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Manzoni o la riscoperta del dolore come redenzione

L’autunno, nonostante il fascino dei suoi colori, è una stagione malinconica perché è povera; ed è povera perché ha donato tutte le sue ricchezze. Questa potente intuizione di Cesare Angelini aiuta a comprendere perché l’autunno è lo sfondo di tanta parte della vicenda dei Promessi Sposi e perché così spesso non solo i personaggi del romanzo, ma anche la voce diretta del Manzoni intervengano per alludervi o richiamarne la presenza.

Scriveva il critico letterario, scrittore e sacerdote Cesare Angelini (Albuzzano, Pavia, 1886-Pavia, 1976) nel suo notevole saggio Manzoni, pubblicato nella collana I grandi Italiani diretta da Luigi Federzoni (Torino, UTET, 1942, pp. 126-128):

Piuttosto ogni pagina è trattenuta dentro un temperato lume d’autunno: dalla "passeggiata" di don Abbondio ("Tornava, bel bello, verso casa, la sera del 7 novembre…") il MEMORABILE AVVENIMENTO che apre il romanzo, alla saluta di padre Cristoforo alla casetta dov’era aspettato ("UN VENTICELLO D’AUTUNNO staccando dai rami le foglie appassite del gelso…) fino al "E VENNE L’AUTUNNO…" delle vicende ultime. Se il poeta ha da fare un rimando di tempo, è all’autunno ("FINO ALL’AUTUNNO del seguente ano, rimasero tutti…"); oppure: "la mortalità epidemica si prolungò FIN NELL’AUTUNNO"). Se richiama un temporale, è quello d’autunno ("COME DOPO UN TEMPORALE D’AUTUNNO si vede dai palchi fronzuti d’un grand’albero uscire da ogni parte gli uccelli che vi si erano riparati…"); se si nomina la brezza, è "PIÙ CHE AUTUNNALE"). E quando, per i buoni uffici del Cardinale, Lucia fu accolta in casa di donna Prassede e dovette separarsi dalla madre, "le donne si separarono, promettendosi a vicenda di RIVEDERSI IL PROSSIMO AUTUNNO". Quel cielo di Lombardia "così bello quando è bello, così splendido, così in pace", e che torna a lodare nel mezzo d’una affaccendata conversazione ("Chi lodava il cielo di Monza…"), è cielo di autunno, sentito con l’allegrezza piena e raccolta d’un lombardo. Amore di Lombardia, che si riconosce nella cortesia del contadino offrendo un po’ del suo piatto: "Volete restar servito?"; o nella "bellezza molle e maestosa che brilla nel sangue" delle donne. Cielo tutto suo e terra e gente, poiché entrati nel suo ordito sentimentale, nella sua illogorabile melodia.

Anche la luna, vista dalla "sodaglia" dell’Adda, è "in un canto, pallida e sena raggio" e "spicca nel campo immenso d’un bigio ceruleo": la luna fina, sognata, tacita, come in Virgilio. E simile è l’altra alba, quella dell’Innominato, quando "le montagne eran mezzo velate di nebbia, e il cielo tutto una nuvola cenerognola". Ritorna il "temperato albor" del coro di "Ermengarda".

In questa rinuncia ai quadri delle stagioni esplosive e tropo contente, più che un dato cronologico — al quale l’artista dà così poca importanza — è un fatto psicologico. Per il Manzoni, così atto a rendere gli stati d’animo accorati e la poesia meditativa, la bellezza della vita nasce dalla presenza del dolore e da tutto un misterioso impreziosire di rinunce e d’umiltà: a rappresentare le quali, nulla di più adatto dell’autunno il cui aspetto contemplativo si scioglie in un patimento rassegnato e consapevole: quasi sublimazione del sentimento. Senza dire che è l’aderente interpretazione di questa nostra terra lombarda, di cui l’autunno è il colore fondamentale, psicologico, quasi il temperamento religioso. L’autunno è nostro. Accanto alla rassegnazione della povera gente, il Manzoni ha voluto onorare il paesaggio umiliato, mite, la stagione povera perché ha tutto donato. Ed è proprio un beneficio del Cristianesimo questi risolvere anche la nostra tristezza in una forma di pacata letizia: "pacata in suo contegno". Col romanzo il Manzoni segna un progresso umano, religioso. Dopo di lui, che ci ha rivelato artisticamente la cristiana consapevolezza del dolore, col suo mondo d’equilibrio e di rassegnazione, nella vita c’è una consolazione di più. Abbiamo parlato di rivelazione. E la pienezza religiosa della parola non è mai stata così bene invocata come qui. Manzoni è una seconda rivelazione dei valori cristiani.

Ora, la genialità della lettura critica di Cesare Angelini è quella di aver colto il nesso segreto, ma a suo modo chiarissimo, esistente fra la stagione autunnale, con le sue tonalità calde e malinconiche, e la chiave di lettura che Manzoni offre della realtà esistenziale, sempre in tono sommerso e pacato, come sacrificio, sublimazione, rinuncia e umiltà. Insomma è merito del Manzoni aver colto una segreta corrispondenza fra l’estetica dell’autunno e l’etica della vita cristiana: con una lucidità e una felicità espressiva che trova corrispondenza in pochi altri autori europei fra i quali, in particolare, secondo noi, Kierkegaard, più filosofo che scrittore, eppure, a suo modo, anche lui capace di squarci di altissima poesia, e anche lui persuaso, benché luterano (ma di un luteranesimo che va ben oltre Lutero e che per la sua sete ardente di assoluto si avvicina semmai, come notava Cornelio Fabro, al cattolicesimo), che lo spirito di rinuncia e la sublimazione delle passioni sono la via d’accesso privilegiata al mistero del divino. E come l’autunno è povero perché ha donato tutto quel che possedeva, sino all’ultimo frutto e all’ultima foglia, così la vita del cristiano, quando è coerente e pienamente fiduciosa in Dio, è povera, ha le mani vuote, perché si è svuotata di ogni brama e di ogni desiderio terreno, animata e sostenuta solo da un bruciante desiderio di ciò che non si trova quaggiù; e quindi i colori forti e vivaci dell’estate non si addicono alla tonalità della sua anima, né il ridestarsi sensuale della primavera, e neppure, anche se per ragioni opposte, la gelida immobilità dell’inverno.

Ma la lettura manzoniana dell’Angelini non si ferma qui. Egli va assai oltre e giunge a vedere nell’autore dei Promessi Sposi lo scrittore che sa dare alla parola poetica, grazie alla sua visione autenticamente cristiana della vita, nella quale una parte centrale ha l’accettazione paziente ed eroica del dolore, insieme alla consolazione che viene dalla fede, il portatore quasi di una seconda rivelazione dei valori cristiani. E nella piena accettazione del dolore come parte essenziale della vita terrena, Manzoni fa compiere ai suoi lettori e a tutta la società del suo tempo un autentico progresso: progresso ben diverso da quello, puramente materiale, che era stato posto a fondamento dell’ideologia illuminista e che di nuovo, col positivismo, sarebbe tornato a sedurre le menti e gli animi, facendo intravedere la fallace promessa di chi sa quali magnifiche sorti e progressive. Certo, nulla di nuovo, in realtà; nulla che non sia già nel Vangelo: eppure gli uomini se n’erano scordati, ed è merito del Manzoni averli richiamati all’autentico significato della vita cristiana, nella quale la consapevolezza del dolore non è qualcosa di estrinseco e di facoltativo, ma è il cuore stesso del messaggio evangelico: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua (Luca, 9, 23). Ecco, allora, che la preferenza estetica accorata alla stagione autunnale, ai suoi colori, alla sua malinconia, al generoso donarsi di se stessa, non è solo e unicamente una scelta, appunto, estetica, ma è il riflesso di un orientamento spirituale verso l’umile disponibilità al sacrificio che caratterizza la vota del cristiano: In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna (Giovanni, 12, 24-25). Il guaio è che ce ne siamo scorati, e questa volta in maniera ancor più insidiosa e difficilmente riconoscibile: perché il clero del terzo millennio ha stravolto il significato delle parole di Cristo al punto tale perfino i peccati più abominevoli sono diventati qualcosa di lecito e che torva piena accoglienza nella sedicente chiesa cattolica. Come interpretare diversamente il fatto che il cardinale Schönborn, ad esempio, ogni annoi metta a la cattedrale di Santo Stefano a Vienna, a disposizione di osceni e ripugnanti spettacoli a favore del transessualismo e della sodomia? E che un libro appena pubblicato dalla Pontificia Commissione Biblica, sollecitato e sponsorizzato da Bergoglio in persona, abbia distorto il racconto biblico sulla distruzione di Sodoma, presentando il peccato di quegli abitanti come mancanza di ospitalità e ostilità verso gli stranieri, oltretutto lanciando l’ennesimo attacco avvelenato contro quelle legittime forze politiche italiane che si oppongono all’immigrazione selvaggia? E come giudicare che la rivista simbolo dei teologi progressisti, Concilium, prendendo lo spunto dalle blasfeme esibizioni di Conchita Wurst nella cattedrale di Santo Stefano, abbia dedicato un intero numero alla teologia queer, sottotitolo: diventare il corpo queer di Cristo? Si può scendere più in basso di così?

Ora, tornando a Manzoni, ci sia concesso fare un confronto con un altro scrittore ottocentesco che ha sentito il fascino dolcemente malinconico dell’autunno: Gustave Flaubert, Ecco come il narratore francese descrive quel fascino all’inizio del suo breve romanzo autobiografico Novembre, un’opera giovanile non molto conosciuta dal grande pubblico, apparsa nel 842, ma tradotta in italiano solo un secolo dopo, nel 1945 (da: Flaubert, Novembre. Frammenti di uno stile qualsiasi; titolo originale: Novembre. Fragments d’un style quelonque; traduzione dal francese di Anna Maria Spekel, ne I capolavori di Gustave Flaubert, a cura di Carlo Bo, Milano, Ugo Mursia & C., 1956, pp. 3-4):

Mi piace l’autunno; triste stagione che si addice ai ricordi.

Quando gli alberi hanno perso le foglie, e nel cielo, al crepuscolo, si attarda ancora quel colore fulvo che dora l’erba appassita. È dolce osservare il tramonto di tutto ciò che un tempo ardeva in noi.

Sono rientrato ora dalla passeggiata nei prati deserti, in riva ai fossi gelidi dove si specchiano i salici; il vento faceva sibilare i loro rami spogli; a volte taceva, poi d’un tratto riprendeva, allora le foglie rimaste sulle fratte tremolavano ancora, l’erba rabbrividiva piegandosi verso terra; tutto sembrava diventare più pallido e freddo; sull’orizzonte il disco del sole si perdeva nel colore biancastro del cielo e irradiava intorno poca vita moribonda. Sentivo freddo e avevo quasi paura.

Mi sono riparato dietro un monticello erboso, il vento era caduto.

Non so perché, mentre mi trovavo lì, seduto per terra, senza pensieri, osservando in lontananza il fumo innalzarsi dalle lontane capanne mi è apparsa, simile ad un fantasma, la mia intera vita, e l’amaro profumo dei gironi trascorsi ha riaffiorato [sic] con l’aroma dell’erba secca

E dei morti boschi; i miei poveri anni sono sfilati davanti a me come trascinati dall’inverno in una lamentevole tormenta; qualche cosa di terribile si agitava nel mio ricordo con maggior furia della brezza quando sospingeva le foglie per i calmi sentieri; una strana ironia li sfiorava e li muoveva per offrirmeli in spettacolo, poi tutti fuggivano via insieme e si perdevano in un cupo cielo.

Questa stagione è triste; si direbbe che la vita se ne vada con il sole, un brivido serpeggia nel cuore come sulla pelle, i rumori si spengono, gli orizzonti impallidiscono, tutto s’addormenta o muore. Poco prima guardavo le mucche rientrare, muggivano voltandosi verso il tramonto, il ragazzetto che le spingeva davanti a sé con un rovo tremava nel suo abituccio di tela; le mucche scivolavano sul fango scendendo lungo il pendio e schiacciavano le poche mele rimaste tra l’erba. Il sole gettava un ultimo addio dietro le colline che già svanivano, nella valle si accendevano le luci delle case e la luna, astro della rugiada, astro del pianto, già appariva tra le nubi e mostrava il suo pallido viso.

Che cosa si può dire di questo brano di prosa che sembra poesia? Letterariamente è perfetto, benché alquanto languido e decadente: ci sono qualche aggettivo e qualche similitudine di troppo, come la luna, astro della rugiada, astro del pianto, che par quasi presa da Marino, mentre tutta la pagina è pervasa da un profonda malinconia che ha qualcosa di estenuato e di dolcissimo. Il contenuto che lascia intravvedere è altrettanto patetico e introspettivo, non senza una vena di auto-compiacimento che forse non è destinato a piacere a tutti; ma c’è anche profondità, c’è anche originalità? Non oseremmo affermarlo; e pensiamo di poterne anche indicare la causa: il fatto che il punto di vista è del tutto umano e soggettivo. Ben diverso è il clima che si respira nei Promessi Sposi: qui la malinconia non è una posa, la solitudine non è un vezzo, il senso della fragilità delle cose umane non scaturisce da una claustrofobica immanenza, ma si alimenta al respiro possente dell’Assoluto. L’eroe manzoniano è pensoso e contemplativo, quasi malinconico perché sente che al fondo di ogni passione e di ogni esperienza ci sono la porta stretta della morte e il mistero della vita eterna: ed è questa consapevolezza, che resta perlopiù sullo sfondo, ma di cui è impossibile scordarsi, che conferisce alla vicenda la sua particolare pacatezza e la sua profonda serietà morale. La predilezione per l’autunno viene di qui: è la malinconia del seme che viene affidato alla terra per morire e poi rinascere: in mezzo, l’esperienza del dolore. Mentre la civiltà moderna, di cui Flaubert è il poeta, non sa dare una ragione allo scandalo del dolore, e resta così impietrita dal suo sguardo di Medusa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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