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A proposito dell’ossessione moderna per la sicurezza

Il signor X sta camminando tranquillamente per una via della sua città, allorché, nello scendere dal marciapiedi, posa male il piede a terra, si sloga la caviglia e cade, escoriandosi anche una spalla. Ricoverato in ospedale, gli ingessano il piede e ciò lo obbliga a un periodo di convalescenza di quaranta giorni. Molto prima di riacquistare l’uso dell’arto, il signor X si consulta con il suo avvocato e poi sporge denuncia contro il Comune, accusandolo di non aver curato la manutenzione stradale e di essere scivolato a causa di una irregolarità del bordo del marciapiedi. Vuole un risarcimento di alcune migliaia di euro.

La signora Y va a fare la spesa in bicicletta tutti i giorni, pur essendo piuttosto anziana. Un giorno la ruota anteriore della sua bici va ad incastrarsi nella sede del binario della tranvia urbana ed ella cade rovinosamente; per miracolo non viene investita dalle automobili che transitano incessantemente lungo il viale, nell’intenso traffico dell’ora di punta. Riporta parecchie contusioni e la frattura di due costole. Su consiglio di un’amica, decide di sporgere querela contro l’amministrazione comunale e, per buona misura, contro la società di trasporti che ha fatto attrezzare le sedi stradali in modo da farvi transitare i tram elettrici.

Il signor Z sta tornando a casa dal luogo di lavoro e percorre una strada di collina fiancheggiata da fitti boschi; è sera e non ci sono lampioni a illuminare il buio del crepuscolo invernale. A un tratto un cervo sbuca dagli alberi e attraversa la strada correndo, un attimo prima che l’automobile giunga alla sua altezza: l’impatto, fortissimo, è inevitabile. L’animale rimane ucciso all’istante, ma anche il mezzo subisce non pochi danni: va a finire nel fosso e si fracassa tutta la fiancata; è una fortuna che il conducente ne esca illeso, sia pure spaventatissimo. Non passano due giorni ed ecco una querela in piena regola piovere sulle autorità comunali e regionali, sull’A.N.A.S. e sulla Guardia Forestale, tutte motivate dalla stessa ragione: se il cervo ha attraversato la strada all’automobile del signor Z, la colpa deve essere per forza di qualcuno; e visto che ragionevolmente non la si può scaricare sulla povera bestia, ignara del codice della strada, qualcun altro dovrà risponderne e, naturalmente, ripagare i danni causati dal sinistro.

Anche per la tragica morte del giovane H i suoi genitori hanno bisogno di un colpevole. Il ragazzo è andato a sbattere a tutta velocità contro un abete ed è rimasto ucciso sul colpo: stava sciando fuori pista, perché attirato dall’ebbrezza del proibito e dal fascino del pericolo. E benché ci fossero dei cartelli che mettevano chiaramente in guardia contro i rischi che incombono su chi lascia la pista e benché, con o senza cartelli, tutti gli sciatori del mondo sanno che quella è una cosa da non fare, o che si fa a proprio rischio e pericolo, quegli affranti genitori non hanno rinunciato a intentare una causa contro i responsabili della stazione sciistica, non tanto per ottenere i soldi, forse, ma per una sorta di ricerca della "giustizia" che plachi i loro sensi di colpa. Il loro legale sostiene che i cartelli di pericolo non erano abbastanza visibili e che non erano scritti nelle principali lingue europee (la famiglia H è tedesca): evidentemente, per lui la figura di uno sciatore all’interno di un cerchio rosso e con sopra una striscia obliqua, sempre rossa, non era un segnale di pericolo sufficientemente chiaro ed esplicito.

Poi c’è il caso, se possibile ancor più drammatico, della bambina K, annegata in due metri d’acqua nella piscina dell’albergo presso il quale trascorreva le vacanze insieme ai suoi genitori. Una stranissima fatalità ha voluto che il piede le restasse incastrato nel bocchettone dello scarico e che il pronto intervento del bagnino per liberarla da quella imprevista e pericolosa situazione non sia stato sufficiente a salvarle la vita: quando l’hanno portata sul bordo della piscina, la ragazzina aveva già smesso di respirare. Anche in questo caso, pronta azione legale della sua famiglia contro la proprietà dell’albergo perché un simile incidente non doveva accadere e se è invece accaduto, vuol dire che la piscina non era a norma e che quella tragedia si sarebbe potuta evitare.

Potremmo proseguire a lungo con questo tipo di situazioni. Dai casi nei quali la responsabilità degli incidenti è decisamente dubbia, come quello della bambina che è morta perché, mentre si trovava all’interno di una chiesa coi suoi compagni di catechismo, si è aggrappata all’acquasantiera e la pesante vasca di marmo le è rovinata addosso, si arriva fino a quelli nei quali essa è quanto meno cervellotica, per non dir pretestuosa, come quando un turista si è visto asportare la mano da un orso al quale offriva un panino all’interno d’un parco nazionale, o la visitatrice di un giardino zoologico ha subito la stessa sorte dopo aver introdotto la mano con una banana oltre le sbarre della gabbia di un panda, sempre a dispetto dei cartelli che invitano le persone a non avvicinarsi agli animali selvatici e non tentar di familiarizzare con essi, ma soprattutto a dispetto del più elementare buon senso e della più ovvia prudenza. E c’è perfino chi vuol fare causa al Comune, o al C.A.I,, o alla direzione del Parco naturale, se ha avuto un incidente durante un’arrampicata in montagna: se c’è stata una slavina, o se una frana di ghiaccio e pietre si è abbattuta giù da una parete, la colpa non è stata del caso e tanto meno della leggerezza o dell’imprudenza dei rocciatori, ma sempre e solo di qualcun altro; e non potendo trascinare in tribunale le condizioni meteorologiche, e neppure Iddio in persona, non resta altro da fare che intentare causa alle pubbliche autorità. Stessa cosa se dei ragazzi incoscienti o degli speleologi improvvisati si infilano in una grotta chiusa al pubblico, ma il cui accesso non è sbarrato, e magari proprio alla vigilia di un violento nubifragio, che in poche ore l’ha riempita d’acqua: la responsabilità di quel che è accaduto a quei ragazzi o a quelle persone adulte non è loro, per carità, ma di chi non ha segnalato il pericolo e non ha provveduto a far sì che l’ingresso della grotta fosse debitamente sigillato.

Inutile dire che la responsabilità delle pubbliche autorità esiste solo in un senso e non in entrambi: vale a dire che prevede solo diritti e nessun dovere per il singolo cittadino, da un lato, e solo doveri e nessun diritto per le pubbliche autorità, dall’altro. Se, per esempio, un maldestro alpinista viene a trovarsi in difficoltà e chiede aiuto, col telefonino, alle guardie forestali o al Soccorso alpino, ma poi, quando arriva l’elicottero, ha cambiato idea e pensa di potercela fare da solo, e rifiuta di essere soccorso, ciò rientra nei suoi diritti: e sia ben chiaro che il conto di due o tremila euro per l’uscita a vuoto dell’elicottero con tutto il personale, non lo pagherà di certo; perfino se quell’elicottero si è mobilitato per lui due o tre volte nell’arco di poche ore, perché le richieste di soccorso erano state più di una, e sempre dalla stessa persona. Né si creda che stiamo lavorando fantasia: anche questo fatto, come tutti gli altri, è realmente accaduto, la stampa ne ha parlato e come sia andata a finire non si sa, perché poi è sceso il silenzio ed è molto probabile che quel conto, alla fine, lo paghiamo noi, sotto forma di tasse, e non il tizio che dovrebbe pagarlo e che oltretutto, essendo un cittadino straniero (spagnolo, in questo caso), se n’è tornato a casa sua, da dove si guarda bene dallo scucire un solo centesimo per l’intervento che lui stesso, o sua madre, o comunque qualcuno del suo gruppo, avevano richiesto con accenti angosciati.

Il discorso di fa ancora più delicato quando si parla di sport. Un numero in costante crescita di persone è sempre più smanioso di mettere a repentaglio la propria vita mediante la pratica dei cosiddetti sport estremi, nei quali ciò che conta non è la sana e normale competizione per ottenere un risultato significativo dal punto di vista atletico, ma la ricerca esasperata di sensazioni forti, che facciano sgorgare l’adrenalina a mille, magari con lo scopo di immortalare se stessi col telefonino cellulare e di postare la propria immagine eroica sui social, per sbalordire il prossimo con la prova inoppugnabile del proprio ardimento e del proprio sprezzo del pericolo. E tuttavia, nello stesso tempo, si assiste sempre più spesso allo spettacolo di persone che intentano cause legali contro le società sportive presso le quali si allenano, loro o i loro figlioli; e addirittura di genitori che pretendono di trascinare in tribunale la presidenza della scuola frequentata dal loro pargoletto, esigendo un risarcimento salatissimo se il poverino, durante l’ora di educazione fisica, si è contuso un ginocchio o si è sbucciati la pelle del dito mignolo, magari mentre giocava con gli attrezzi della palestra all’insaputa dell’insegnante e sottraendosi intenzionalmente alla sua sorveglianza. Né ci si discosta da un tale atteggiamento allorché si tratta di sport "pesanti", come il rugby o il pugilato, nei quali si sa bene che qualche incidente può capitare, e anzi bisogna metterlo in conto prima ancora di cominciare a praticarlo: anche in quel caso il reclamo è assicurato alla prima lussazione.

Ben diverso era l’atteggiamento degli antichi nei confronti dello sport e in genere del pericolo fisico e degli incidenti che possono capitare a chiunque esce di casa, cammina, corre, cavalca, nuota o semplicemente si reca al lavoro per guadagnarsi il pane quotidiano. Uno degli incontri di pugilato più famosi della letteratura greca è quello fra Amico, re dei Bebrici, e l’eroe Polluce. Ne parla Apollonio Rodio nel poema Le Argonautiche; ma a noi piace rievocarlo attraverso una pagina dello scrittore e poeta britannico, di origini tedesco-irlandesi, Robert Graves (Londra, 1895-Deià, Spagna, 1985) grande filologo e difensore della bellezza classica contro la bruttezza dell’arte moderna, piegata ad interessi economici e politici (da: R. Graves, I miti greci; titolo originale: Greek Myths, 1955; traduzione dall’inglese di Elisa Morpurgo, Il Giornale, 1982, vol. 2, pp. 546-547):

In seguito l’"Argo" toccò l’isola di Bebrico, anch’essa nel mar di Marmara, dove regnava l’arrogante re Amico, un figlio di Posidone. Codesto Amico si vantava d’essere un gran pugile e usava sfidare gli stranieri che invariabilmente venivano sconfitti; ma se rifiutavano di battersi, Amico senza tropi complimenti li gettava in mare dall’alto di una roccia. Amico andò incontro agli Argonauti e negò loro cibo e acqua se non si fossero misurati con lui. Polideuce, che aveva vinto le prove di pugilato ai Giochi Olimpici, subito si fece avanti e infilò i guanti di corregge che Amico gli offriva. Amico e Polideuce iniziarono il pugilato in una valletta fiorita, non lontano dalla spiaggia. I guanti di Amico erano irti di punte di bronzo, e i muscoli delle sue braccia pelose parevano scogli coperti di alghe. Egli era di gran lunga il più pesante e il più giovane; ma Polideuce, combattendo con cautela all’inizio e schivando le cariche brutali dell’avversario, ben presto si rese conto dei unti deboli della sua difesa e riuscì a fargli sputare sangue dalla bocca tumefatta. Dopo una prolungata serie di assalti durante i quali nessuno dei due pugili diede segno di stanchezza, Polideuce infranse la guardia di Amico, gli appiattì il naso con un potente sinistro e riuscì a piazzare un paio di uncini alla mascella. Reso furioso dal dolore Amico agguantò il pugno sinistro di Polideuce e lo tenne fermo mentre vibrava un destro. Ma Polideuce si scostò bruscamente, evitò il colpo e rispose con un destro all’orecchio, seguito da un montante così irresistibile che fracassò la tempia di Amico e lo uccise all’istante.

Il lettore moderno potrebbe pensare che la tragica conclusione dell’incontro di pugilato fra Amico e Polluce sia un evento eccezionale dovuto alla particolare drammaticità del contesto, quello di un re inospitale e brutale, che similmente a Polifemo (altro figlio di Posidone) ha attirato su di sé il castigo divino; ma non è affatto così. L’eventualità che simili incontri sportivi si concludessero con la morte di uno degli antagonisti era tutt’altro che remota, specie se l’incontro avveniva in un clima di competizione particolarmente acceso. Basta leggere, nell’Iliade, la narrazione dell’incontro di pugilato che si svolge in occasione dei funerali di Patroclo, offerti da Achille; oppure, nell’Eneide, quello che ha luogo durante le cerimonie funebri in memoria di Anchise, volute da Enea, per constatare come solo per miracolo il furore del combattimento non divenisse causa di ulteriori lutti. Il cristianesimo ha poi ingentilito i costumi e ha fatto abolire, ad esempio, i crudeli "giochi" del circo, dei quali si dice che in una volta sola, al tempo dell’imperatore Claudio, venissero mandati al macello 20.000 gladiatori. Ma se il senso (e quindi il valore) della vita era subordinato, nel mondo antico, all’affermazione dell’aretè del guerriero, cioè la dimostrazione della sua eccellenza in guerra, mentre nella civiltà cristiana discendeva dall’adeguarsi alla volontà divina, nella modernità le cose sono al tempo stesso più semplici e più complesse. Più semplici, perché la principale ideologia moderna, il liberalismo, postulando la completa libertà dell’uomo e recidendo, di fatto, il suo legame con la dimensione sopranaturale, ossia naturalizzandola radicalmente, rende di necessità la vita umana più fragile ed esposta anche e soprattutto ad autodistruggersi con l’aborto, l’eutanasia, la promiscuità sessuale e la libertà di drogarsi. Più complesse perché l’orrore della morte, in un orizzonte del tutto privo di trascendenza, genera una reazione isterica di rifiuto: ed ecco esasperarsi la rivendicazione del diritto alla vita, non solo, ma anche alla sicurezza, sempre e comunque. Allora bisogna mettere ogni cosa in sicurezza, perfino le montagne. Il paradosso è che frattanto le cose più intime, dai risparmi all’informazione alla stessa libertà di pensiero, gli vengono sottratte in silenzio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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