale che ha perso una parte dei suoi istinti mentre ha acquisto una parte dei sentimenti umani, a causa della sua familiarità con l’uomo stesso. Per gli animali selvatici, al contrario, vale la regola che l’istinto detta sempre la sua legge alle azioni da compiere e a quelle da evitare.

Ma i sentimenti? E quella specie particolare di sentimenti che sono i desideri, cioè qualcosa che l’istinto sa essere piacevole e che, perciò, la coscienza brama con tutta la sua intensità, anche se intelligenza e volontà non sempre li approvano e anzi, talvolta, li condannano, sia per ragioni morali (nel caso dell’uomo) sia per l’affacciarsi di un istinto più forte, quello della sopravvivenza (per l’uomo e per l’animale?). Qui il discorso si fa più sfumato. Quando è in gioco l’istinto sessuale, ad esempio, che è più forte di un semplice desiderio, però meno degli istinti primari di bere, mangiare e dormire, vi sono animali che si lasciano irretire dalla femmina anche se il loro istinto li avverte che rischiano la vita (si veda l’episodio iniziale di Zanna bianca di Jack London, nel quale la femmina di cane lupo attira i cani da slitta lontano dalla protezione degli uomini, affinché il branco dei lupi affamati li possa divorare). Un altro desiderio è quello di gustare un cibo particolarmente appetitoso. L’uomo conosce bene questo desiderio e quando esso oltrepassa un certo limite, risultando dannoso alla salute, oltre che al portafogli, lo classifica fra i vizi. Per l’etica cristiana è qualcosa di più: un peccato vere proprio, il peccato della gola; e Dante Alighieri, coerentemente con tale insegnamento, pone i golosi all’Inferno, negli eterni tormenti. Ora, la domanda che poniamo è questa: gli animali conoscono un desiderio di cibo che vada oltre il semplice istinto di nutrirsi, e che assomigli, in una certa misura, alla ghiottoneria umana? Gli animali, se gustano un cibo più buono dell’ordinario, sono capaci di esporsi a dei sacrifici particolari per procurarselo, e magari anche a correre qualche rischio non strettamente necessario? Se un uomo apprezza il pane che viene fatto in un certo panificio, è capace di allontanarsi di molto dalla zona in cui abita, pur di acquistarlo; e se un certo ristorante cucina dei pranzi particolarmente graditi al suo palato, può fare anche molti chilometri pur di soddisfare il proprio desiderio. Esiste, per gli animali, un sentimento di desiderio paragonabile a questo? Possiamo immaginare un animale che si allontani moltissimo dalla sua tana, o dal suo nido, per procurarsi non il cibo che può facilmente trovare entro un modesto raggio, ma quello che sa di poter trovare in luoghi assai lontani, che in precedenza ha avuto occasione di visitare e che la sua memoria ha per così dire registrato? Una risposta a questo interrogativo ci viene dal comportamento di un pipistrello che vive nella grande isola del Madagascar, la Rossetta gigante (Pteropus rufus), conosciuto anche come la volpe volante del Madagascar, per le sue abitudini arboricole e per le sue rispettabili dimensioni. Per poter gustare i frutti più succulenti, fra cui quelli dell’albero denominato Tamarindus indica, questo chirottero non si accontenta di frugare fra le piante e i frutteti della sua isola nativa, ove peraltro scorrazza per decine si chilometri, ma si spinge audacemente in mare aperto e vola su grandi distanze per tutta l’area dell’Oceano Indiano, finché non ha soddisfatto la sua golosità. Comportamento notevole da parte di un pipistrello frugivoro, notturno come tutti i suoi simili, che potrebbe benissimo contentarsi, se vivesse di puro istinto, dei frutti reperibili vicino alle caverne ove trascorre dormendo le ore del giorno.

Riportiamo una pagina della bellissima enciclopedia illustrata a cura di Frédérick Robert, Gli animali. Tutti gli animali nel loro ambiente (titolo originale: Les animaux: une encyclopédie du monde animal, Paris, Hachette, 1966; Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1966; vol. V, pp. 896-897):

LUNGHISSIMI VIAGGI COMPIUTI SOLO PER GOLOSITÀ. Una sola presenza animale è davvero familiare per questi giocolieri notturni dagli occhi stranamente luminosi [i lemuri]: e cioè quella delle Rossette che volano silenziose nella notte. Pipistrelli del genere "Pteropus", hanno le dimensioni di un uccello: gli adulti sono grossi come polli e spiegano un paio di ali viscose la cui apertura raggiunge spesso il metro. Il loro colore di solito blu-nero cupo, ravvivato al centro da una fascia rossa o giallastra che inquadra una testa piccola e sottile, più semplice di quella degli altri pipistrelli. Il loro muso fine, sovrastato dalle piccole orecchie diritte e illuminato dagli occhi brillanti come braci, ha valso alle Rossette giganti il soprannome di "volpi volanti".Queste volpi volanti sono frugivore e solo accidentalmente capita loro di ingoiare qualche insetto, mentre si cibano di quei frutti selvatici di cui è ricca la savana alberato a bassa boscaglia, oppure mentre fanno razzia nei frutteti. Quando le Rossette giganti rivolgono le loro attenzioni alle piantagioni, gravissimi sono i danni provocati, giacché questi pipistrelli gregari e ottimi volatori si abbattono sovente a migliaia sullo steso frutteto, distruggendo completamente il raccolto. Per compiere queste imprese, essi percorrono decine e decine di chilometri, abbandonando le loro caverne, ben nascoste nelle pareti di laterite oppure tra le fessure delle rocce o nelle gole dei massicci montuosi che emergono dall’altipiano centrale. In questi oscuri rifugi, le Rossette si agglutinano in così gran numero che non tutte riescono ad attaccarsi alle pareti rocciose e sono allora costrette ad appendersi le une alle altre, non senza violenza: si graffiano con le unghie, si mordono con i dentini aguzzi e ogni sera, quando i grappoli si staccano e spiegano le ali nel crepuscolo che si spegne, centinaia di cadaveri cadono sul fondo delle caverne. Le Rossette, così numerose in Madagascar, sono presenti in quasi tutte le terre dell’Oceano Indiano: in Australia, in India, in Indonesia, nel Medio Oriente e in Africa. E dall’Isola Rossa esse non esitano a intraprendere lunghi viaggi attraverso l’Oceano, volando per centinaia e centinaia di chilometri, con l’unico scopo di farsi una bella scorpacciata di frutti in qualche lontana località già ben conosciuta.

L’immagine di questo pipistrello che si avventura sulle immense distese oceaniche per raggiungere le isole remote ove potrà gustare un cibo squisito, invece di accontentarsi di quello che può trovare in abbondanza nel breve raggio della sua vita ordinaria, ci sembra, oltre che suggestiva, altamente emblematica di una condizione esistenziale che caratterizza tutti gli esseri viventi. Contrariamente a ciò che sostiene la cultura moderna, fautrice del caso e pervasa da un profondo nichilismo, tutte le creature viventi tendono a un telos, a un fine; e questo fine non può essere che la felicità. Lo prova il fatto che non esitano a sobbarcarsi grandi fatiche e ad affrontare non lievi rischi per raggiungere ciò che ad esse appare desiderabile: e se per gli esseri umani più evoluti il fine è costituito dal perfezionamento spirituale, per gli animali può anche risiedere nella ricerca di un cibo migliore, nel quale trovano l’equivalente di ciò che per noi è la felicità. Essere felici, insegna Aristotele, significa portare al culmine la perfezione della propria natura: quando ogni aspetto di essa viene pienamente realizzato ed appagato, subentra uno stato di benessere senza pari, che viene chiamato felicità per indicare che nulla di più bello può essere concepito al suo posto. Tutte le creature viventi, e senza dubbio anche le piante e gli organismi inferiori, sono fatti per la felicità e tendono verso di essa. La felicità per l’uomo è riuscire a diventare ciò che è nelle sue migliori possibilità, senza lasciarsi distrarre dalla seduzione dei beni inferiori, di minor pregio. Il lussurioso, il superbo, l’avaro, si lasciano sedurre da beni relativi, quali il piacere sessuale, la gloria e le ricchezze; ma l’uomo spiritualmente evoluto sa che è da sciocchi contentarsi di simili beni quando si può puntare assai più in alto. Così alto che, da lassù, fa uno strano effetto contemplare la vita di prima; e vien da sorridere a pensare che un tempo,il piacere, la gloria e il denaro erano il massimo delle proprie aspirazioni. Come dice San Paolo (1 Corinti,. 13, 11): Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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