Dimmi chi non c’è, e ti dirò chi sei
21 Dicembre 2019
Un grave problema teologico: ci sono anime perse?
23 Dicembre 2019
Dimmi chi non c’è, e ti dirò chi sei
21 Dicembre 2019
Un grave problema teologico: ci sono anime perse?
23 Dicembre 2019
Mostra tutto

Come l’Inghilterra trattò gli alleati francesi nel 1940

I vincitori scrivono la storia: non scordiamoci mai questa semplice verità, se vogliamo evitare di farci manipolare dal potere. Il poter vigente è quella finanziario, ed è uscito rafforzato e definitivamente vittorioso dall’ultimo cimento in cui ha dovuto battersi anche con le armi per mantenere il suo dominio planetario: la Seconda guerra mondiale, che è stata veramente lo scontro del sangue contro l’oro. I due grandi centri finanziari erano, e sono, Londra e New York: guarda caso, le due capitali vittoriose, dalle quali il mondo è stato sommerso, dopo il 1945, oltre che dalla Coca-Cola, dalle bistecche di McDonald’s e dal chewingum, da una marea di film, programmi televisivi, romanzi, poesie, giornalini a fumetti, dischi di musica leggera, e naturalmente corsi di lingua inglese, vacanze-studio e corsi universitari a Oxford o ad Harvard: tutto ciò che assicura il dominio dell’immaginario collettivo e delle strutture del pensiero; giacché parlare una determinata lingua significa anche incominciare a pensare in quella lingua, e non più come si pensava prima. Limitandoci alla Gran Bretagna, il Premio Nobel per la Letteratura venne assegnato, nel 1953, a Winston Churchill, il massimo artefice della guerra di distruzione che ha seppellito l’Europa sotto montagne di macerie e di vittime innocenti dei bombardamenti terroristici, principalmente per la sua Storia della Seconda guerra mondiale, nella quale ha fornito la sua versione di quei fatti; la motivazione ufficiale parla della sua padronanza della descrizione storica e biografica e della brillante oratoria in difesa dei valori umani. Proprio così: in difesa dei valori umani! Ciò fa il paio con il Premio Nobel per la Pace assegnato nel 2009 al neo-eletto Barack Obama, per aver rafforzato la diplomazia internazionale e la collaborazione fra i popoli, come recita la motivazione del Comitato di Oslo. Non è uno scherzo: Obama, uno dei più cinici e spietati presidenti americani degli ultimi centro anni! Ebbene: se a vincere la Seconda guerra mondiale fossero stati i Paesi dell’Asse, chi avrebbe vinto il Premio Nobel, negli anni successivi? Quali canzoni avrebbero invaso il mercato musicale, quali film avrebbero spopolato nelle sale cinematografiche, quali romanzi sarebbero stati i più venduti in libreria? E quali sarebbero state le lingue più esportate, ammirate, studiate in Europa e nel resto del mondo? Non crediamo che sia una battuta ipotizzare che il Mein Kampf avrebbe vinto il Nobel per la letteratura: se lo hanno dato a Churchill… Al posto dei Beatles, il mercato della musica leggera sarebbe stato saturato da qualche gruppo tedesco o italiano; al posto del monopolio cinematografico di Hollywood, quello di Cinecittà; e le vacanze-studio che i nostri giovani vanno a fare in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, pieni di reverente ammirazione per quelle società e quei sistemi scolastici, i giovani inglesi e americani verrebbero a farle ora in Germania e in Italia, e magari in Giappone. Chi vince piglia tutto, occupa tutti gli spazi, materiali e mentali, e vive di rendita a tempo indeterminato, se non altro grazie alla sua moneta; chi perde resta a bocca asciutta e deve adeguarsi al ruolo di consumatore dei beni e dei servizi prodotti dai vincitori, e di fornitore di mano d’opera per la loro crescita economica.

Dunque, tornando alla Gran Bretagna, c’è una leggenda dura a morire: che quella nazione, sola, isolata, impavida, abbia resistito alla furia nazista e si sia battuta contro forze strapotenti per la libertà del mondo; che l’Europa, in particolare, le sia eternamente debitrice per essersi fatta carico di guidare la crociata internazionale in difesa della democrazia, contro le abominevoli dittature del Tripartito. Meraviglioso, piccolo popolo innamorato della libertà, e pronto ad affrontare i più duri sacrifici per amore della giustizia, ad esempio in difesa della povera Polonia, ingiustamente aggredita! Quanto importasse della Polonia ai governanti britannici lo si sarebbe visto nel febbraio 1945, alla Conferenza di Yalta, allorché la regalarono a Stalin, insieme a tutti gli altri Paesi centro-orientali: a un dittatore non meno brutale e sanguinario di Hitler. E già che c’erano, gli regalarono anche quei milioni di combattenti antisovietici che avevano lottato con l’Asse ed ora, avvicinandosi la fine della guerra, erano in procinto arrendersi all’esercito inglese, ma si videro consegnare direttamente al boia georgiano affinché li sterminasse subito o li spedisse nei gulag della Siberia. E lo stesso cinismo mostrato verso la Polonia — la quale, si ricordi, probabilmente non avrebbe rifiutato di trattare con Hitler per il Corridoio di Danzica, se Londra non le avesse garantito una cambiale in bianco; cambiale poi onorato solo formalmente — il governo britannico lo avrebbe mostrato anche verso l’alleata di ferro, la Francia, dopo la disfatta dell’esercito francese e il fortunoso reimbarco del proprio corpo di spedizione a Dunkerque. Tutti sanno che, in quella occasione, la flotta inglese riuscì a reimbarcare e condurre in Inghilterra circa 340.000 combattenti (Operazione Dynamo), anche se resta da spiegare l’inerzia della Wehrmacht , che forse ha a che fare col successivo volo di Rudolf Hess e un’ipotesi di pace anglo-tedesca, lasciata sperare all’ingenuo Hitler e poi rimangiata da Churchill, fautore della guerra fino alla distruzione totale del nemico; tutte cose legate forse alla spasmodica ricerca dei Diari di Mussolini da parte del premier inglese dopo la fine della guerra. Hitler fu fatto cadere in una trappola, come ormai è certo che accadde a Saddam Hussein quando gli fu fatto credere che le potenze anglosassoni avrebbero chiuso un occhio sull’invasione del Kuwait, e invece la usarono come pretesto per distruggerlo? Difficile dirlo. Ma, tornando ai misteri di Dunkerque, di quei 340.000 uomini evacuati all’ultimo momento bisogna precisare che ben 115.000 erano francesi, sia soldati che marinai. Le vicende di quegli sfortunati combattenti sono state raccontate in un libro stampato a caldo e poi fatto sparire dopo la guerra, sicché oggi è quasi introvabile, scritto da uno di essi, il tenente di marina Georges Blond. Il suo racconto riguarda le vicende occorse agli equipaggi delle navi francesi che si rifugiarono nei porti inglesi dopo la disfatta alleata nella campagna di Francia. Il 22 giugno 1940, a Compiègne, i rappresentanti del governo di Pétain firmarono l’armistizio con la Germania e il 24 giugno, a Villa Incisa, con l’Italia. In Inghilterra però si era rifugiato il generale De Gaulle, il quale il 18 giugno aveva lanciato un appello, sulle onde di Radio Londra, col quale incitava il popolo francese a non rassegnarsi alla sconfitta e a proseguire la lotta, che presto, affermò, sarebbe divenuta mondiale (come faceva a saperlo?; evidentemente Churchill gli aveva comunicato, in via confidenziale, che il suo amico Roosevelt stava recitando la commedia della neutralità di fronte al popolo americano, ma aveva in animo di entrare nel conflitto alla prima occasione possibile). A quel punto, esistevano di fatto due governi francesi: uno, legittimo, che aveva firmato la resa con le potenze dell’Asse a nome dell’intera nazione; l’altro, espatriato in Gran Bretagna, che voleva proseguire la lotta e si rivolgeva direttamente ai francesi, scavalcandolo quello di Vichy. Noi tutti siamo abituati, perché così ci ha fatto credere la narrazione storica dei vincitori, che il governo "vero" fosse quello di De Gaulle; ma la verità è che il popolo francese si riconosceva al novanta per cento nel legittimo governo di Pétain, e il fatto che la vulgata dominante lo abbia poi raffigurato come un governo asservito a Hitler non sposta d’un millimetro questi fatto, dato che i fatti hanno la qualità, o il vizio, secondo i punti di vista, di non cambiare come banderuole al vento dei vincitori: sono lì, e bisogna giudicarli per quel che sono, non per ciò che si vorrebbe fossero stati. Inutile dire che, dopo lo sbarco in Normandia, la "liberazione" di Parigi e la rinascita della Francia gollista, tutti quanti, a cominciare dai francesi stessi, hanno abbracciato entusiasticamente l’opinione che la "vera" Francia sia sempre stata quella di De Gaulle, il quale non aveva riconosciuto la sconfitta del 1940; ma i fatti, ahimè, dicono il contrario, e dunque bisognerà farsene una ragione.

Pertanto, dopo aver trattenuto nei suoi porti le navi francesi, il 3 luglio il governo britannico decise d’impadronirsene con la forza: aveva bisogno di rafforzare la sua flotta con tutto ciò che poteva raffazzonare, e — come allora si disse – impedire che quelle navi cadessero nelle mani dei tedeschi. Ciò che ne pensavano le autorità francesi e gli equipaggi direttamene interessati, a Churchill non importava affatto. Del resto, questa azione banditesca era in linea con la politica navale britannica di sempre: non fu proprio per il sequestro, arrogante e illegale, di due navi da guerra turche, nel 1914, che il governo ottomano, ancora neutrale, fu spinto ad allearsi con la Germania nella Prima guerra mondiale? L’azione con la quale gli inglesi s’impadronirono, armi alla mano, delle navi francesi, merita pienamente l’aggettivo di brigantesca ed è descritta in ogni particolare dal tenente Bond, che si trovava a bordo della corazzata Paris in qualità di aiutante di bandiera dell’ammiraglio francese comandante la squadra. Basti dire che i picchetti d’assalto mandarono avanti degli uomini con le insegne della Croce Rossa, per meglio ingannare le vittime; e che quando gli equipaggi si resero conto di cosa stesse accadendo e pensarono di autoaffondarsi, i cannoni del porto furono diretti contro le loro navi, minacciandole di distruzione immediata se avessero tentato una simile manovra. Dunque gli inglesi non volevano solo impedire che quelle navi finissero nelle mani dei tedeschi; volevano proprio confiscarle e porle sotto la loro bandiera, per le loro necessità belliche. Ciò significa che i francesi, per essi, come del resto i polacchi o i rifugiati cecoslovacchi, avevano valore solo come strumenti della loro lotta contro l’Asse: altro che preoccupati per la libertà del continente europeo! Del resto, quel che importasse a Churchill dei suoi ex alleati francesi lo si vide a Mers-el-Kébir, sempre il 3 luglio 1940, con l’attacco proditorio e la distruzione della flotta francese del Mediterraneo da parte di quella britannica. E a proposito di banditismo: dopo il reimbarco da Dunkerque, le autorità inglesi fecero circolare fra i soldati e i marinai francesi una serie di vergognose dicerie circa i termini dell’armistizio firmato dal governo di Vichy con la Germania, come la cessione di donne francesi ai soldati tedeschi per la riproduzione della razza ariana. Bond, che di professione era giornalista, fu incaricato dal suo comandante di smentire tali dicerie, ma si vide ostacolato in ogni modo dagli ex alleati britannici.

Al termine della sua drammatica e umiliante esperienza di militare catturato illegalmente da una nazione amica, così Blond giudicava l’Inghilterra e gl’inglesi (da: Memoriale Blond. Ricordi inglesi dopo Dunkerque, del tenente G. Blond della Marina francese, Milano, Rizzoli, 1942, pp. 215-17):

Non so che cosa riservi alla Gran Bretagna l’avvenire né quale sarà l’aspetto futuro delle relazioni franco-inglesi e non è mia intenzione finire questo semplice racconto con conclusioni politiche. Ho raccontato quello che ho visto e inteso, ecco tutto. Naturalmente avrei preferito che le autorità britanniche si comportassero correttamente nei riguardi dei marinai rimasti fedeli al governo Pétain, che non avessero permesso ai degaullisti di organizzare la privazione sistematica della posta, che non avessero rinchiuso in prigioni o nei campi di concentramento gli ufficiali ed i marinai colpevoli di aver gridato ‘Viva Pétain’, che non avessero tolto ai marinai la compagnia dei loro cappellani, che ci avessero trattato secondo le convenzioni militari internazionali. È successo tutt’altra cosa, ma è un fatto del quale non ho alcuna colpa. Non ho nemmeno intenzione di scrivere uno studio sull’Inghilterra. Credevo di conoscere un po’ l’Inghilterra attraverso la sua letteratura e in fondo questa conoscenza non si è dimostrata inutile. Ho infatti ritrovato molti degli aspetti dell’Inghilterra, dei suoi paesaggi, dei suoi costumi e della sua sensibilità che avevo immaginato attraverso la sua produzione letteraria e i suoi poeti. Ma c’è stata una particolarità che non sono riuscito a scoprire completamene, la cui importanza mi è apparsa molto più grande di quella che le attribuivo in base alla conoscenza esteriore e alle informazioni di eminenti specialisti. L’Inghilterra è un mondo chiuso altrettanto quanto lo è stata la Cina imperiale. In Inghilterra nulla di ciò che non sia inglese ha il minimo valore, il minimo senso. Quando l’Inghilterra decise di non fidarsi degli stranieri, i cecoslovacchi antihitleriani furono messi in campi di concentramento o in prigione come gi altri. Il più grande favore che riescono ad ottenere i piloti polacchi che giornalmente rischiano la loro vita per la causa britannica, è quello di vedersi applicare un trattamento di stranieri non nemici. So perfettamente che i francesi, sempre pronti a credere che la maggior parte delle nazioni del mondo adori la Francia e sia pronta a sacrificarsi per essa, difficilmente riescono a immaginare la severità del nazionalismo inglese. Ne ho fatto l’esperienza con varie migliaia di francesi. Per l’Inghilterra un capello dell’ultimo operaio di Londra ha maggior valore della vita di tutti i popoli che non siano britannici. Ecco ciò che gli eminenti specialisti d’Inghilterra non mi avevano insegnato. Ecco ciò che mi insegnò l’Inghilterra in guerra.

Nessuna parola d’odio, come si vede, ma solo amarezza. Gli italiani di allora conoscevano questo lato del carattere inglese, e giornalisti di valore, come Mario Appelius e Concetto Pettinato, sovente ne parlavano (cfr. il nostro articolo Una pagina al giorno: Sono buoni, gli inglesi? di Concetto Pettinato, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/11/17); è dopo che se ne sono scordati. Gli inglesi sono buoni: non ci hanno forse aiutato a massacrarci fra noi nella guerra civile del 1943-45?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.