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Per uscire dal vicolo cieco della modernità

Stiamo vivendo nel corso di una svolta epocale, un vero e proprio cambio di paradigma; ma poiché si tratta di un cambio dovuto alla globalizzazione, questo, a differenza di altri che si sono succeduti nella storia, ha i caratteri della totalità e della irreversibilità: in altre parole, si pone oggettivamente come la fine della storia. Ciò non era mai accaduto fino ad oggi. Quando cadde l’Impero Romano, il grande contenitore della civiltà antica (e gli storici discutono ancora se questa cadde con lui, o non piuttosto si trasformò nella civiltà cristiana medievale) molti ritennero che il mondo fosse giunto alla fine. Invece non era il mondo ad esser giunto alla fine della sua parabola storica, bensì l’Impero Romano; anzi la sola parte occidentale, perché quella orientale sopravvisse per un altro millennio. Ma oggi, mentre stiamo assistendo, o meglio mentre stiamo vivendo la caduta della civiltà moderna, non riusciamo a immaginare che cosa la potrà sostituire, se non una regressione alla più completa barbarie. La cosiddetta civiltà antica infatti era la civiltà di questa parte del mondo: l’Impero Romano non abbracciava che il bacino del Mediterraneo e alcune altre regioni dell’Europa occidentale; mentre la civiltà moderna abbraccia il mondo, senza residui, anche se i vari continenti ne sono imbevuti in diversa misura. Il motore della civiltà moderna è, ancora una volta, l’Occidente; ma se essa cadrà, o meglio collasserà, perché senza dubbio le forze che la stanno distruggendo sono prevalentemente di natura interna, vi sarà uno sconvolgimento anche al di fuori dell’Occidente, tanto più che nessuna delle altre civiltà — l’islamica, l’indù, la cinese — possiede il dinamismo per candidarsi a sostituirla nel ruolo di nuova civiltà mondiale.

A ciò si aggiunga che la ragione principale del collasso della civiltà moderna è la metastasi della finanza speculativa ed usuraia; e quando tutta la ricchezza e tutte le risorse lavorative dell’Occidente saranno state prosciugate, il saccheggio si sposterà negli altri continenti, probabilmente passando per la porta stretta di una terza guerra mondiale: a meno che qualcuno s’immagini la Cina, la Russia o i Paesi islamici sottomettersi alla piovra della grande finanza internazionale senza battersi per sopravvivere. Dobbiamo perciò porci l’interrogativo se e come si possa contrastare la catastrofe della nostra società, dissociando le sue sorti da quelle della civiltà moderna, che non ci appartiene, ma ci è stata imposta dai padroni della grande finanza e da un’élite d’intellettuali e politici massoni, illuministi e progressisti. Dobbiamo verificare se esistano ancora margini di manovra per immaginare e organizzare una reazione da parte delle forze sane della nostra società, prima che il collasso della modernità travolga con sé anche ciò che di vivo e di valido sopravvive della nostra vera civiltà, pur se in posizione assolutamente marginale, che è l’eredità della civiltà cristiana, la quale ha creato l’Europa e le ha donato oltre un millennio di splendore, e poi è stata lentamente e metodicamente aggredita, e infine scalzata e rimossa, nel corso di cinque secoli di pressione capillare e sistematica da parte delle forze della modernità, prima fra tutte il capitalismo finanziario. In particolare, dobbiamo interrogarci se esista una visione filosofica del mondo che possa tradursi in manifesto politico e sociale onde reagire alle forze malefiche della modernità e spezzare la sua infausta egemonia, prima che sia troppo tardi e i suoi meccanismi degenerativi e le sue insanabili contraddizioni ci trascinino tutti al fondo. Si tratta di recuperare un ragionevole orizzonte di speranza, specialmente per le nuove generazioni, il cui disagio e il cui disorientamento sono ormai evidenti e che si riflettono pesantemente sul primo fattore di sopravvivenza di qualsiasi società: il tasso d’incremento demografico, che in Europa si avvicina ormai pericolosamente allo zero. E, per fare questo, bisogna sia individuare l’essenza filosofica della modernità, sia proporre un valida e credibile visione alternativa ad essa. Ora, non vi sono dubbi che la filosofia che compendia pienamente i caratteri essenziali della modernità è il liberalismo; dobbiamo perciò batterla sul suo terreno, elaborando una valida e credibile alternativa filosofica ad esso.

Questa alternativa non può essere che una qualche forma di tradizionalismo, poiché al nucleo della modernità vi è il mito del progresso, il quale di per sé implica rifiuto e disprezzo del passato, e quindi della tradizione. Abbiamo sovente affermato che il liberalismo è il cancro che sta distruggendo la nostra società: il liberalismo che, innestato nel solco della democrazia, è praticamente l’unica ideologia rimasta in piedi dopo il crollo delle altre — socialismo, comunismo, anarchismo, fascismo, nazismo – le quali, peraltro, sono tutte sue eredi, legittime o illegittime (vedi l’articolo Il tumore che ci sta divorando si chiama liberalismo, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 09/01/20). Ed è rimasto in piedi, assumendo anzi le forme del Pensiero Unico, ossia del totalitarismo mascherato, per la buona ragione che è l’ideologia di chi ha vinto la partita mondiale — nel 1918, nel 1945 e nel 1989 — e detiene sia le leve della finanza mondiale, sia la forza politico-militare (l’impero anglo-sionista) per imporre il dominio finanziario, fondato sul sistema usuraio e ricattatorio del debito pubblico creato artificialmente a quanti fossero recalcitranti nel sottomettersi. Non è riuscito tuttavia ad assorbire le ultime quote autonome di mercato mondiale, perché Russia, Cina e alcuni altri Stati, come l’Iran, oppongono ancora una forte resistenza, e perciò il liberalismo, pur essendo candidato al ruolo di Pensiero Unico Mondiale, per adesso deve limitarsi a esercitare la sua ferrea egemonia politica ed economica sul solo Occidente, ove manca poco che chi professa un’ideologia diversa, o uno dei corollari derivanti dal rifiuto del liberalismo stesso, rischi automaticamente di subire i rigori della legge e di vedersi trattare da nemico pubblico e in un certo senso da potenziale terrorista.

Scrive, dunque, Michel de Benoist Benoist, con l’abituale chiarezza concettuale, nel suo recente saggio Critica del liberalismo. La società non è un mercato (titolo originale: Contre le libéralisme. La société n’est pas un marché, Editions du Rocher, 2019; traduzione dal francese di Giuseppe Giaccio, Arianna Editrice, 2019, pp. 250-251):

Un conservatore crede anzitutto che esista una natura umana, che fa dell’uomo, sin dall’inizio, un essere politico e sociale, cioè un essere sociale. Pensa che questo essere politico e sociale non sia perfetto, che sia capace del meglio come del peggio, e che, per costruirsi e raggiungere l’eccellenza le suo "telos", per trarre il meglio da sé, debba disporre di punti di riferimento etici e di quadri istituzionali. Se ne deduce che non si può costruire una società, la quale non è un semplice aggregato di individui, unicamente sulla base di un contratto giuridico e sullo scambio mercantile.

Egli ritiene inoltre che l’uomo sia anzitutto un erede, ossia che si inscriva in una storia e che si definisca anche attraverso le sue appartenenze, che non sempre ha scelto. Questo erede ha un debito verso ciò che ha ereditato. Il conservatorismo è il partito degli ancoraggi, il partito del radicamento e della fedeltà.

Egli ha anche il senso dei limiti, il che lo rende critico nei confronti di coloro che affermano che "tutto è possibile" o credono che "più" sia automaticamente sinonimo di "meglio". (…)

Infine, il conservatore è interessato più al particolare che all’universale, o piuttosto sa che il secondo lo si raggiunge solo tramite la mediazione di una cultura particolare. Ama la diversità e comprende che quanto vale per gli uni non vale necessariamente per gli altri. Questo lo rende radicalmente ostile alle astrazioni universaliste, a un’uguaglianza concepita come sinonimo della medesimezza e all’idea di una storia della specie che si dirige a poco a poco verso l’unità mondiale.

Il conservatorismo è tuttavia sempre esposto al rischio di deviare, verso la reazione pura e semplice o verso il liberalismo. (…)

Il conservatorismo sa che la nostalgia non può costituire un programma e che difendere il valore del passato è cosa ben diversa dall’immaginare un ritorno all’indietro. Il conservatorismo d’altronde, più che verso il passato, è orientato verso l’atemporale: ciò che da sempre conserva valore.

Si tratta dunque di mostrare l’intrinseca falsità e ipocrisia della cultura liberale, poiché da un lato essa si fa bella proclamando la ricchezza e la pari dignità di tutte le identità culturali, etniche, artistiche ecc., ma di fatto lavora alla loro omologazione e al loro radicale appiattimento nel grande calderone di una globalizzazione anonima e impersonale. E non potrebbe fare diversamente, visto che il liberalismo è la filosofia dell’avere e riduce di per sé ogni aspetto della vita alla sola dimensione economica: essere liberi, per i liberali, significa essere liberi di possedere e di fare l’uso che si vuole della proprietà, senza alcuna remora nei confronti del corpo sociale; e le leggi intrinseche dell’accumulazione capitalista, che conducono alla concentrazione dei grandi monopoli finanziari, esigono che l’intera umanità sia ridotta a una massa di produttori consumatori, che il sistema cerca di pagare sempre di meno e di spingere ad acquistare sempre di più (un’equazione impossibile, come capirebbe anche un bambino: ma tali sono le dinamiche proprie dell’usura spinta oltre qualsiasi limite, come sta avvenendo). Di contro alla falsa celebrazione liberale delle diversità, si apre quindi uno spazio affinché una diversa proposta filosofica si ponga come l’autentica custode dei valori della identità e della diversità, non nel segno della chiusura e dell’isolamento (come vorrebbe la propaganda liberale, in un’ottica di terrorismo psicologico e di criminalizzazione del dissenso), ma nel segno della collaborazione e della interazione positiva fra soggetti diversi, ciascuno dei quali conscio e fiero di quel che è, con tutte le sue tradizioni e le sue specificità, che ne hanno fatto ciò che al presente è, proprio come la storia familiare di una persona spiega ciò che essa è diventata nel corso della sua vita. Infatti l’identità serve a poco, se non è accompagnata dalla piena consapevolezza di sé: in altre parole, quel che conta non è soltanto essere, ma sapere di essere; mentre nell’ottica liberale conta unicamente il possedere e, anzi, bisogna scordarsi di essere, perché chi ha una forte coscienza di sé non si lascia facilmente manipolare e condurre ad agire in maniera contraria ai suoi veri bisogni. Ora, nella società liberale è proprio questo che avviene: gli individui, spossessati della propria identità e della coscienza di sé, sono ridotti a un gregge anonimo che adotta un sistema di vita radicalmente contrario ai veri bisogni della persona: un esercito di lemming in folle corsa verso il margine del precipizio.

Alain De Benoist individua nel conservatorismo la filosofia che si contrappone oggettivamene al liberalismo, in quanto custode naturale degli interessi comunitari, contro l’egoismo individualistico del pensiero liberale. La parola conservatore può piacere o non piacere; noi preferiamo il termine tradizionale: ma la sostanza del discorso è la stessa. Si tratta di proporre agli uomini della tarda modernità una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si trovano, che non sia un puro e semplice tornare indietro, bensì dare una risposta ai problemi del presente facendo ricorso ai tesori della tradizione. Non a caso i progressisti hanno fatto e fanno di tutto affinché si perda perfino la memoria del passato: gli urbanisti moderni, ad esempio, provano una gioia maligna nel demolire i vecchi edifici e i vecchi quartieri e nel dare ad essi un volto completamente nuovo, ispirato ai falsi valori dell’avere: valga per tutto l’esempio di Parigi, dove alcuni dei quartieri più caratteristici, come le Halles, sono stati distrutti per fare posto a nuovi centri direzionali caratterizzati da una straordinaria bruttezza e anonimità architettonica. E sempre su questa scia si pone la Piramide del Louvre, di fronte al venerando palazzo storico, oppure, spostandoci altrove, gli orrori modernisti delle archistar che marchiano a fuoco il paesaggio urbano delle capitali e delle principali città, non sono occidentali (e qui appunto si vede come la pestilenza della modernità liberale abbia ormai contagiato ogni angolo del globo terracqueo, anche dove esistono organismi politici non omologati all’Occidente). Non a caso abbiamo parlato di un marchio: gli architetti e gli urbanisti del Nuovo Ordine Mondiale sono tutti massoni e vogliono imprimere il loro marchio ideologico sul volto delle città, a volte nella maniera più esplicita, come nell’Aeroporto internazionale di Denver, nel Colorado, o mediante cerimonie d’inaugurazione di schietto significato esoterico, se non addirittura satanico, come per il Traforo del San Gottardo (cfr. i nostri articoli: Hanno scelto il diavolo per patrono e vogliono imporlo anche a noi, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 16/12/17; Il diavolo comincia a mostrarsi apertamente, il 19/01/18; È necessario riconsacrare il mondo a Dio, il 15/04/18). Ora, fra tutte le filosofie tradizionali, la sola che possiede la capacità di porsi alla guida di un processo di riscatto e di rinascita dell’Occidente è quella cristiana, che affonda le radici nella Tradizione con la lettera maiuscola, cioè in una realtà non umana, ma soprannaturale. È da lì che si deve ripartire, per dare un vero messaggio di speranza agli uomini di tutto il mondo…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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