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3 Gennaio 2020Quando si è adolescenti si leggono gli storici classici per la curiosità di conoscere le vicende dei popoli antichi, dei loro eroi, dei loro costumi, delle loro leggi e delle loro guerre: ed è così, con quello spirito, che abbiano divorato, dai quindici ai diciotto anni, sia i latini, Cesare, Sallustio, Tito Livio, Svetonio, Tacito, Ammiano Marcellino e gli scrittori della Historia Augusta, fino a Paolo Orosio e a Paolo Diacono; sia, soprattutto, i greci, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Polibio, Plutarco, Zosimo, Procopio. Quelle letture erano per noi così entusiasmanti che ci immergevamo in esse fino a perdere la nozione del tempo, proprio come se si fosse trattato di romanzi d’avventura o di resoconti di viaggi o navigazioni dei grandi esploratori del passato, e assai malvolentieri ce ne staccavamo quando giungeva il richiamo del pranzo, o per assolvere agli altri obblighi e alle varie necessità della vita quotidiana. Più tardi, divenuta la filosofia il centro dei nostri interessi, quegli stessi libri sono divenuti letteralmente una miniera di osservazioni sulla natura umana, rivelando un lato sino allora da noi poco considerato e aprendo squarci di riflessione sulla politica, sull’etica, sulla psicologia, sulla natura profonda del reale. Tutte cose alle quali, in precedenza, non avevamo prestato alcuna speciale attenzione, anzi, per dirla tutta, delle quali non avevamo neppure sospettato l’esistenza, come il proprietario di un campo il quale rivolga tutta la sua attenzione al raccolto di grano, perché ignora completamente che, sotto le zolle, qualcuno, così tanto tempo prima che se n’è perso anche il ricordo, ha nascosto, all’interno di anfore di terracotta, un inestimabile tesoro di gemme, di collane e monili d’oro, di pietre preziose d’ogni tipo. E la stessa scoperta ci è accaduto di fare per tutte le altre discipline: dalle scienze naturali, ad esempio con La vita delle api di Maurice Maeterlinck, all’astronomia, con I mostri del cielo di Paolo Maffei; per non parlare dei libri di matematica e di geometria. Ma, tornando agli storici antichi, con la scoperta della filosofia è cominciato il rinnovato saccheggio: quegli autori hanno rivelato di essere fonte di continue scoperte di ordine filosofico, mentre prima non li avevamo apprezzati se non per il loro valore di documenti delle vicende storiche. È ben vero che la saggezza romana soleva ripetere che historia magistra vitae, la storia è maestra di vita (Cicerone, De oratore, II, 9,36), ma è un fatto che quell’affermazione ha sempre incontrato pareri discordi. Accolta e lodata da molti, è stata respinta sdegnosamente da altri, secondo i quali gli uomini non imparano mai nulla dalla passata esperienza e, proprio come dei ragazzi inesperti e impulsivi, sono condannati a ripetere a loro volta gli stessi errori dei padri, e a nulla vale che questi ultimi li mettano in guardia e narrino loro le proprie esperienze e ciò che da esse hanno imparato.
Ebbene, c’è una pagina di Polibio di Megalopoli (c. 203-121 a.C.) relativa alle guerre macedoniche, nella quale lo storico greco si sofferma sul risvolto umano della sorte di alcuni suoi connazionali, specialmente due fratelli di Rodi, Dinone e Poliarato, i quali, avendo avviato trattative segrete con il re Perseo, quando la guerra si risolse a favore di Roma si videro scoperti e posti di fronte alle loro responsabilità. Per Polibio quello era il caso classico nel quale l’unica soluzione accettabile è il suicidio: poiché la loro sorte era segnata, a che scopo tergiversare e mostrare a tutti lo spettacolo di un vile attaccamento alla vita? Per gli antichi, un uomo degno di questo nome non può sopravvivere alla disfatta della propria causa, né deve gettare nel fango la propria dignità, cercando di salvarsi ad ogni costo: essi erano convinti che la vita umana non è un valore assoluto e irrinunciabile, e che vi sono circostanze, come questa, nelle quali non solo è lecito, ma è doveroso togliersela, onde custodire un bene più grande: la propria dignità. Così la pensavano un po’ tutti, a Roma e fra i nemici di Roma (si pensi al suicidio di Annibale, pochi minuti prima che i romani lo catturassero), e tanto gli stoici che gli epicurei: come dimenticare, ad esempio, lo sdegnato denique vivunt di Lucrezio, nel De rerum natura, riferendosi a quelli che, pur tormentati da cento mali fisici e morali, esitano tuttavia a togliersi la vita, mostrando un indegno attaccamento nei suoi confronti? Ne abbiamo già parlato (cfr. i nostri articoli: Rileggendo Lucrezio l’uomo è un assurdo gettato a caso in attesa del nulla?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/07/08 e ripubblicati su quello dell’Accademia Nuova Italia il 21/11/17; e Lucrezio vuol liberare l’uomo dalla paura della morte: ma ci riesce?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/17). La stessa idea era presente in tutte le altre culture antiche: pensiamo al re giudeo Saul, che si getta sulla propria spada per non cadere vivo nelle mani dei vittoriosi Filistei (sebbene nella Bibbia siano presenti due versioni differenti, in una delle quali egli cade ucciso per mano di un Amalecita); oppure a Decebalo, il re dei Daci che, sconfitto da Traiano, per non cadere prigioniero e tradotto a Roma, ove comunque sarebbe stato certamente giustiziato, si toglie la vita tagliandosi la gola con un pugnale, come è narrato da Cassio Dione e come si può tuttora vedere nei realistici rilievi della Colonna Traiana.
Scrive, dunque, Polibio nelle sue Storie (XXX, 6-9; traduzione di Carla Schick, Milano, Mondadori, 1955, 1979, vol. 3°, pp. 188-192):
6. Attirammo già in precedenza l’attenzione dei lettori sul comportamento di Dinone e Poliarato: essendo accaduti gravi sconvolgimenti non solo presso i Rodi, ma anche presso quasi tutti gli altri Stati, sarebbe opportuno giudicare i criteri di governo di ogni città, per vedere chi abbia seguito una condotta ragionevole, e chi invece non abbia compiuto il suo dovere. Con il loro esempio davanti agli occhi gli uomini futuri in circostanze simili potranno seguire il cammino migliore ed evitare gli sbagli dei loro predecessori, in modo da non violare come quelli il loro dovere proprio alla fine della vita e rendere così vane anche le loro benemerenze precedenti. (…)
7. (…) In Rodi, a Cos e in molte altre città alcuni fautori di Perseo osarono parlare presso i loro concittadini a favore dei Macedoni e contro i Romani, per indurli ad allearsi cin Perseo, ma non riuscirono nel loro intento. I più illustri fra costoro erano a Cos i due fratelli Ippocrito e Geomedonte, a Rodi Dinone e Poliarato.
8. Essi si comportarono in modo del tutto biasimevole: benché i loro concittadini fossero tutti testimoni delle loro azioni e dei loro discorsi, benché i loro scritti — sia quelli che essi avevano mandato sia quelli che avevano ricevuto da Perseo — fossero stati intercettati e resi noti, benché fossero stati catturati i messaggeri inviati da entrambe le parti, essi non seppero cedere e togliersi di mezzo, ma rimasero incerti. Così insistendo nell’amare la vita benché avessero perduto ogni speranza, essi distrussero anche la fama di audacia e di coraggio che si erano precedentemente procurata, e non lasciarono ai posteri possibilità alcuna di compassione e di indulgenza; denunciati infatti dai loro stessi scritti e dai loro incaricati, apparvero non solo disgraziati, ma addirittura impudenti. Un certo Toante era stato più volte inviato in Macedonia da Dinone e Poliarato; costui quando il corso degli eventi mutò, conscio di quanto aveva fatto, spaventati si ritirò a Cnido; imprigionato dagli abitanti dell’isola e richiesto dai Rodi, egli ritornò in patria e quivi costretto dai tormenti confessò tutto; le notizie che egli diede apparvero perfettamente conformi a quelle contenute negli scritti intercettati e nelle lettere inviate da Perseo a Dinone e viceversa. Vi è dunque ragione di domandarsi come mai Dinone abbia continuato a vivere e abbia osato mostrarsi così vile.
9. Poliarato poi superò di gran lunga Dinone in stoltezza e viltà; avendo Popilio ordinato al re Tolemeo di mandare a Roma Poliarato, il re non obbedì, ma preferì per rispetto della sua patria e di Poliarato stesso rimandarlo a Rodi, poiché anche lì egli era stato richiesto. Egli fece dunque allestire una imbarcazione e la affidò a un suo amico di nome Demetrio; scrisse e pure ai Rodi per informarli della compiuta spedizione. Poliarato, approdato durante il viaggio a Faselide, formulato non so quale piano, prese i rami di ulivo insegna dei supplici e si rifugiò nel pubblico asilo. Se qualcuno gli avesse chiesto le sue intenzioni, sono convinto che non avrebbe saputo che cosa dire: se egli desiderava ritornare in patria, che bisogno aveva dei rami di ulivo? I suoi accompagnatori avevano proprio l’incarico di ricondurlo a Rodi. Se egli voleva andare a Roma, avrebbe dovuto farlo per necessità, anche contro i suoi desideri? Che altro partito gli rimaneva? Non esisteva altro luogo nel quale egli potesse rifugiarsi. I Faseliti inviarono ambasciatori a Ridi per invitare gli isolani a mandare a prendere Poliarato; saggiamente i Rodi mandarono una nave scoperta che lo conducesse in patria, ma in realtà proibirono al comandante della nave di accettare a bordo Poliarato, perché già precedentemente essi avevano inviato da Alessandria alcuni loro incaricato che lo accompagnassero a Roma. Quando la nave giunse a Faselide, Epicare che ne era il comandante non volle accogliere a bordo Poliarato; Demetrio, che era stato scelto dal re come sua scorta, gli ordinò di partire salpando di lì; i Faseliti inoltre aggiungevano le loro insistenze nello stesso senso, perché temevano di incorrere in qualche accusa da parte dei Romani; colpito da tutto ciò, Poliarato finì con l’imbarcarsi di nuovo insieme a Demetrio. Mentre salpavano però con un pretesto, riuscì di nuovo a fuggire a Cauno dove supplicò i cittadini di soccorrerlo. Anche questi però lo respinsero perché erano stati assoggettati dai Rodi; egli mandò allora un messaggio ai Cibirati, pregandoli di accoglierlo e di mandargli una scorta: egli aveva appoggi in quella città, perché aveva allevato presso di sé i figlioli del tiranno Pancrate. I Cibirati diedero ascolto alle sue preghiere e fecero quanto egli chiedeva, ma arrivato a Cibira egli procurò a se stesso e a quei cittadini un imbarazzo ancora maggiore di quello nel quale aveva posto ai Faseliti. Essi non osavano infatti tenerlo presso di sé per timore dei Romani, né potevano mandarlo a Roma perché, vivendo esclusivamente nell’entroterra, non avevamo alcuna pratica della navigazione. Furono dunque costretti a mandare ambasciatori a Rodi e al proconsole romano in Macedonia, chiedendo di venire a prendere Poliarato. Lucio rispose ai Cibirati di custodire con cura Poliarato e di condurlo a Rodi, ai Rodi di scortarlo per mare, perché giungesse con sicurezza nel territorio dei omani Sia i Cibirati che i Rodi obbedirono agli ordini del proconsole e in questo modo Poliarato fu condotto a Roma dopo aver reso a tutti note a tutti la sua stoltezza e la sua viltà ed essere stato consegnato non solo dal re Tolemeo, ma anche dai Faseiliti, dai Cibirati, dai Rodi. Per quale ragione ho insistito così a lungo su Poliarato e Dinone? Non certo per infierire contro di loro nella disgrazia — questo sarebbe stato riprovevole — ma perché, resa nota la loro stoltezza, anche gli altri apprendano come si debbano comportare se si troveranno in circostanze analoghe.
A noi moderni, naturalmente, i disperati tentativi di questi due sventurati fratelli, e specialmente di Poliarato, per ritardare con ogni espediente la fine inevitabile, benché appaiano inutili fin dal principio, non suscitano gli stessi sentimenti che prova Polibio e con lui tutti, o quasi tutti gli antichi e perfino, probabilmente, un Seneca, per altri aspetti così pietoso e lontano dalla mentalità di allora, visto che loda il suicidio di un gladiatore che volle privare il pubblico della gioia malvagia di vederlo morire nell’arena, come un animale da combattimento. Infatti anche il pietoso Seneca, a proposito del suicidio dettato da ragioni di dignità personale, dichiara con estrema fermezza, nella settantesima epistola delle Lettere a Lucilio: Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere (Non sempre, lo sai, è giusto conservare la propria vita; vivere non è un bene di per sé, ma lo è il vivere bene). E se anche Seneca la pensa così, possiamo star certi che tale è l’opinione pressoché universale degli antichi, a cominciare dai filosofi e dagli intellettuali (vedi i nostro articoli: La fragilità e la grandezza dell’uomo nella visione filosofica di Seneca, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il01/02/12 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/11/17; e Il razionalismo pessimista di Seneca è frutto d’un naturalismo radicale, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 10/11/17). Per noi moderni, parlando in linea generale, la vita è un valore assoluto, irrinunciabile: il suicidio dei generali giapponesi nel 1945, così come quello di alcuni tedeschi, come Hitler, Himmler, Goebbels e Göring, e di alcuni italiani, come Giovanni Preziosi e sua moglie, sempre nelle stesse circostanze, cioè in seguito alla sconfitta dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, appare come qualcosa di strano e di anacronistico, perfino di biasimevole (cfr. il nostro articolo: È stata eroica, la morte di Adolf Hitler?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 26/11/17). Eppure i moderni considerano normale sacrificare milioni e milioni di vite in guerra, o far perire decine e centinaia di migliaia di persone innocenti sotto i bombardamento aerei. Inoltre, essi considerano normale, almeno in Occidente, praticare milioni di aborti e ora si apprestano a varare leggi favorevoli all’eutanasia. Da che cosa viene, ai moderni, l’idea del valore assoluto della vita, indipendentemente da qualsiasi circostanza, salvo nei casi che abbiamo detto e salvo la volontà di evitare fastidi o dolori ? Senza alcun dubbio, dal cristianesimo.
Tuttavia, la modernità ha ripudiato il cristianesimo; inoltre, piaccia o non piaccia ai cattolici progressisti e ai preti modernisti, il cristianesimo non ha mai insegnato che la vita umana è un valore assoluto: altrimenti, come avrebbe potuto esaltare il sacrificio dei martiri, che rinunciavano con entusiasmo alla loro vita per restare fedeli al Signore Gesù Cristo? Se la vita fosse un valore assoluto, gli antichi cristiani non avrebbero esitato a gettare qualche grano d’incenso davanti alla statua dell’imperatore romano, e così avrebbero avuto salva la loro. Ma non c’è bisogno di andare indietro di quasi duemila anni: basta guardare a quel che succede oggi, nel terzo millennio, in tanti luoghi del mondo, e specialmente dell’Africa e dell’Asia, per vedere che i martiri ci sono ancora, e che si sacrificano per la stessa ragione di quelli antichi, anche se i cattolici europei non vogliono vederlo, né sentirlo, e nessuna autorità cattolica ha ricordato il massacro di cristiani avvenuto in Nigeria, mentre qui da noi ci si scambiavano i regali natalizi e si stappavano bottiglie di champagne per festeggiare l’anno nuovo.
Sia pure per motivi diversi quindi, tanto i pagani che i cristiani ponevano dei limiti al valore assoluto della vita umana: per i primi quel limite era costituito dalla dignità personale, per i secondi dall’intransigente fedeltà verso Dio, senza compromessi. Ma allora, come mai i moderni hanno modificato e stravolto la concezione cristiana, visto che anch’essi paiono considerare la vita come un bene assoluto, che va difeso a oltranza, tanto da provare orrore nei confronti della pena di morte (e Bergoglio, illegittimamente, lo ha scritto nero su bianco nel Catechismo, sovvertendo il Magistero di sempre), anche se non provano un simile orrore, come abbiamo già detto, quando la vita viene soppressa per ragioni di tipo edonistico, ossia perché è divenuta troppo faticosa o incomoda da portare o da accogliere? La ragione è presto detta: perché tutta la cultura moderna non è che una contraffazione e una storpiatura della cultura cristiana: le convinzioni dei moderni non essendo altro, come osservava acutamente G. K. Chesterton, che schegge impazzite di antiche verità cristiane, delle quali si è smarrito l’autentico significato.
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