Come l’Inghilterra trattò gli alleati francesi nel 1940
22 Dicembre 2019
La cosa più necessaria: santificare la famiglia
25 Dicembre 2019
Come l’Inghilterra trattò gli alleati francesi nel 1940
22 Dicembre 2019
La cosa più necessaria: santificare la famiglia
25 Dicembre 2019
Mostra tutto

Un grave problema teologico: ci sono anime perse?

Esistono le anime malvagie? Esistono, cioè, delle anime costituzionalmente malvagie, che sono tali fin dall’inizio, e nelle quali, di conseguenza, è spenta, di fatto, la luce del libero arbitrio? Delle anime votate al male, bramose del male, incapaci di volere altro che il male, le quali, se potessero sfogare liberamene tutti i loro istinti, non farebbero altro che il male, traendo da ciò il loro massimo godimento? È una domanda sconvolgente, che dischiude uno spiraglio su un mistero abissale: mistero antropologico, morale, teologico. Poiché Dio, che è il Sommo Bene, ha creato ogni cosa per il bene, come è possibile che vi siano delle anime votate al male sin dal comcepimento? Il Peccato originale, infatti, rende ragione della concupiscenza umana, ossia dell’inclinazione delle anime verso il male anziché verso il bene, come voleva il piano divino e come vorrebbero le stese leggi di natura: della natura, beninteso, anteriormente alla ferita del Peccato originale. Il peccato personale, invece, consiste nell’assenso volontario dell’anima al male: assenso volontario che non sussisterebbe, qualora alcune anime fossero, per la loro e per l’altrui sventura, naturalmente malvagie. Bisogna dunque vedrei in esse uno "sbaglio" nel disegno della creazione? È impossibile, poiché Dio non fa sbagli. L’uomo fa sbagli; la macchina, talora, fa sbagli, quando non è stata costruita e programmata in maniera perfetta; ma Dio, per definizione, non può farne, poiché Egli è l’Essere perfettissimo, la cui Sapienza non conosce ombre, né ostacoli di sorta. Eppure, l’esperienza ci dice che, talvolta, ci s’imbatte in anime talmente sprofondate nel male, da dubitare che abbiano mai avuto la visione di qualcosa di diverso dal male; e talmente compiaciute in esso, da far pensare che quello, per loro, sia il bene, ovvero sia l’equivalente di ciò che è il bene per le altre.

Citiamo una pagina della sensitiva Rosemary Altea, tratta dal suo libro I segni dell’anima (titolo originale: Soul Signs. A Garden of Daffodils; traduzione dall’inglese di Alessandra De Vizzi, Milano, Sperling & Kupfer, 2002, pp. 127-129):

Che dire infine di coloro che si macchiano di spaventose efferatezze in giovane età? Molti provengono da ottime famiglie, e hanno potuto contare sul valido esempio di genitori e amici. Sono dunque semi cattivi, nati semplicemente così, senza alcuna apparente motivazione?

Nel 1874 il quattordicenne Jesse Pomeroy assassinò un bambino di quattro anni; tre anni prima aveva seviziato e violentato altri sette ragazzini. Dopo un periodo di reclusione in riformatorio venne liberato, e tornò a uccidere una bambina di dieci anni e un altro piccino di quattro anni.

Jesse Pomeroy era un seme cattivo?

Mary Flora Bell, descritta dagli psichiatri come manipolativa e pericolosa, aveva solo undici anni quando con l’aiuto di un amico fece volare giù dal tetto di un rifugio di un rifugio antiaereo un bimbo di quattro anni. Due mesi dopo il piccolo Brian Howe, di tre anni, scomparve senza lasciare traccia. Mary dichiarò di essere certa che si era recato a giocare su un’altura di cemento nel luogo esatto dove fu poi ritrovato, strangolato e con le gambe e il ventre squarciati a colpi di forbice. Tutto ciò era accaduto nel 1968 in Inghilterra.

May Flora Bell era un seme cattivo?

La quindicenne Cindy Collier le la quattordicenne Shirley Wolf hanno ucciso nel 1983 in California un’anziana donna infierendo sul suo corpo con ventotto coltellate, dichiarando in seguito di essersi molto divertite e di voler ripetere al più presto l’esperienza.

Queste due ragazze erano semi cattivi?

Albert Fish (il suo vero nome era in realtà Hamilton) è un ottimo esempio di Anima Oscura. Nato il 19 maggio 1870, venne giustiziato sulla sedia elettrica il 16 gennaio 1936 dopo aver ucciso quindici bambini, seviziandone inoltre un centinaio. Si distingue dalla moltitudine di altri assassini per il semplice fatto che a lui si ispira la figura di Hannibal Lecter, il protagonista de "Il silenzio degli innocenti" che divorava le sue prede.

I suoi famigliari più stretti soffrivano di gravi psicosi, e lui stesso era stato etichettato dai medici come afflitto da psicosi paranoica. "Ho sempre desiderato far soffrire gli altri, e soffrire io stesso,. Amo tutti ciò che causa dolore", è stata l’unica spiegazione da lui offerta.

Dei ragazzini, dei bambini che sono già talmente predisposti al male, talmente bramosi di compiere il male, e nei quali è talmente pervertita l’inclinazione alla benevolenza e alla simpatia verso gli altri bambini, più piccoli di loro e perciò più indifesi, più ingenui, più bisognosi di protezione! Eccolo qui, sotto il nostro sguardo inorridito, il mysterium iniquitatis, il mistero della malvagità: il più grande, il più sconcertante di tutti i misteri. Proviamo dunque a sciogliere, o a tentare di sciogliere, questo terribile mistero, nei limiti di ciò che è umanamente possibile, cioè nei limiti che sono consentiti alla ragione naturale. La quale non arriva, per sua natura, a spiegare tutto e che pertanto, a un certo punto, deve cedere il passo a ciò che è più grande di lei: la Rivelazione soprannaturale di Dio stesso che, quale Padre amorevole, le viene incontro e la soccorre, la sostiene, la illumina, là ove essa rischierebbe di smarrirsi del tutto. Senza questo atteggiamento preliminare di umiltà e di modestia, di gratitudine e piena confidenza in Dio, nulla arriveremo mai a capire, ma, al contrario, rischieremo di credere d’aver capito tutto e giungeremo a delle conclusioni totalmente sbagliate, convinti, però, di aver trovato la verità, e sentendoci investiti, non si sa da chi, della filantropica missione di diffonderla ovunque. Partiamo da una verità essenziale e auto-evidente: tutte le cose create tendono al proprio bene. La pianta tende le sue foglie verso il sole, per cogliere la sua luce, di cui ha bisogno; l’animale tende i suoi passi verso l’acqua, per dissetarsi con la sostanza più preziosa e più necessaria affinché il suo organismo possa mantenersi in vita. E l’uomo, verso quale fine tende? Per rispondere a questa domanda, bisogna definire quale sia la natura essenziale dell’uomo, che non consiste, come per le piante e gli animali, nel semplice istinto di sopravvivenza, ma è qualcosa di più. Sulle tracce di Aristotele, potremmo dire che l’uomo è un animale razionale e pertanto che la sua natura essenziale è la ragionevolezza, cosa ben diversa, più sfumata e più ricca, della semplice razionalità illuminista. Ora, se l’uomo è un essere ragionevole, ciò significa che è dotato di ragione e che è capace di usare la ragione, ma non che sia automaticamente ragionevole, perché, se lo fosse, la ragione sarebbe qualcosa di già dato una volta per tutte, come l’istinto per gli animali, mentre invece essa è qualcosa che deve esser coltivato, sviluppato e sempre alimentato e perfezionato. L’istinto non é suscettibile di perfezionamento: il ragno possiede l’istinto di tessere la sua tela per catturare le prede, così come il merlo ha l’istinto di costruirsi il nido per allevare i suoi piccoli. Né la tela del ragno, né il nido del merlo sono suscettibili di perfezionamento: infatti, se anche quel ragno o quel merlo vivessero cento o mille anni, non apprenderebbero a fare meglio quel che l’istinto suggerisce loro di fare, secondo modalità fisse e immutabili. La ragione dell’uomo, al contrario, è come un seme che, per germogliare, deve ricevere un trattamento adeguato, cominciando dal luogo in cui viene affidato alla terra. Se il luogo, il momento o le circostanze non sono favorevoli, quel seme non germoglierà mai: la vicenda del ragazzo-lupo dell’Aveyron, trovato alla fine del XVIII secolo e preso in cura dal dottor Itard, come quella di altri bambini allevati dagli animali selvatici e restituiti tardivamente al consorzio umano, mostrano che se l’intelligenza non viene educata nel tempo opportuno, non giunge mai a maturazione, e la ragionevolezza umana resta allo stadio potenziale, senza più riuscire a svilupparsi (cfr. l’articolo: Il conflitto tra "natura" e "cultura" nel caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/06/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 03/02/18). Ma a cosa serve, la ragione? Perché ci è stata data? Gli scienziati evoluzionisti sostengono che la ragione non ci è stata data, ma si è sviluppata da sola, rispondendo ai meccanismi della lotta per la sopravvivenza, mano a mano che essi facevano aumentare la massa cerebrale e il relativo circuito neuronale. Naturalmente questa è una spiegazione che non spiega nulla, ma che rimanda la spiegazione ad infinitum: qual è l’origine del cervello? È spuntato da solo, come da sola è spuntata la vita dalla materia inorganica, grazie al famoso brodo primordiale e a qualche scarica elettrica caduta su di esso? Se quei signori sapranno mostrarci come un organo del genere possa formarsi da solo, volentieri converremo che possa anche accrescersi, nel corso del tempo, mediante l’uso. E siamo poi così sicuri che cervello e intelligenza siano la stessa cosa? Siamo sicuri che l’intelligenza sia localizzata nel cervello, e che questo sia l’organo di quella? Alcune esperienze limite, come quelle di pre-morte, avvenute mentre l’attività cerebrale, secondo gli strumenti di rilevazione, era azzerata e tuttavia i soggetti vedevano, udivano, capivano, sembrerebbero attestare che la mente può fare a meno del supporto cerebrale e vivere una vita propria, staccata dal corpo: se così fosse, dovremmo rivedere le idee correnti circa l’intelligenza.

Sia come sia, non è questa la sede per addentrarci in una simile discussione; ma torniamo a domandarci: a che serve la ragione? Riteniamo che la risposta più ragionevole sia questa: per raggiungere il massimo bene possibile, vale a dire la felicità. La felicità, poi, consiste nel piacere di portare alla perfezione la propria natura: dunque, la perfezione dell’esistenza è quella di essere felici. Per questo ci è data la ragione, e non per altro: vale a dire per uno scopo intrinsecamente buono, che è quello di sviluppare tutte le possibilità di giungere alla perfezione. Sarebbe assurdo e intrinsecamente contraddittorio, anzi sarebbe un’autentica ironia, se uno strumento così sofisticato come la ragione, ci fosse dato per uno scopo non buono, ad esempio per rendere infelice la nostra esistenza. Ora, abbiamo detto che la natura essenziale dell’essere umano è la ragione; dunque, la massima felicità consisterà nel fare il miglior uso possibile della ragione, lo strumento per attuare il bene dei singoli uomini. Ma il bene dei singoli uomini non può essere conquistato a spese degli altri, e meno ancora per mezzo del male di un gran numero di essi: perciò bisogna concludere che la ragione ci è data per essere felici, ossia perfetti, in un mondo popolato da persone il più possibile perfette, e perciò felici. Ma se vi fossero delle anime intrinsecamente malvagie, tutte le leggi naturali sarebbero sovvertite: perché la natura degli esseri viventi è predisposta affinché essi realizzino il proprio bene e non il proprio male. Si potrebbe obiettare che, per un’anima malvagia, fare il male, ad esempio infliggere gravi sofferenze agli altri, corrisponde a fare il proprio bene, poiché così facendo essa prova un piacere Rispondiamo che il raggiungimento del piacere non attesta, di per sé, il perseguimento del bene, perché esiste un piacere sano, che coincide col bene oggettivo, ed un piacere malato, che è figlio di un bene soggettivo che, in rapporto alla vita complessiva del soggetto e all’ordine universale nel quale è inserito, in realtà equivale a un male. Si prenda il caso dei vampiri psichici, dei quali abbiamo già parlato altra volta: per questi soggetti il piacere consiste nel prelevare energia psichica dagli altri, specialmente dai familiari, facendo oggettivamente del male ad essi e anche a sé medesimi, ma soggettivamente procurandosi un piacere perverso (cfr. l’articolo Dobbiamo difenderci dai "vampiri psichici" con le armi della positività e della grazia, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/07/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 20/01/18). Ora, il pericolo della cultura del relativismo consiste proprio in questo: che negando l’oggettività dei valori e sostituendo il bene al male e il male al bene, apre la strada a ogni sorta di perversioni e giustifica qualunque aberrazione, sempre in nome del diritto di ciascuno a procurarsi il proprio piacere. Ma non tutto ciò che dà piacere è di per sé bene: per lo scabbioso, il piacere sarà grattarsi furiosamente; per il masochista, farsi maltrattare fisicamente e moralmente; per il sadico, infliggere sofferenze agli altri. Se passa il principio che ogni piacere è legittimo perché equivale al bene di colui che lo persegue, la società diventa l’inferno sulla terra. Tornando alle anime oscure: facendo il male, esse inseguono il proprio godimento; ma si tratta di un godimento malato, che non esprime il loro bene, perché il bene dell’uomo è la felicità e la felicità è essere felici secondo la natura dell’uomo e non quella della bestia, ed essa è una natura razionale. Perseguire sistematicamente il male non è un atteggiamento razionale, ma bestiale: quindi conduce a una degradazione della natura umana, il che contraddice il principio di felicità. Colui che desidera il male non può che essere infelice, oltre ad arrecare dolore, e quindi male, anche agli altri. La natura, però, ha fatto gli esseri viventi in maniera che desiderino la felicità e non l’infelicità: dunque è impossibile che delle anime nascano totalmente malvagie. Si deve perciò ipotizzare che il male sia entrato in esse molto presto, ma pur sempre dopo il concepimento. Questo, a sua volta, è un grande mistero: meno tenebroso, tuttavia, di quello d’un male originario, insito in alcune anime…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.